La presa del palazzo d'inverno

Tue, 07/11/2017 - 16:30
di
Lev Trotsky

Pubblichiamo di seguito, ripresa dal sito di edizioni Alegre un ampio stralcio del capitolo che descrive con precisione, grande ritmo narrativo e partecipazione emotiva la giornata tra il 25 e il 26 ottobre (6 e 7 novembre) di 100 anni fa, raccontata in Storia della rivoluzione russa dal principale dirigente del Comitato militare rivoluzionario del Soviet di Pietrogrado, Lev Trotsky.
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Secondo i piani prestabiliti, si contava di occupare il palazzo d’Inverno nella notte dal 24 al 25 contemporaneamente a tutti gli altri punti-chiave della capitale. Già il 23 era stato costituito per la presa del palazzo un triumvirato, di cui gli esponenti principali erano Podvoisky e Antonov. Un ufficiale del Genio, Sadovsky, fu il terzo designato, ma ben presto si ritirò in quanto preso dalle faccende della guarnigione. Venne sostituito da Ciudnovsky, che era giunto in maggio con Trotsky da un campo di concentramento canadese e aveva passato tre mesi al fronte come soldato. Una parte diretta nelle operazioni la ebbe anche Lascevic, vecchio bolscevico che aveva raggiunto il grado di sottufficiale. Tre anni più tardi, Sadovsky si ricordava che nella sua stanzetta allo Smolny, Podvoisky e Ciudnovsky discutevano accanitamente su una pianta di Pietrogrado il miglior piano d’azione contro il palazzo. Alla fine, era stato deciso di circondare la zona del palazzo d’Inverno con una robusta elisse di cui il lungofiume della Neva sarebbe stato l’asse principale. Dalla parte del fiume, l’accerchiamento doveva essere completato dalla fortezza di Pietro e Paolo, dall’Aurora e da altre navi fatte venire da Kronstadt e dalla flotta da guerra in azione. Per prevenire o bloccare tentativi di Cosacchi o di junkers contro le retrovie, fu deciso di schierare imponenti forze di copertura composte da distaccamenti di rivoluzionari.
Il piano nel suo complesso era troppo macchinoso e complicato dato lo scopo che si prefiggeva. Il tempo stabilito per i preparativi si rivelò insufficiente. Come al solito, si verificavano a ogni passo piccoli intoppi e c’erano calcoli sbagliati. Qui non è stata indicata la direzione giusta; lì il dirigente si è mosso troppo tardi, per aver frainteso le istruzioni: altrove, si attendeva l’aiuto di un’autoblinda. Fare uscire i contingenti militari, unirli alle Guardie rosse, occupare i settori di combattimento, assicurare il collegamento tra i contingenti stessi e lo stato maggiore, per tutto questo ci voleva molto più tempo di quanto non avessero supposto i militanti che discutevano sulla pianta di Pietrogrado.
Quando il Comitato militare rivoluzionario dichiarò verso le 10 del mattino che il governo era stato rovesciato, l’entità del ritardo non era ancora chiara neppure a coloro che dirigevano direttamente l’operazione. Podvoisky aveva promesso la caduta del palazzo d’Inverno «al più tardi per mezzogiorno». Sino a quel momento, sul piano delle operazioni militari tutto andava così bene che nessuno aveva ragione di mettere in dubbio questa scadenza. Ma a mezzogiorno si vide che le posizioni degli assedianti non erano ancora state raggiunte completamente, che gli uomini di Kronstadt non erano ancora arrivati e nel frattempo la difesa del palazzo era stata rinforzata. Come capita quasi sempre, la perdita di tempo provocava altri rinvii. Sotto una forte pressione del comitato, la presa del palazzo fu quindi fissata per le tre e questa volta «definitivamente». Tenendo conto della nuova scadenza che era stata fissata il relatore del Comitato militare rivoluzionario, nella seduta mattutina del Soviet, aveva espresso la speranza che la caduta del palazzo d’Inverno sarebbe avvenuta tra qualche minuto. Ma trascorse un’ora e non si arrivava alla conclusione. Podvoisky che era pure sui carboni ardenti, assicurò per telefono che alle 6 il palazzo sarebbe stato preso, a qualunque costo. Ma la primitiva sicurezza era svanita. E infatti suonarono le sei senza che ci fosse la conclusione. Esasperati dalle pressioni dello Smolny, Podvoisky e Antonov si rifiutarono ormai di fissare una qualsiasi scadenza: il che produsse un serio allarme. Dal punto di vista politico si riteneva indispensabile che al momento dell’apertura del congresso dei soviet tutta la capitale fosse in mano del Comitato militare rivoluzionario: ciò avrebbe semplificato le cose con l’opposizione nel congresso che si sarebbe trovata di fronte al fatto compiuto. Ma l’ora stabilita per l’inizio del congresso era giunta, era stata rinviata ed era giunta di nuovo: il palazzo d’Inverno continuava a resistere. L’assedio del palazzo che si protraeva, divenne così per circa dodici ore il problema centrale dell’insurrezione.
