La frontiera che ci attraversa

Thu, 22/11/2018 - 17:34

Dopo due settimane di duro viaggio dall'Honduras, passando attraverso il Guatemala e per il sud del Messico, i membri della carovana migrante hanno ricevuto un'offerta dal governo messicano: scegliere se restare in Chiapas o in Oaxaca, i due stati più a sud del Messico, dove avrebbero potuto essere ammessi in un programma d'impiego lavorativo temporaneo, con una regolarizzazione dello status di migrante che avrebbe permesso l'accesso ad altri benefici, come l'accesso al sistema sanitario, alla formazione ed alla mobilità all'interno di questi stati. Il piano, chiamato Estás en Tu Casa [ndt. Sei a casa tua], era parte di un più ampio regime di controllo delle migrazioni all'interno dell'America Centrale che il Messico ha portato avanti negli ultimi anni, con il supporto degli Stati Uniti. La carovana, che al suo picco contava più di 7.000 persone in viaggio dall'Honduras, El Salvador, Guatemala e dallo stesso sud del Messico, è stata solo la più recente e visibile istanza di un processo più ampio, che potremmo leggere come un dislocamento della frontiera statunitense verso il sud, attraverso lo stato del Messico.

Le persone in viaggio nella carovana, in ogni caso, hanno rifiutato l'offerta con un voto collettivo. L'organizzazione Pueblo Sin Fronteras, la quale sta fornendo supporto alla carovana, ha postato un comunicato sulla propria pagina Facebook: “Oggi alle 18.35 del 26 ottobre 2018, un'assemblea della maggioranza dei membri della Caminata Migrante [Carovana Migrante], si è riunita nel Parco Centrale di Arraiga e ha risposto al Piano “Estás en Tu Casa” che il Presidente [Messicano] ha annunciato oggi.” Dopo aver enumerato le ragioni del rifiuto, incluse le limitazioni geografiche del piano, spiegano come esso non sia rivolto alle cause profonde dell'esodo centroamericano. In quanto un atto di molestia da parte delle autorità messicane in materia di immigrazione, il documento conclude:

“Ci appelliamo all'ospitalità delle comunità che attraversiamo. I membri della Caminata Migrante dipendono dal supporto e dalla solidarietà della popolazione messicana, visto che la risposta dei governi è stata più repressiva che umanitaria. Ci appelliamo anche alla società civile, alle organizzazioni umanitarie e alle persone in generale di stare all'erta e di guardare al nostro cammino per evitare, monitorare e condannare ogni abuso o molestia contro i membri di questo esodo e di coloro che li accompagnano.”

E le persone stanno guardando. Nonostante il fatto che i migranti hanno sempre fatto lo stesso percorso per anni, con i 41.760 honduregni in viaggio verso il Messico tra gennaio e settembre di questo anno la carovana sembra abbia mostrato qualcosa di nuovo. Da un lato, la visibilità della carovana è in parte il prodotto della sua centralità rispetto alla strategia di chiusura del Partito Repubblicano nelle elezioni di midterm statunitensi: Donald Trump si è impossessato della carovana dopo la notizia delle pressioni attraverso i confini guatemaltechi e messicani, sperando evidentemente di trasformare le paure sui migranti in voti, in un contesto dove la violenza della destra ha dominato le notizie. Dall'altro lato, questa visibilità è stata parte della strategia dei migranti stessi: voler formare una carovana prima di tutto, come atto di spettacolarizzazione e collettivizzazione di quel viaggio che per molti è stato solitario, estremamente pericoloso e dispendioso, attraverso il Messico per arrivare agli Stati Uniti. Questa strategia, per inciso, ha già preso piede e altre due carovane di circa 2,000 persone si sono formate nella sua scia. Come conclude il comunicato, la strategia della carovana è basata sulla speranza che l'attenzione degli altri – delle popolazioni del mondo, non dei governi – garantirà infine una misura di salvezza.