Lo stato maggiore generale delle operazioni restava allo Smolny, dove Lascevic reggeva le fila. Lo stato maggiore di riserva si trovava nella fortezza di Pietro e Paolo, dove era responsabile Blagonravov. C’erano poi tre stati maggiori in sottordine: uno sull’Aurora, l’altro nelle caserme del reggimento Pavlovsky, il terzo nelle caserme degli ufficiali della flotta. Sul terreno dell’azione i dirigenti erano Podvoisky e Antonov, tra cui non sembrava esserci un ordine gerarchico.
Anche nei locali dello stato maggiore generale c’erano tre uomini chini su una pianta: il colonnello Polkovnikov, comandante della regione, il generale Bagratuni capo di stato maggiore, e il generale Alekseev, invitato alla conferenza come più alta autorità. Nonostante un comando tanto qualificato, i piani dei difensori erano infinitamente meno precisi di quelli degli assalitori. È vero che gli inesperti marescialli dell’insurrezione non sapevano concentrare rapidamente le loro truppe e sferrare un colpo al momento stabilito. Ma le truppe c’erano. I marescialli della difesa, al posto delle truppe, avevano vaghe speranze: forse i Cosacchi si sarebbero ripresi; forse si sarebbero trovati contingenti fedeli nelle guarnigioni vicine; forse Kerensky avrebbe condotto delle truppe dal fronte. [...]

Nel palazzo restavano ancora i vecchi servi che ne avevano viste di tutti i colori, non si meravigliavano più di nulla, ma non si erano rimessi ancora dalla paura. Inappuntabili, in livrea bianca con il colletto rosso e con i galloni dorati, questi resti del tempo antico mantenevano nel suntuoso edificio un’atmosfera di ordine e di stabilità. Erano forse i soli a dare ai ministri l’illusione del potere in quell’angosciosa mattinata.
Solo verso le dodici il governo decise infine di affidare il comando della difesa a uno dei suoi membri. Il generale Manikovsky aveva declinato già all’alba l’incarico glorioso offertogli da Kerensky. Un altro militare facente parte del governo, l’ammiraglio Verderevsky, era in uno stato d’animo ancor meno combattivo. Fu quindi un civile a dover dirigere la difesa, e cioè il ministro della Pubblica Assistenza Kisckin. La sua nomina era subito controfirmata da tutti, sotto forma di decreto da sottoporre al Senato: quella gente trovava ancora il tempo per le quisquilie burocratiche. In compenso nessuno pensò al fatto che Kisckin come membro del partito cadetto era doppiamente inviso ai soldati, nelle retrovie e al fronte. A sua volta Kisckin si scelse come aiutanti Palcinsky e Putenberg. Uomo di fiducia degli industriali e difensore delle organizzazioni padronali, Palcinsky era odiato dagli operai. L’ingegner Putenberg era collaboratore di Savinkov che lo stesso partito «abbraccia-tutto» dei socialrivoluzionari aveva espulso dalle sue file come korniloviano. Sospettato di tradimento, Polkovnikov venne destituito. Al suo posto fu nominato il generale Bagratuni che non era per niente diverso da lui. Benché le comunicazioni telefoniche del palazzo d’Inverno e lo stato maggiore con la città fossero tagliate, il palazzo restava collegato con le principali istituzioni tramite il filo speciale, in particolare con il ministero della Guerra, da dove partiva la comunicazione diretta con il gran quartier generale. Probabilmente per la fretta, neppure certi apparecchi in città erano stati isolati. Dal punto di vista militare il collegamento telefonico non aveva alcuna utilità per il governo e dal punto di vista psicologico piuttosto peggiorava la situazione in quanto distruggeva le illusioni. [...]

Si avvicinava mezzogiorno. L’immensa piazza dinanzi al palazzo d’Inverno è ancora deserta. Il governo non ha nessuno per riempirla. Le truppe del Comitato non la occupano in quanto impegnate a tradurre in pratica un programma troppo complesso. Per un vasto raggio continuano a radunarsi truppe, distaccamenti, operai, autoblinde. La zona del palazzo comincia ad assumere l’aspetto di un luogo infettato dalla peste che viene isolato il più possibile per evitare il contatto con il focolaio del contagio.
Il cortile del palazzo d’Inverno che dà sulla piazza, è ingombro di cataste di legna, come il cortile dello Smolny. Da sinistra e da destra si intravvedono le nere sagome dei cannoni da 75. In certi punti ci sono fasci di fucili. La guardia del palazzo, poco numerosa, si tiene addossata all’edificio stesso. Nel cortile e al pianterreno sono disposte le due scuole di sottotenenti di Oranienbaum e di Peterhof, peraltro niente affatto al completo, e una batteria della scuola di artiglieria Costantinovsky con sei cannoni.
Nel pomeriggio arriva un battaglione di junkers del Genio che ha trovato modo di perdere la metà di una compagnia cammin facendo. Il quadro della piazza non era affatto tale da accrescere la combattività degli junkers, che, secondo Stankevic, era già scarsa in precedenza. Nel palazzo ci si accorse che scarseggiavano i rifornimenti: non ci si era affatto preoccupati di questo problema in tempo utile. Un camion carico di pane fu intercettato dalle pattuglie del Comitato. Una parte degli junkers montavano la guardia, gli altri si snervavano nell’inattività. L’incertezza, la fame... nessuna direzione si faceva sentire. Sulla piazza, di fronte al palazzo, e dalla parte del lungofiume, comparvero piccoli gruppi di passanti, dall’apparenza pacifica, che, pur continuando per la loro strada, strappavano i fucili alle sentinelle minacciandole con le rivoltelle.
Tra gli junkers furono scoperti alcuni «agitatori». Erano forse penetrati dal di fuori? No, ancora una volta si trattava evidentemente di sobillatori dall’interno, che riuscivano a creare un fermento anche tra gli allievi ufficiali di Oranien-baum e di Peterhof. I comitati di queste scuole organizzarono una riunione nella sala Bianca e chiesero un rappresentante del governo che fornisse spiegazioni. Arrivarono tutti i ministri, Konovalov in testa. Le discussioni si protrassero per un’ora. Konovalov fu interrotto e finì col tacere. Il ministro dell’Agricoltura Maslov parlava nella sua qualità di vecchio rivoluzionario. Kisckin spiegava agli junkers che il governo aveva deciso di resistere sino all’ultimo. Secondo Stankevic, uno degli junkers intendeva esprimere la volontà di morire per il governo, ma «l’evidente freddezza dei compagni lo trattenne». I discorsi degli altri ministri provocarono poi una vera irritazione: gli junkers impedivano loro di parlare, gridavano e pare anche che fischiassero. I tipi di sangue blu spiegavano l’atteggiamento della maggioranza degli junkers con le loro umili origini sociali: «È gente che viene dalla zappa, sono semianalfabeti, bestioni ignoranti... zoticoni».
L’assemblea nel palazzo assediato si concluse tuttavia con un compromesso: gli junkers acconsentirono a rimanere dopo aver ricevuto la promessa di una direzione attiva e di esatte informazioni sugli avvenimenti. Il direttore della scuola del Genio, nominato comandante della difesa, faceva dei segni a matita su una pianta del palazzo, scrivendo i nomi dei contingenti impegnati. Le forze a disposizione sono suddivise in settori. La maggior parte degli junkers è schierata al pianterreno con il compito di sparare sulla piazza dalle finestre. Ma si proibisce loro di sparare per primi. Il battaglione della scuola del genio è condotto nel cortile per proteggere l’artiglieria. Si costituiscono squadre per lavorare alle barricate. Si forma un reparto di collegamento, composto da quattro uomini per ogni contingente. La batteria di artiglieria è incaricata di difendere l’ingresso principale in caso di irruzione. Nel cortile e dinanzi a questo ingresso si preparano, per la difesa, fortificazioni di cataste di legna. Si stabilisce una parvenza di ordine. Le sentinelle si sentono più sicure.
Nelle prime fasi, sino alla costituzione di un esercito regolare e sinché questo esercito non sia temprato, la guerra civile è anzitutto una guerra di nervi. Non appena verificatosi un leggero aumento di attività da parte degli junkers, che, aprendo il fuoco da dietro le barricate, avevano spazzato la piazza, il campo degli assalitori sopravvalutò al massimo le forze e i mezzi dei difensori. Nonostante il malcontento delle Guardie rosse e dei soldati, i dirigenti decidevano di rinviare l’attacco sino alla concentrazione delle riserve: si attendeva soprattutto l’arrivo dei marinai di Kronstadt. [...]

Nell’estuario della Neva, si odono allegri evviva: i marinai salutano i loro compagni. Sull’Aurora, che fa manovra sul fiume, suona l’orchestra. Antonov pronuncia un breve discorso di benvenuto per i nuovi arrivati: «Ecco il palazzo d’Inverno... Bisogna prenderlo». Del distaccamento di Kronstadt sono entrati a far parte volontariamente gli uomini più decisi e più audaci. Questi marinai con le casacche nere, con i fucili e le cartucce, marceranno senza esitazioni. Lo sbarco è portato a termine rapidamente presso il viale Konnogvardejsky. Sulla nave resta solo una guardia armata.