Negli Stati Uniti ogni risposta pubblica dovrà far fronte alla retorica dell'invasione, della guerra e della militarizzazione delle frontiere alimentata da Trump. Altrettanto notevole, in ogni caso, è la mancanza di alcuna sostantiva risposta da parte del Partito Democratico. Avendo focalizzato tutto sulla sanità durante le midterms i democratici, a quanto pare, non hanno nemmeno risposto alle minacce di Trump sulle misure di emergenza volte a impedire l'ingresso a coloro che viaggiano nella carovana. Queste includono una sospensione in stile Muslim Ban di tutti gli ingressi al confine tra Stati Uniti e Messico; il dispiegamento di oltre 5.000 truppe già presenti al confine, con circa 2.000 pianificate per i prossimi giorni, per un totale previsto di 15.000 unità (più di quanto gli Stati Uniti dispiegarono in Iraq o in Afghanistan); la potenziale violazione del Posse Comitatus Act del 1878 (che limita l'uso delle forze militari per rafforzare la politica interna); e una serie di esercizi di addestramento armato, progettati per lo spettacolo mediatico e per fornire a quelle truppe dispiegate senza una ragione qualcosa per occupare il loro tempo. Eppure, anche se queste azioni sono la cosa più attrattiva in assoluto per la GOTV, il silenzio dei democratici è sintomatico del fatto che quel partito ha scarso interesse ad esprimere una posizione alternativa sull'immigrazione, dal momento che vivono nel timore di perdere gli elettori centristi, il quali dovrebbero avere obiezioni ragionevoli all'idea di una frontiera aperta. Così, anche se il Segretario del DHS dice “Non entrerete” – ignorando il fatto che, come minimo, le persone della carovana hanno il diritto di chiedere lo status di rifugiato che gli Stati Uniti sono vincolati a garantire dalla leggere internazionale – i democratici preferiscono evitare l'argomento.

La risposta della destra statunitense è prevedibile; il nativismo, sia in quanto politica pubblica che violenza privata, è una figura regnante nella reazione contemporanea. La risposta dei politici democratici, per chiunque abbia seguito la loro posizione sull'immigrazione nell'ultimo mezzo secolo, è altrettanto prevedibile. Ma il fatto che queste politiche siano la routine non deve smussare l'urgenza di una risposta alla carovana radicalmente differente; ciò che è assolutamente necessario è una posizione internazionalista, una caratteristica centrale di qualsiasi strategia che ambisca allo sbaragliamento mondiale delle barbarie.

Se usciamo dalle narrazioni mediatiche, pensiamo oltre l'immediato orizzonte elettorale e alleniamo i nostri sguardi sulle pratiche di organizzazione dei migranti e sulla solidarietà, le basi di una tale politica diventano palesemente più chiare. Proprio come la strategia delle destre basate sull'alimentare la politica del terrore dei bianchi, a partire dalla tattica di visibilizzazione dei migranti nella forma di carovana noi proponiamo di rispondere rimettendo al centro le lotte di quest'ultimi, in particolare dalla prospettiva dell'“autonomia dei migranti”, la quale è stata bene illustrata dal processo decisionale democratico dei membri della carovana sul loro destino collettivo. Con questa prospettiva, diviene evidente che prendere in considerazione le classi politiche negli Stati Uniti, oggi, significa considerare una classe operaia la cui composizione attraversa confini geografici e tesse insieme gli sfruttati e gli espropriati attraverso una regione molto più ampia.

In primo luogo, le migrazioni ci richiedono di adeguarne la portata e di spostare le nostre prospettive sulla storia recente della sinistra negli Stati Uniti, in modo da poterne leggere i trucchi politici e la dinamica dei suoi cicli di contesa seguendo un filo diverso, cercando un punto di accesso differente. La “Nuova Sinistra Americana” ha infatti avuto molti inizi: a Seattle nel 1999, le strade deluse all'inizio della guerra in Iraq, la crisi del 2008, il movimento studentesco l'anno successivo, o Occupy nell'autunno del 2011. Questo elenco sarebbe incompleto, in ogni caso, senza i numeri delle potenti “lotte di confine” nello stesso periodo.

Gli scioperi della protesta A Day Without an Immigrant, o El Gran Paro Estadounidense, furono i più grandi blocchi della produzione mai registrati nella storia degli Stati Uniti, inaugurando nuove forme organizzative e processi che sono ancora in corso in luoghi come Chicago e Los Angeles. Quando in risposta a queste azioni l'amministrazione Obama ha effettuato la più grande retata di deportazioni nella storia del paese, la lotta dei migranti non è retrocessa, ma ha preso nuove forme: ha animato le proteste studentesche, incluse quelle apparentemente contro l'austerità e la privatizzazione; è diventata un punto di riferimento nell'organizzazione della produzione tra migranti in diversi settori; scioperi della fame, proteste, blocchi del lavoro nei centri di detenzione. È stata una parte invisibile ma cruciale nell'escalation della lotta contro le condizioni dei carceri. Persino le due azioni più spettacolari e dirette durante la presidenza di Trump sono avvenute nelle lotte di frontiera: le proteste agli aeroporti (accompagnate dallo sciopero dei tassisti) del 2016 e i più recenti blocchi dell'ICE e l'emergere del Sanctuary movement. Ed inoltre, tra tutte le chiamate allo sciopero generale che sono state fatte, quella di maggior successo fu organizzata nei primi mesi dell'amministrazione Trump, precisamente quella che ricevette la copertura mediatica più misera, persino dalla stampa di sinistra: le azioni guidate dai migranti nel basso ovest e nel sud, che hanno dimostrato il cambiamento geografico del lavoro migrante negli Stati Uniti. Perché queste azioni sono così raramente messe in primo piano – o, francamente, persino citate – quando discutiamo delle prospettive di una politica anticapitalista? Che cosa significherebbe ridisegnare il nostro ultimo ciclo politico con queste lotte come protagoniste?