Ora, le forze sono più che sufficienti. Sulla prospettiva Nevsky forti sbarramenti, sul ponte del canale Ekaterininsky e sul ponte della Mojka autoblinde e cannoni antiaerei puntati contro il palazzo d’Inverno. Dall’altra parte della Mojka gli operai hanno collocato delle mitragliatrici dietro alcuni ripari. Un’autoblinda fa la guardia in via Morskaja. La Neva e tutti i passaggi sul fiume sono in mano agli assalitori. Ciudnovsky e il sottotenente Daskevic ricevono l’ordine di inviare reggimenti della guardia, per sbarrare il Campo di Marte. Blagonravov deve venire dalla fortezza, attraversando il ponte, per prendere contatto con lo sbarramento del reggimento Pavlovsky. Gli uomini appena arrivati da Kronstadt si metteranno in contatto con la fortezza e con il primo equipaggio della flotta. Dopo un fuoco di artiglieria, verrà sferrato l’attacco. [...]
Verso le quattro del pomeriggio Konovalov convocava telefonicamente al palazzo gli uomini politici più vicini al governo: i ministri assediati avevano bisogno almeno di un appoggio morale. Di tutti i personaggi convocati venne solo Nabokov; gli altri preferirono esprimere telefonicamente la loro simpatia. Il ministro Tretiakov si lamentava di Kerensky e del destino: il capo del governo ha preso la fuga, lasciando i colleghi indifesi. Ma arriveranno rinforzi? Forse. Ma perché ancora non sono arrivati? Nabokov faceva le sue condoglianze, guardava furtivamente l’orologio, e si affrettava a congedarsi. Uscì al momento giusto. Poco dopo le sei, il palazzo era infine circondato saldamente dalle truppe del Comitato militare rivoluzionario: il passaggio non era più consentito non solo ai rinforzi, ma neppure a singoli individui.
Dalla parte del viale Konnogvardejsky, del lungofiume dell’Ammiragliato, di via Morskaja, della prospettiva Nevsky, del Campo di Marte, di via Millionnaja, del lungofiume del palazzo, l’elisse dell’assedio diveniva più compatta e si restringeva. Cordoni imponenti partivano dal cancello del giardino del palazzo d’Inverno, già in mano agli assedianti, dall’Arco di Trionfo, tra la piazza del palazzo e via Morskaja, dai piccoli canali presso l’Ermitage, dagli angoli dell’Ammiragliato e della prospettiva Nevsky, vicino al palazzo. Dall’altra parte del fiume, la fortezza di Pietro e Paolo aggrottava le ciglia minacciosa. Sulla Neva l’Aurora puntava i pezzi da sei pollici. Le torpediniere pattugliavano, scendendo e risalendo lungo il fiume. In quelle ore, l’insurrezione aveva l’aspetto di un’operazione militare in grande stile.
Sulla piazza del palazzo che gli junkers avevano fatto sgomberare tre ore prima, comparvero alcune autoblinde che occuparono le entrate e le uscite. I vecchi nomi patriottici erano ancora visibili sui fianchi blindati sotto i nuovi nomi scritti frettolosamente in rosso. Al riparo dei mostri metallici, gli assalitori si sentivano sempre più sicuri sulla piazza. Una delle autoblinde si avvicinò all’ingresso principale del palazzo e, disarmati gli junkers che facevano la guardia, si allontanò senza difficoltà. [...]
I ministri erano snervati. Non avevano niente da dirsi, niente da sperare. Si erano venuti reciprocamente a noia e ciascuno era venuto a noia a se stesso. Alcuni se ne stavano seduti in una specie di torpore, altri se ne andavano su e giù come degli automi. Quelli che avevano la tendenza alle generalizzazioni gettavano uno sguardo indietro, verso il passato, cercando un colpevole. Non era difficile trovarlo: la democrazia! Era stata la democrazia a farli andare al governo, a imporre loro l’enorme fardello, e al momento del pericolo li aveva lasciati senza aiuto. Per una volta, i cadetti erano completamente solidali con i socialisti: sì, la democrazia era colpevole! È vero che formando la coalizione i due gruppi avevano vòlto le spalle anche alla conferenza democratica che pur era così vicina a loro: in fondo, l’indipendenza nei confronti della democrazia era l’idea fondamentale della coalizione. Ma non aveva importanza: per-hé esiste dunque la democrazia, se non per salvare un governo borghese in difficoltà? [...]
Al piano superiore, vicino alla sala degli ufficiali, c’era una sala da pranzo in cui i lacchè della corte servirono a questi signori «un pranzo squisito e vino». Così si potevano dimenticare per un momento le contrarietà. Gli ufficiali facevano calcoli di anzianità, facevano confronti con invidia, recriminavano con il nuovo potere per la lentezza degli avanzamenti. Se la prendevano in modo particolare con Kerensky: ieri al Preparlamento aveva giurato di morire al suo posto, oggi se l’era svignata, travestito da infermiera. Certi ufficiali cercavano di dimostrare al governo l’assurdità di un’ulteriore resistenza. L’energico Palcinsky li accusava di essere bolscevichi e cercò persino di farli arrestare.
Gli junkers desideravano sapere che cosa sarebbe accaduto ed esigevano dal governo risposte che il governo non era in grado di dare. Durante una nuova conversazione degli junkers con i ministri sopraggiunse dallo stato maggiore Kisckin con un ultimatum della fortezza di Pietro e Paolo portato da un automobile e consegnato al quartiermastro generale Poradelov. Il documento, firmato da Antonov, diceva: «arrendetevi e disarmate la guarnigione del palazzo d’Inverno; in caso contrario, la fortezza e le navi da guerra apriranno il fuoco. Venti minuti per riflettere». Il tempo accordato parve troppo breve. Poradelov chiese dieci minuti in più. Per i militari membri del governo, Manikovsky e Verderevsky, la faccenda era molto semplice: visto che non c’era la possibilità di battersi, bisognava pensare alla resa, cioè accettare l’ultimatum. Ma i ministri civili erano inflessibili. Alla fine, si decise di non rispondere all’ultimatum e di fare invece ricorso alla Duma municipale, solo organo legale esistente nella capitale. L’appello alla Duma fu l’ultimo tentativo per ridestare la sopita coscienza della democrazia.
Ritenendo necessario por fine alla resistenza, Poradelov chiese di essere messo a disposizione: «non era certo che la via scelta dal governo provvisorio fosse quella buona». Le incertezze del generale ebbero termine prima ancora che le dimissioni venissero accettate. Mezz’ora più tardi, un distaccamento di Guardie rosse, di marinai e di soldati, sotto il comando di un sottotenente del reggimento Pavlovsky, occupava senza incontrare resistenza lo stato maggiore principale e arrestava il generale quartiermastro, completamente demoralizzato. A rigore, l’occupazione dello stato maggiore avrebbe potuto avvenire da tempo: l’edificio non era affatto difeso dall’interno. Ma sino alla comparsa delle autoblinde sulla piazza gli assedianti temevano che una sortita degli junkers dal palazzo potesse tagliarli fuori.
Perduto lo stato maggiore, il palazzo d’Inverno si sentì ancora più abbandonato. Dalla sala di malachite, le cui finestre davano sulla Neva ed erano un invito ai proiettili dell’Aurora, i ministri si spostarono in una delle innumerevoli sale del palazzo con le finestre sul cortile. I fuochi fu-rono spenti. Sulla tavola era accesa una sola lampada, per di più coperta da un giornale dalla parte delle finestre.
«Quale pericolo corre il palazzo se l’Aurora apre il fuoco?», chiedevano i ministri al collega della marina.
«Sarà ridotto a un mucchio di rovine», rispondeva l’ammiraglio con entusiasmo e non senza una certa fierezza per l’efficienza dell’artiglieria navale. Verderevsky preferiva la resa e aveva un po’ la tendenza a terrorizzare i civili che facevano delle bravate fuori luogo. Ma l’Aurora non sparava. Anche la fortezza taceva. Forse i bolscevichi non si sarebbero decisi a mettere in pratica la loro minaccia? [...]
Dalle strade adiacenti e dai lungofiume furono in molti a notare che il palazzo, sino a poco tempo prima illuminato da centinaia di lampadine elettriche, era piombato improvvisamente nell’oscurità. Tra gli osservatori c’erano anche amici del governo. Uno dei compagni di lotta di Kerensky, Redemeister, notava: «L’oscurità in cui era piombato il palazzo d’Inverno, costituiva un mistero inquietante». Gli amici non fecero nulla per sciogliere l’enigma. Bisogna tuttavia riconoscere che non avevano molte possibilità.
Al riparo delle cataste di legna, gli junkers osservavano con la massima attenzione le evoluzioni dei cordoni sulla piazza, accogliendo ogni movimento del nemico a colpi di fucile e di mitragliatrice. Si rispondeva loro per le rime. Sul far della notte la sparatoria divenne sempre più intensa. Vi furono i primi morti e feriti. Le vittime, tuttavia, ammontavano solo a qualche unità. Sulla piazza, sul lungofiume, in via Millionnaja, gli assedianti si adattavano alle loro posizioni, si nascondevano dietro le sporgenze degli edifici, si riparavano nelle cunette, si addossavano ai muri. Nei contingenti della riserva, i soldati e le Guardie rosse si riscaldavano attorno a falò accesi al calar delle tenebre, e imprecavano contro la lentezza dei dirigenti.
Nel palazzo, gli junkers erano appostati agli ingressi, lungo la scalinata, dinanzi alle porte, nel cortile: i posti di guardia esterni erano addossati alla cancellata e ai muri. L’edificio, che avrebbe potuto ospitare migliaia di uomini, ne conteneva solo alcune centinaia. Le immense sale al di là della zona di difesa sembravano morte. La maggior parte dei domestici del palazzo si erano nascosti o erano fuggiti. Molti ufficiali si erano rifugiati al bar, dove costringevano i servitori che non avevano avuto il tempo di nascondersi, a portare sempre nuove bottiglie. L’orgia di ubriachezza degli ufficiali nel palazzo non poteva restare nascosta agli junkers, ai Cosacchi, agli invalidi, alle donne del battaglione d’assalto. Lo scioglimento si preparava non solo dal di fuori, ma anche dal di dentro. [...]