La chiave insita nella prospettiva teoretica dell'“autonomia delle migrazioni”, emersa all'interno della letteratura accademica grazie a discussioni e collaborazioni politiche tra teorici europei, sociologi statunitensi e attivisti provenienti dal sud globale, è di vedere i migranti stessi come soggetti attivi la cui mobilità ha implicazioni politiche definite. Il punto non è di rendere romantica la migrazione – la migrazione, lo sappiamo, è tutto fuorché splendido – o di imputare motivazioni immediatamente rivoluzionarie a tutti quelli che si incamminano lungo un viaggio simile. Piuttosto, si tratta di prendere qualche distanza da quella sociologia distaccata che vorrebbe fare dei migranti meri oggetti della forza lavoro che passivamente vengono “spinti” da un paese, il cosiddetto paese d'invio, e “tirati” in un altro, in cosiddetto paese ospitante.

È diverso anche da un certo tipo di umanitarismo liberale che potrebbe meramente guardare ai migranti come sintomo dei fallimenti morali del capitalismo. Mentre i fattori economici e morali potrebbero essere in gioco, la migrazione come un fenomeno contemporaneo è “paradigmatica” dei rapporti di sfruttamento del capitalismo, e non solo nella misura in cui illustra il potere dei mercati. La migrazione odierna punta alle multiple forme di sfruttamento e espropriazione che definisce la classe operaia contemporanea: dal furto dei terreni da parte delle grandi corporation, dal cambiamento climatico e dalla violenza di stato che rendono impossibile l'agricoltura di sussistenza ai modi in cui il commercio di droga, la finanza e l'”industria migratoria” sono in grado di estrarre in eccesso indipendentemente dal salario e, in questo processo, rendere la vita invivibile. Eppure, mostra anche la capacità attiva della classe operaia di imporre nuove forme di resistenza alla loro subordinazione – o almeno alle condizioni della loro subordinazione – all'interno ed in relazione alla forza lavoro. (2) In altre parole, i lavoratori devono spostarsi per evitare specifiche condizioni di lavoro, o per evitare di diventare parte dell'esercito di riserva industriale che altrimenti imposta le condizioni dello sfruttamento in un posto come l'Honduras. In questo senso, la migrazione è autonoma perché è qualcosa di concettualmente e logicamente prioritario rispetto all'emergere delle sempre più ampie politiche disciplinari e biopolitiche di confine e di gestione del lavoro da parte dello Stato. Queste tecniche non cercano semplicemente di fermare il flusso di migranti, ma in effetti usano il flusso dei migranti per segmentare ulteriormente e sfruttuare il mercato del lavoro lungo la scia dei migranti, a partire da quelli di origine fino a quelli ospitanti, passando per quelli di mezzo.

Il regime dell'“illegalità” dei migranti, ad esempio, segmenta il mercato del lavoro domestico negli Stati Uniti, e per estensione, la sua forza lavoro. Alcuni lavoratori sono soggetti a contratti di lavoro inferiori che sono attuabili, almeno in parte, attraverso la minaccia incombente di espulsione derivante dalla precarietà legale studiata a tavolino. Ma alla fine la strutturazione storica di questa stessa categoria è una risposta strategia alla questione del rifiuto da parte dei lavoratori in un contesto (il luogo di emigrazione) di accettare il loro destino in quello che Michael Denning ha definito “i rifiuti prodotti dalla globalizzazione”. (3) È dopotutto, secondo Marx, la doppia libertà della dipendenza da espropriazione del salario che sta definendo la caratteristica della classe operaia e, in questo senso, questi individui partecipano al “proletariato salta-globo annuale dei lavoratori stagionali con navi a vapore, ferrovie o automobili” o “dalla separazione radicale delle migrazioni aeree legate da anni alle rimesse e alle telefonate”, dovrebbero essere al primo posto in quanto fanti letterari della classe operaia. (4)

Nel caso dell’Honduras, come in gran parte della storia moderna dell’America Latina, le condizioni di sfruttamento e le relazioni di classe non possono essere separate dal potere imperialista regionale del capitale e dello stato americano. In un certo senso, quindi, il circuito delle difficili condizioni della classe operaia all’estero e la condizione di “illegalità” in territorio statunitense possono essere visti come un insieme di dispositivi collegati per governare la mobilità stessa, una caratteristica permanente dell’autonomia del lavoro, che gli sfruttati hanno utilizzato come forma di resistenza anche nei regimi di lavoro più repressivi, come la schiavitù nelle piantagioni. (5) Questo circuito transnazionale raggiunge il suo apice nella ristrutturazione reciproca dei mercati del lavoro dell’America Centrale, attraverso la creazioni di posti di lavoro in, ad esempio, call center per i migranti deportati e rimpatriati che hanno vissuto negli Stati Uniti. I regimi della frontiera e delle migrazioni dello stato capitalista non si limitano a respingere i migranti o a flettere la sovranità nazionale, ma cercano di trovare sempre nuove opportunità di lavoro a basso costo, sia che i migranti arrivino o che se ne vadano. Il punto è che i migranti vanno e vengono; il loro organismo è la base per i regimi di conquista continuamente moltiplicati dal capitale, e il loro movimento è quindi parte di una lotta di classe.

Ma anche se la specificità congiunturale dell’accresciuta consapevolezza della caravana de migrantes è per noi un ovvio impulso a cogliere l’autonomia delle migrazioni odierne, dobbiamo anche notare che lo spettacolo di frontiera di migliaia di persone che attraversano fisicamente la zona di confine svolge solo la metà del lavoro per spiegare l’autonomia della migrazione. Dobbiamo confrontarci anche con i modi in cui evidenzia le mutazioni rispetto alla pratica di rafforzamento delle frontiere. Sempre più spesso, la sorveglianza dei confini della nazione è difficilmente limitata ai confini fisici di un paese perché è anche inscritta al suo interno, così come è proiettata oltre, nei territori apparentemente governati da altri Stati. L’“illegalità” è diventata la tecnologia preferita del capitale globale per estendere i confini oltre i limiti geografici. Punta alla proliferazione di negoziati di riconfinamento nello spazio fisico della frontiera come ai contratti di lavoro differenziali che sono arrivati a definire la segmentazione del lavoro americano, come manifestato nei barrios ghettizzati, nei centri di detenzione per i migranti e contro le politiche come la California’s Proposition 187 o l’Arizona’s SB 1070 o HR4437. Letta in tal modo, l’autonomia dei migranti è un concetto che collega lo “spettacolo di confine” con le potenti “lotte di confine” interne, evidenziando un repertorio di tattiche che include anche l’assimilazione nei modi tradizionali di lavoro organizzato come AFL-CIO, SEIU e AFSCME, i cosiddetti nuovi centri per i lavoratori migranti e altre forme di insorgenza e sabotaggio della classe operaia. (6)

La prospettiva dell’“autonomia della migrazione” pone quindi una politica che si allontana dal “popolo” come soggetto di democrazia elettorale, perché la migrazione è in se un atto di sfida politica alla sovranità statale, sia nell’atto di attraversamento delle frontiere che nella presenza di coloro che lo stato non riconosce o include in maniera differenziale. La prospettiva partigiana interna alla politica statunitense sembra solo registrare il fenomeno della migrazione come uno “spettacolo di frontiera” in maniera strumentale. Ciò vale per entrambe le parti, nella misura in cui i democratici sono felici di rispondere unicamente quando i metodi di controllo della frontiera più repressivi e visibili, come la separazione dei bambini o il divieto di muoversi, vengono agiti dai loro avversari. Questi momenti spettacolari di falsa compassione contrastano con il fatto, molto citato dalla sinistra socialista in questi giorni, che tra i presidenti statunitensi Obama ancora detiene il primato per le deportazioni effettuate. D’altra parte, la migrazione come movimento sociale autonomo, o come movimento che pone un soggetto la cui attenzione ovviamente non è – e non potrebbe essere – l’arena elettorale, suggerisce un orizzonte politico del tutto nuovo, in cui la mobilità è una forma di resistenza e la base per nuove posizioni soggettive all’interno del capitalismo, considerate nella sua dimensione globale (7). Quello che Yann Moulier Boutang definisce, in un’opera dirompente, la “forza di defezione anonima, collettiva, continua e incontenibile” non è quindi contrapposta alla lotta di classe, ma è una costitutiva caratteristica di essa, con potenti effetti strutturanti nella sua formazione. (8)