Antonov-Ovseenko aveva convenuto con Blagonravov che, non appena terminato l’accerchiamento del palazzo, sarebbe stata issata una lanterna rossa sull’antenna della fortezza. Al segnale, l’Aurora avrebbe dovuto sparare una cannonata a salve a scopo intimidatorio. In caso di ostinazione da parte degli assediati, la fortezza avrebbe cominciato a sparare sul palazzo con proiettili di artiglieria leggera. Se il palazzo d’Inverno non si fosse ancora arreso, l’Aurora avrebbe aperto il fuoco effettivo con cannoni da sei pollici. Questa progressione era stata stabilita allo scopo di limitare al massimo le vittime e i danni, qualora non fosse stato possibile evitarli del tutto. Ma la soluzione troppo complessa di un problema semplice minacciava di avere l’effetto contrario. Dovevano verificarsi inevitabilmente difficoltà nell’esecuzione. Cominciarono con la lanterna rossa: non se ne aveva a disposizione neanche una. Si cerca, si perde tempo, e infine se ne trova una. Ma non è tanto facile fissarla all’antenna in modo che sia visibile da ogni lato. Si moltiplicano i tentativi, con risultati incerti e si perde del tempo prezioso.
Tuttavia le difficoltà più grosse sopraggiungono quando entra in scena l’artiglieria. Secondo il rapporto di Blagonravov, si sarebbe potuto aprire il fuoco sul palazzo già a mezzogiorno, al primo segnale. Le cose andarono diversamente. Dato che non c’era artiglieria stabile nella fortezza, tranne un cannone ad avancarica che annunciava il mezzogiorno, si dovettero collocare sui bastioni pezzi da campagna. Questa parte del programma fu effettivamente portata a termine verso mezzogiorno. Ma le cose non marciavano con gli inservienti della batteria. Si sapeva in partenza che la compagnia di artiglieria, che in luglio non si era schierata con i bolscevichi, era poco sicura. Ancora il giorno prima, aveva fatto docilmente la guardia a un ponte su ordine dello stato maggiore. Non c’era da attendersi una pugnalata alla schiena, ma la compagnia non si sarebbe buttata nella mischia per i soviet. Giunta l’ora dell’azione, un sottotenente riferì che i cannoni erano arrugginiti, non c’era olio nei compressori e quindi era impossibile sparare. È probabile che i pezzi di artiglieria fossero effettivamente in cattivo stato, ma il fondo della questione non era questo: gli artiglieri volevano semplicemente sottrarsi a ogni responsabilità e ingannavano anche troppo facilmente l’inesperto commissario. Antonov accorse in fretta su una vedetta – era furibondo. Chi fa fallire il piano? Blagonravov stesso gli racconta la storia della lanterna, dell’olio che non c’è e del sottotenente. Vanno tutti e due a ispezionare i cannoni. Notte, tenebre, pozzanghere nel cortile dopo le recenti piogge. Dall’altra parte del fiume si odono una nutrita sparatoria e il crepitio delle mitragliatrici. Blagonravov si perde nell’oscurità. Sguazzando nelle pozzanghere, bruciando dall’impazienza, inciampando e cadendo nel fango, Antonov erra per il cortile buio dietro al commissario. «Dinanzi a uno dei fanali che gettava una luce fioca – racconta Blagonravov – Antonov si fermò improvvisamente e mi diede un’occhiata scrutatrice guardando da sopra gli occhiali. Vidi nei suoi occhi una malcelata inquietudine». Per un momento Antonov aveva sospettato il tradimento dove non c’era che sbadataggine.
La postazione dei cannoni è infine ritrovata. Gli artiglieri si intestardiscono: la ruggine... i compressori... l’olio. Antonov ordina di far venire ai pezzi alcuni inservienti del poligono della marina e quindi di dare immediatamente il segnale con l’arcaico cannone che dava di solito il segnale del mezzogiorno. Ma gli artiglieri si aggirano a lungo con un’aria sospetta attorno al cannone segnalatore. Evidentemente avevano la sensazione che, anche quando non era distante, al telefono, ma accanto a loro, il comando non fosse fermamente deciso ad adoperare l’artiglieria pesante. Il pesante programma di un bombardamento suggerisce sempre la stessa idea: sarà forse possibile farne a meno?