L’importanza di questo punto sta nel dire che oggi, in modo simile, non possiamo vedere i rifugiati e gli altri migranti solo attraverso una lente apolitica, poiché la loro attività pone sfide a chiunque sia interessato alla politica della classe operaia negli Stati Uniti. Quale orizzonte apre questa prospettiva sull’autonomia della migrazione? Quali linee di rivolta emisferica possono essere tracciate attraverso di essa? Come potrebbe alterare la nostra comprensione del rapporto teso tra socialismo ed elettoralismo?

Noi suggeriremmo che certe coordinate della politica socialista possono e debbano essere ricalibrate prendendo sul serio il fatto dimostrato chiaramente dalla carovana: che, sociologicamente, la classe operaia americana non è limitata alla cittadinanza o allo spazio geografico degli Stati Uniti, e che la politica del proletariato sciolto eccede necessariamente anche da questi spazi. Il conflitto di classe come fenomeno politico, in altre parole, ha valenze che superano di gran lunga il modello del cittadino con documenti, l’arena elettorale e le sue concezioni del “politico” stesso. Per attirare l’attenzione necessaria alla sfida posta dalla carovana a queste forme è necessario che pensiamo alla mobilità proletaria collettiva, al mutuo aiuto e quello che forse potremmo definire una sorta di riproduzione sociale mobile come se stesse sviluppando una politica che non solo trasgredisce i confini, ma eccede alla loro logica. (9).

Per tornare alla ricezione mediata degli spettacoli di confine e della visibilità dei migranti negli Stati Uniti, vediamo due risposte importanti che hanno eclissato l’azione autonoma dei migranti, così come le recenti proposte radicali simili a quella sull'abolizione dell’ICE:

1) Trump e altri importanti repubblicani liquidano apertamente l’azione dei migranti, cospirando sul fatto che sono stati i democratici, il Venezuela, o qualcuno dei loro altri soliti sospetti (tipo Soros) che, segretamente, hanno pagato i migranti per venire negli Stati Uniti. Inoltre suggeriscono che, lungi dall’essere parte di una rete socioeconomica con molti legami negli Stati Uniti, la carovana migrante è composta da “estranei” e per questo la sua esistenza è una sorta di atto di guerra. (Infatti, come ulteriore prova di questa assurda visione delle cose, al di là della ripetuta insistenza sul fatto che la carovana includesse i “mediorientali”, bisogna ricordarsi che i commentatori conservatori sono arrivati al punto di sostenere che la carovana avrebbe portato un’epidemia di vaiolo – una malattia globalmente sradicata nel 1980. Negli immaginari che produce e dilata, la carovana viene codificata simultaneamente come un’orda di invasori e un cavallo di Troia batteriologico che i liberarli sono stroppo sciocchi per vedere per quello che è).

2) L’opzione liberal-democratica era, al contrario, una sorta di risposta moralistica, che dipingeva i migranti come vittime delle circostanze e come persone senza opzioni, le quali speravano di poter migliorare le condizioni di vita che le hanno costrette a migrare: la corruzione politica in America Centrale, la carenza di opportunità economiche, la violenza più che reale delle bande armate, etc. Quest’ultima lettura non mette in questione la distinzione interna/esterna che sottintende la cornice di guerra che sottende la posizione repubblicana; si lamenta solo che questa disparità sta avendo i suoi (prevedibili) effetti di costringere i migranti a venire negli Stati Uniti. Inoltre, quest’ultima lettura assume che ciò che i migranti stanno facendo è quello che Anne McNevin descrive come “una richiesta di inclusione, un gesto magnanimo e simbolico con il quale lo stato riscrive i suoi legittimi poteri di discrezione” (10) Riguardo al movimento dei migranti sans-papiers (coloro non in possesso di documenti) in Francia, essa indica una richiesta politica alternativa: “una richiesta di riconoscimento dei diritti. I sans-papiers rivendicano il diritto di appartenenza che esiste prima dell’assegnazione formale della cittadinanza, e sulla quale ora essi insistono per il riconoscimento legale.” (11)

Il caso dei sans-papiers è in effetti istruttivo per diversi motivi. In primo luogo, le prime dimostrazioni pubbliche e dichiarazioni esplosive dei sans-papiers nel 1996 si legarono agli importanti sforzi organizzativi dei migranti senza documenti in diversi contesti sociali: negli ostelli dei lavoratori, nelle chiese, nei quartieri, nei luoghi di lavoro. In secondo luogo, i partecipanti coinvolti, provenienti da diversi paesi dell’Africa Occidentale, il Maghreb ed anche dai Caraibi, hanno scelto di andare nella metropoli francese in relazione alla sua storia coloniale. (12) È importante sottolineare che la situazione politica ed economica dell’Honduras è in realtà un effetto diretto della politica estera degli Stati Uniti e delle operazioni di dispossessamento del capitale globale (si veda ad esempio le conseguenze devastanti della deregolamentazione delle industrie in relazione all’ambiente in Houduras, oltre al grave aumento delle diseguaglianze economiche e ai tagli alla spesa sociale a partire dal colpo di stato del 2009). Questa è una base potenziale su cui agire la richiesta del diritto di collaborazione in cui sia gli Stati Uniti che molte altre parti del mondo avrebbero voluto essere incluse. Ciò che sconvolge dell’autonomia della migrazione è l’assunto che l’azione della politica è leggibile solo nella misura in cui è documentata o territorialmente sanzionata, e quindi può essere tradotta attraverso forme rappresentative. In breve, la carovana ci obbliga a lottare con l’efficacia politica di queste forme di auto-attività che sono indifferenti o direttamente opposte alle contestazioni elettorali; che sono registrate invece in tutt’altro terreno; che misurano il loro successo nella misura in cui coltivano l’azione politica e costituiscono forme organizzative puntando oltre lo stato e i suoi apparati, oltre la nazione, la cittadinanza legale e le differenze sociali.

In un contesto in cui la risposta umanitaria è stata l'unica ovvia alternativa al nativismo e alla militarizzazione, la prima è ovviamente preferibile. I movimenti per i migranti “Sanctuary” di ispirazione religiosa sono un esempio di lavoro prezioso, seppur insufficiente, che si svolge in questo contesto. Eppure una caratteristica delle recenti lotte attorno a Sanctuary, rispetto ai movimenti degli anni '80 in cui apparvero coalizioni di gruppi antimperialisti come CISPES e il Nicaragua Solidarity Network con iniziative basate sulla fede, è stata la mancanza di una chiara connessione verso un'alternativa politica che potrebbe andare oltre la difesa e offrire un collegamento tra la questione della migrazione e un'orizzonte radicale più espansivo. Il contrappunto politico necessario per rompere sia con la violenza repubblicana che con l'inazione democratica si basa sulla nozione che “noi” americani accogliamo “loro”, migranti stranieri; piuttosto, riconosciamo semplicemente la nostra comune appartenenza a qualcosa che già esiste, economicamente e storicamente.

Ciò che è necessario allora è una risposta politica, basata non solo sull'impegno morale, ma su una comprensione di come la migrazione stessa, specialmente nell'incredibile forma collettiva e democratica della carovana, è una sfida politica allo stato capitalista e il rifiuto ad accettare le condizioni di sfruttamento offerte nel sistema capitalista. Di già, scegliendo di migrare collettivamente, determinando la propria strada, la carovana sfugge e sfida l'industria della migrazione – i coyote, la polizia, i capi delle bande, e via dicendo, quelli che insomma traggono direttamente profitto da questa forma di mobilità – e si affida invece al supporto autorganizzato delle comunità che incontra lungo la strada. La forma stessa della carovana, nel trasformare l'evento quotidiano della migrazione in uno spettacolo, sta direttamente rivendicando un'istanza politica nel rendere visibili gli invisibili e gli ignorati. Una risposta politica dovrebbe quindi riconoscere la carovana come un atto concreto di rifiuto e come un movimento di politicizzazione. E una tale risposta richiederebbe un'osservazione più incisiva alle concezioni politiche condivise tra le divisioni simboliche. Perché mentre le fissazioni allarmistiche di Trump e le indurite frazioni di estrema destra del GOP sono entrambe atroci e prevedibili, fissarsi troppo da vicino sulla loro iperbole fascista potrebbe coprire qualcos'altro: il fatto che le loro dicotomie di base sul dentro/fuori e su inclusione/esclusione, che sono alla base della cittadinanza e danno una sovranità territoriale legittima della legge, hanno radici molti più ampie e profonde della storia del conservatorismo americano.