Qualcuno si precipita nel cortile nell’oscurità, inciampa, cade nel fango, urla una parolaccia, ma senza rabbia, con gioia, e grida con voce soffocata: «Il palazzo si è arreso e i nostri sono entrati!». Abbracci di entusiasmo. Che fortuna questo contrattempo! «Noi ci avevamo pensato!». I compressori sono immediatamente dimenticati. Ma perché la sparatoria non cessa dall’altra parte del fiume? Ci sono forse gruppi di junkers che continuano a resistere dopo la resa? Si è trattato forse di un malinteso? La buona notizia era infatti un malinteso: non era stato preso il palazzo d’Inverno, ma solo lo stato maggiore principale. L’assedio del palazzo continua.
Dopo un segreto accordo con un gruppo di junkers della scuola di Oranienbaum, l’indomabile Ciudnovsky penetra nel palazzo per condurre delle trattative: questo avversario dell’insurrezione non perde occasione per gettarsi nella mischia. Palcinsky fa arrestare il temerario, ma, per insistenza della scuola di Oranienbaum, è costretto a rimettere in libertà sia Ciudnovsky sia una parte degli junkers, che si trascinano dietro un certo numero di cavalieri di San Giorgio. L’improvvisa comparsa degli junkers sulla piazza getta lo scompiglio nelle file degli assedianti. Ma le grida di gioia sono interminabili quando si apprende di avere di fronte uomini che si arrendono. Quelli che cedono non sono però che una piccola minoranza. Gli altri continuano a resistere nei loro rifugi. La sparatoria da parte degli assalitori diviene più nutrita. Una forte luce elettrica nel cortile permette di prendere di mira gli junkers. Costoro hanno difficoltà a spegnere le lampadine: una mano invisibile le riaccende. Gli junkers sparano sulle lampadine, scovano poi l’elettricista e lo costringono a togliere la corrente. [...]

Lascevic aveva intanto inviato alla fortezza due artiglieri della marina. Certo, non erano molto esperti, ma erano bolscevichi, disposti a sparare con pezzi arrugginiti, senza olio nei compressori. Era tutto quello che si chiedeva loro di fare. Per il momento il rumore dell’artiglieria è più importante della precisione del tiro. Antonov comanda di aprire il fuoco. La progressione prevista è rispettata rigorosamente. «Dopo il colpo di preavviso della fortezza – racconta Flerovsky – tuonò l’Aurora. Il fragore e la fiammata di un tiro a salve fanno molta più impressione di un tiro effettivo. I curiosi saltavano giù dal parapetto di granito del lungofiume, cadevano, strisciavano...». Ciudnovsky si affretta a chiedere: non si potrebbe proporre la resa agli assediati? Antonov è subito d’accordo con lui. Si arrendono un altro gruppo del battaglione femminile d’assalto e un gruppo di junkers. Ciudnovsky vuol lasciare loro le armi, ma Antonov si oppone giustamente a una simile magnanimità. Deposti i fucili sul marciapiede, quelli che si sono arresi se ne vanno sotto scorta lungo via Millionnaja.
Il palazzo d’Inverno continua a resistere. Bisogna farla finita! Si dà l’ordine. Viene aperto il fuoco, non frequente e niente affatto efficace. Di trentacinque colpi sparati in un’ora e mezza o due, soltanto due raggiunsero il bersaglio e danneggiarono solo i rivestimenti in muratura. Gli altri proiettili passarono troppo alti, per fortuna senza provocare danni in città. Dipendeva effettivamente da scarsa abilità? In fondo, si sparava attraverso la Neva su un bersaglio massiccio come il palazzo: non ci voleva molto. Non è il caso di supporre che anche gli artiglieri di Lascevic alzassero il tiro di proposito nella speranza che la faccenda si chiudesse senza danni e senza vittime? È difficile determinare ora i motivi che ispirarono due anonimi marinai. Per parte loro, essi non hanno più dato segno di vita: sono stati riassorbiti nell’immensità della campagna russa o, come molti combattenti di ottobre, sono caduti nella guerra civile dei mesi e degli anni successivi? [...]
La guarnigione del palazzo si era ridotta notevolmente. Se al momento dell’arrivo dei soldati degli Urali, degli invalidi e del battaglione d’assalto femminile, aveva raggiunto il numero di millecinquecento combattenti, più difficilmente di duemila, ora era ridotta a un migliaio e forse molto meno. Solo un miracolo poteva salvarli. [...]

Tranne che nella zona adiacente al palazzo d’Inverno, la vita nelle strade continuò sino a tarda sera. I teatri e i cinema erano aperti. Sembrava che la gente ricca e istruita della capitale non si preoccupasse molto della notizia che il loro governo era sotto il fuoco del cannone.[...]