Ma l'autonomia delle migrazioni non significa che i migranti debbano marciare da soli. Al contrario, la carovana, come esposizione e promemoria delle migrazioni in quanto caratteristica costante del capitalismo globale, è un'opportunità per sviluppare nuove pratiche di traduzione politica. Quelli che si trovano entro i confini geograficamente definiti degli Stati Uniti devono cercare di amplificare il punto già suggerito dalla stessa esistenza e dalla visibilità della carovana: le persone che migrano hanno il diritto a rivendicare la giustizia, la solidarietà e sono già parte di una più ampia comunità americana nella misura in cui la loro esistenza politica ed economica è inseparabile dalle operazioni politiche ed economiche dell'imperialismo statunitense. Come scrive Mike Davis, “è necessario iniziare ad immaginare progetti più audaci di azioni coordinate tra le sinistre in tutti i paesi dell'America. Siamo tutti, infine, prigionieri dello stesso maligno “sogno americano”. (13)

La lotta dei migranti segna quindi la realtà e la possibilità più espansiva di ciò che McNevin chiama una maggiore appartenenza politica, e quindi è nostro compito di aumentare questa possibilità attraverso l'offerta di un'alternativa “domestica” alle nozioni comuni di sovranità, guerra, paternalismo compassionevole, etc. Ciò significa rendere ancora più visibile la possibilità di ingresso, inclusione e sicurezza per i migranti, ovvero offrire ciò che Kataryne Mitchell e Matthew Sparke chiamano “solidarietà geosociale”. Significa il rifiuto di elaborare questo evento attraverso una lente di paura o di repulsione violenta, ma anche il rifiuto di relegare questo evento ad essere una nota in calce al supposto nucleo strategico del lavoro elettorale. Invece, una vera alternativa “domestica” insiste nel considerare che forse “noi” non siamo chi pensavamo di essere. (14)

Dopo tutto, la genealogia della politica socialista comunista o rivoluzionaria negli Stati Uniti rivela una storia ibrida e dispersa di radicalismi migranti. Basta riflettere qui sull'impatto a lungo termine dei veterani del '48, dei giornali degli immigrati, delle tradizioni sindacali e delle reti socialiste che circolavano negli ambienti urbani e nei centri di produzione. La diffusione transnazionale del sindacalismo rivoluzionario nel 1900 e 1910, che ha portato a gruppi come i Industrial Workers of the World negli Stati Uniti, si è coalizzata attraverso la migrazione internazionale delle classi lavoratrici, l'internazionalizzazione dei processi del lavoro e le attività di superamento delle frontiere dei militanti. (15) Le classi lavoratici messicane e chicane negli Stati Uniti, parte integrante della storia degli Wobblies, trasportavano e riattivavano diversi metodi ed esperienze di lotta. (16) E poi ci sono le ondate di migrazione interna degli afroamericani provenienti dal sud, che germinarono nelle stesse reti di parentela e nacquero dalle stesse organizzazioni che avevano sperimentato i poteri di immaginari distintivi e pratiche di autodeterminazione. (17) Le loro migrazioni furono per certo comprese come atto politico – una linea di fuga, una ricerca di condizioni più propizie, non semplicemente l'inesorabile effetto dello sviluppo capitalista. Le formazioni politiche degli ultimi anni '60 – in particolare le Pantere Nere e le loro varie alleanze locali – sono risultate da, e hanno riformulato, le rotte diasporiche e i movimenti di altre popolazioni. (18) Come noi riesaminiamo i contorni e le sfide di un effettivo internazionalismo proletario oggi, i modi in cui le lotte passate si sono incontrate oltre le frontiere, attraverso combinazioni e associazioni inaspettate ma aperte, sicuramente informeranno le nostre strategie e pratiche organizzative e comuniste. La carovana migrante stabilisce un nuovo punto di partenza.