Lo Smolny esigeva categoricamente una conclusione. Non si può prolungare l’assedio sino al mattino, mantenere la città in una simile tensione, innervosire il congresso, mettere un punto interrogativo su tutti i successi riportati. Lenin manda note irritate. Dal Comitato militare rivoluzionario partono le telefonate, una dopo l’altra. Podvoisky brontola e rimbrotta. Si possono mandare le masse all’attacco, i volontari sono in numero sufficiente. Ma quante vittime ci saranno? E che ne sarà dei ministri e degli junkers? Tuttavia, l’esigenza di arrivare alla conclusione è anche troppo imperiosa. Non resta che dare la parola ai cannoni della marina. Dalla fortezza di Pietro e Paolo un marinaio porta un foglio di carta sull’Aurora: aprire immediatamente il fuoco sul palazzo. Ora, a quanto sembra, tutto è chiaro! Non saranno certo gli artiglieri dell’Aurora a bloccare la faccenda. Ma i dirigenti non sono ancora abbastanza risoluti. Si fa un nuovo tentativo di elusione. «Decidemmo di attendere ancora un quarto d’ora – scrive Flerovsky – avvertendo d’istinto la possibilità di un cambiamento della situazione». D’istinto, si comprende che c’era la tenace speranza di chiudere la faccenda con il semplice ricorso a mezzi dimostrativi. E questa volta «l’istinto non si ingannava»: dopo un quarto d’ora giungeva un emissario direttamente dal palazzo d’Inverno: il palazzo è stato preso!
Il palazzo non si era arreso, era stato preso d’assalto, ma quando ormai la capacità di resistenza degli assediati si era completamente esaurita. Per un ingresso, ormai non più per un’entrata segreta, ma attraverso un cortile sbarrato, si era infiltrato un centinaio di nemici che la guardia demoralizzata aveva scambiato per una delegazione della Duma. Tuttavia si era avuto ancora il tempo di disarmarli. Gli junkers avevano abbandonato i posti nel massimo disordine. Gli altri avevano continuato a montare la guardia, almeno parzialmente. Ma la barriera delle baionette e delle sparatorie tra assedianti e assediati era definitivamente spezzata.
Una parte del palazzo adiacente all’Ermitage è già piena di nemici. Gli junkers cercano di attaccarla dal dietro. Nei corridoi si svolgono incontri e conflitti fantastici. Tutti sono armati: pistola in pugno, granate alla cintura. Ma nessuno spara, nessuno lancia le granate, perché c’è una tale confusione che non è possibile distinguere gli uni dagli altri. Che cosa importa! La sorte del palazzo d’Inverno è ormai decisa.
[...] I vincitori apprendono che Kerensky non c’è e alla gioia sfrenata si accompagna l’amarezza della delusione. Antonov e Ciudnovsky sono nel palazzo. Dov’è il governo? Ecco la porta dinanzi alla quale gli junkers si sono irrigiditi in un atteggiamento di estrema resistenza. Il capo del posto di guardia si precipita dai ministri per domandare se danno l’ordine di resistere sino all’ultimo. No, i ministri non danno un ordine simile. In ogni caso il palazzo è occupato. Niente sangue. Bisogna cedere alla forza. I ministri vogliono arrendersi con dignità, e si siedono attorno al tavolo per dare l’impressione che si tratti di una seduta. Il comandante della difesa ha già trovato il tempo di trattare la resa del palazzo chiedendo come condizione che fosse salva la vita degli junkers, cui peraltro nessuno voleva attentare. Sulla sorte del governo Antonov rifiuta qualsiasi trattativa.
Gli junkers vengono disarmati dinanzi alle ultime porte ancora sorvegliate. I vincitori invadono la sala dei ministri. «Alla testa della folla avanzava, cercando di trattenere le file che si stringevano attorno a lui, un piccolo uomo dall’aspetto misero: abiti in disordine, un cappello a larga tesa inclinato da una parte. Sul naso, un paio di occhiali che reggeva appena. Ma i piccoli occhi brillavano di gioia per la vittoria e di odio per i vinti». Con queste espressioni denigratorie i vinti dipingevano Antonov. Non si stenta a credere che i suoi vestiti e il suo cappello facessero una cattiva impressione: basti ricordare come avesse camminato durante la notte nelle pozzanghere della fortezza di Pietro e Paolo. E non c’è dubbio che avesse un’aria trion-fante: ma dubitiamo che esprimesse odio verso i vinti. «Vi dichiaro in arresto, membri del governo provvisorio», pro-clamò Antonov-Ovseenko in nome del Comitato militare rivoluzionario. L’orologio segnava le 2:10 della notte tra il 25 e il 26 ottobre. «I membri del governo provvisorio cedono alla violenza e si arrendono per evitare uno spargimento di sangue» risponde Konovalov. L’inevitabile rituale era stato scrupolosamente rispettato.

*Tratto dal capitolo "La presa del palazzo d'inverno" di Storia della rivoluzione russa di Lev Trotsky, scritto tra il 1929 e il 1932 e appena ripubblicato da Alegre con la storica traduzione di Livio Maitan e con una prefazione di Enzo Traverso.