Note
(1) Mike Davis, Prisoners of the American Dream (Brooklyn: Verso Books, 1999), 314.
(2) Vedi, per esempio, Sandro Mezzadra, " Lo sguardo di autonomia: capitalismo, migrazione e lotta sociale ", trans. Rodrigo Nunes, in The Contested Politics of Mobility: Borderzones and Irregularity , ed. Vicki Squire (London: Routledge, 2010), 121-42; Nicholas De Genova, " The Incorrigible Subject: The Autonomy of Migration and the US Immigration Stalemate ", in Subjectivation in Political Theory and Contemporary Practices , ed. Andreas Oberprantacher e Andrei Siclodi (Londra: Palgrave, 2016), 267-85.
(3) Michael Denning, " Wageless Life ", New Left Review II / 66 (novembre-dicembre 2010): 96.
(4) Denning, "Wageless Life", 81.
(5) De Genova, "Il soggetto incorreggibile", 269.
(6) Per precedenti storici, s ee Mae Ngai, Soggetti impossibili: Illegal Aliens e The Making of Modern America (Princeton: Princeton University Press, 1999), 129-35; vedi anche Devra Weber, "Prospettive storiche sui lavoratori messicani transnazionali in California", in Border Crossings: messicani e messicani-lavoratori , ed. John Mason Hart (Wilmington, DE: SR Books, 1998), 209-243.
(7) Vedi l'incapsulamento sintetico trovato nello studio di Ranabir Samaddar del 1999 sulla migrazione di confine dal Bangladesh al Bengala occidentale: "la decisione dell'immigrato di scappare dalle grinfie dei rapporti sociali e delle gerarchie di potere trincerate nel suo villaggio, città o paese di origine ... è la sua resistenza. "Ranabir Samaddar, The Marginal Nation: Transborder Migration dal Bangladesh al West Bengal (New Delhi - Londra: Sage Publications, 1999), 150, citato in Mezzadra," The Gaze of Autonomy ".
(8) Vedi Yann Moulier Boutang, De l'esclavage au salariat: Économie historique du salariat bridé(Parigi: PUF, 1998), 22. Moulier Boutang definisce anche la varietà di forme che questa mobilità assume, con un cenno a Althusser, come " continente del diritto di fuga. "Questo punto è cruciale per riconsiderare le particolarità della formazione della classe operaia statunitense e i molteplici dispositividel lavoro forzato che hanno segnato la storia dello sviluppo capitalistico nel Nord America. Mette in discussione alcuni tentativi precedenti nella tradizione marxista di pensare all'assenza di una "classe proletaria permanente" negli Stati Uniti durante il 19 ° secolo, vale a dire la teoria della "valvola di sicurezza" di Friedrich Engels presentata nella sua appendice del 1886all'edizione americana di The Condition of the Working Class in Inghilterra . Speriamo di ritornare su questi temi dell'immigrazione, del colonialismo dei coloni e della storia degli Stati Uniti in un altro saggio.
(9) Guarda il ruolo di varie comunità, chiese e organizzazioniguatemaltechee messicanenell'aiutare i migranti a trasferirsi.
(10) Anne McNevin, " L'appartenenza politica in un'epoca neoliberista: la lotta dei sans papier " , 10Studi di cittadinanza, n. 2 (2006): 135-51.
(11) McNevin, "L'appartenenza politica in un'epoca neoliberale", 144.
(12) Vedi Madjiguène Cissé, " The Sans-Papiers: una donna disegna le prime lezioni ", trans. Selma James, Nina Lopez-Jones, Helen West, originariamente pubblicata in Politique 2 (octobre-novembre-décembre 1996); vedi anche Thomas Nail, La figura del migrante(Stanford: Stanford University Press, 2015), e il suo articolo " Alain Badiou e il Sans-Papiers", Angelaki: Journal of theoretical Humanities20, no. 4 (2015): 109-30.
(13) Davis, Prisoners of the American Dream, 314.
(14) Katharyne Mitchell e Matthew Sparke, " Hotspot geopolitica contro solidarietà geosociale: costruzioni contendenti di spazio sicuro per i migranti in Europa ", ambiente e pianificazione D: società e spazio(agosto 2018), np
(15) Vedi Marcel van der Linden, "Secondo pensiero sul sindacalismo rivoluzionario", in Transnational Labor History: Explorations(Aldershot: Ashgate, 2003), 74-75.
(16) Justin Akers Chacón , radicalenel Barrio: magonisti, socialisti, traballanti e comunisti nella classe operaia messicana-americana(Chicago: Haymarket, 2018); vedi anche Christina Heatherton, "Università del radicalismo: Ricardo Flores Magón e Penitenziario di Leavenworth", American Quarterly66, n. 3 (settembre 2014): 557-81.
(17) Steven Hahn, una nazione sotto i nostri piedi: lotte politiche nere nel sud rurale dalla schiavitù alla grande migrazione(Cambridge: Belknap Press, 2005).
(18) Vedi Donna Murch, Living for the City: Migration, Education, and the Rise of the Black Panther Party a Oakland, California(Berkeley: University of California Press, 2010).

*Fonte articolo: https://www.viewpointmag.com/2018/11/07/from-what-shore-does-socialism-a...
Traduzione a cura di Federica Maiucci.