In guerra, nel mezzo - Una storia della working class francese

Tue, 19/06/2018 - 09:27
di
Dario Firenze

Ieri sera a Parigi ho visto a Parigi il film “En Guerre” di Stéphane Brizé con Vincent Lindon. Quest’ultimo interpreta Laurent Amédeo, operaio e militante sindacale protagonista di una storia (purtroppo) molto comune in tutta Europa: il tentativo di chiusura della fabbrica Perrin, di proprietà di un gruppo multinazionale con sede in Germania, e la resistenza tenace, fino all’ultimo secondo, dei suoi dipendenti per salvare il proprio posto di lavoro.

Un film accuratissimo, che riporta in ogni dettaglio, senza essere pedante o forzato, come funziona una lotta sindacale, i suoi ritmi, le sue sfumature: i tavoli di trattativa con i padroni e con i rappresentanti istituzionali, le manifestazioni, i blocchi e gli scioperi in fabbrica, le riunioni intersindacali e gli scontri interni, le assemblee con centinaia di operai, le azioni eclatanti, gli scontri con la polizia. La rabbia, la fatica, la strategia, le bevute al bar, le notti insonni e le albe a presidiare i cancelli della fabbrica. Momenti pieni e mai banali, che rendono la narrazione armoniosa.

In diversi momenti ci si chiede se tutte le scene siano di finzione o se qualche spezzone sia stato girato in contesti e situazioni reali, rendendo fortemente efficace la scelta del regista di uno stile quasi da mockumentary, a metà tra la fiction e il documentario.

Il film segue in particolare il gruppo dei rappresentanti sindacali con al centro un fenomenale Vincent Lindon, con i tratti vagamente stereotipici ma con radici reali del messia, un salvatore, padre e nonno (la pecca del film forse è proprio dare poca profondità e sostanza ai conflitti e alle dinamiche di genere nel gruppo di sindacaliste/I e tra le operaie e operai, come anche alla composizione “razzializzata” del gruppo di lavoratori/trici), che si fa carico fino all’ultimo della responsabilità di salvare la fabbrica, i suoi compagni e compagne, le operaie e gli operai.

Sul finale arrivano un’accelerazione e una rottura particolari, attese ma che in realtà stupiscono per l’andamento del resto della pellicola: la trattativa con i padroni, anche con i referenti tedeschi a guida della multinazionale, naufraga. Il fronte sindacale si rompe. La chiusura della fabbrica è ineluttabile. L’ultimo incontro si chiude con l’assalto degli operai alla macchina dei dirigenti, l’auto viene ribaltata e il direttore tedesco viene ferito alla testa e salvato per miracolo, in un esplicito riferimento alle camice strappate ai dirigenti di Air France di quasi tre anni fa.

Dopo questo episodio la mediazione è definitivamente chiusa e Laurent viene accusato da buona parte dell’intersindacale di essere responsabile del naufragio della trattativa, con la sua ostinata radicalità.

Il giorno seguente, dopo aver tenuto in braccio suo nipote appena nato, Laurent prende una tanica di benzina e si dà fuoco davanti alla sede tedesca della multinazionale. Il film si chiude con la notizia al telegiornale della morte di Laurent e della riapertura della trattativa da parte dei dirigenti.

Un film politico, formativo, tragico che ha un tempismo particolare: cinquant’anni dal Mai 68 che ha infiammato questa città e tutto il paese (unendosi e contribuendo alla fiammata globale), nell'anno della ripresa delle mobilitazioni in Francia, gli scioperi degli cheminots, le facoltà occupate in risposta agli attacchi del governo Macron.

Questo film riesce a interpretare delle questioni politiche attuali ed enormi in modo chiaro e asciutto.

Una questione è sicuramente quella del mercato come arma di devastazione e saccheggio sociale, argomentazione permanente dei dirigenti e dei rappresentanti istituzionali: la Perrin viene chiusa non a causa della crisi, la fabbrica è in positivo e ha aumentato i dividendi degli azionisti, ma per esigenze di “competitività”, e i dirigenti arrivano a stracciare gli accordi sindacali siglati pochi anni prima. Di fronte al mercato non si può fare nulla, bisogna essere realisti: There Is No Alternative.

L’altra questione è la rabbia e la resistenza davanti all’insopportabile, all’ingiustizia e alla violenza di classe mascherate da normalità e legalità. Un’ingiustizia che rende ostinata e senza sosta la battaglia: impensabile mollare di fronte a un’arroganza e una spietatezza tali, arrivando a non riuscire a pensare di vivere se non bruciando di collera e con fiamme reali.

Una storia working class, capace di ricostruire i dettagli e le emozioni di quel pezzo di mondo subalterno e di farlo ricostruendo in modo crudo le sue espressioni, le sue tensioni corporali, le modalità grezze disprezzate dall’upperclass, le risate profonde e le voci potenti quanto inascoltate.

Ma c’è anche, fortissima, la sensazione dell’impossibilità di vincere questa guerra: gli operai provano tutte le strade che conoscono, ma la storia arriva fino all’apice della disperazione e del suicidio, della morte ineluttabile.

È una storia che forse arriva a fotografare un passaggio storico, un momento del “non più e non ancora” come diceva Gramsci, che si vive in Francia in modo prepotente, così come in Italia e un po’ ovunque, sicuramente in Europa e con tratti specifici e a volte divergenti nel resto del mondo.

Un “non più” dove le lotte operaie esistono ancora, rabbiose e resistenti, ma dove il movimento operaio per come lo si è conosciuto nel Novecento non esiste più, e dove queste lotte non riescono più a vincere con gli strumenti e la grammatica utilizzati finora. Un “non ancora” dove non appaiono ancora nuovi strumenti e nuove strutture sociali solide e capaci di affermarsi e rispondere ai colpi subiti. Un momento di guerre di mezzo, dove si rimane incastrati nel processo di “dimenticare la lingua materna nella nuova” come diceva un signore con la barba nato duecento anni fa. Un “tempo rotto” come lo definiva Daniel Bensaid, dove tra le macerie ci si muove costantemente in controtempo, o troppo in ritardo o troppo in anticipo.

Lungo tutto il film, ho pensato alle operaie e agli operai della MAFLOW mentre lottavano contro la chiusura della fabbrica, ad alcuni di quei momenti esatti narrati nel film che accadevano anni fa alla fabbrica di Trezzano sul Naviglio: le loro assemblee, i loro scioperi, la loro rabbia, la loro fatica, la loro determinazione, la loro forza. Momenti di una lotta alla quale in molte e molti (come il sottoscritto) hanno partecipato, portato sostegno, scritto e raccontato, che insieme a tante altre vertenze operaie hanno mostrato allo stesso tempo combattività enorme ma anche l'infrangersi di fronte alle corazzate delle multinazionali della controparte.

Ma le operaie e operai di Ri-MAFLOW hanno provato a dare un finale diverso alla propria storia: con l’occupazione e l’autogestione della fabbrica da più di 5 anni stanno percorrendo una strada difficile e incerta ma che produce ogni giorno qualcosa di inaspettato per la propria vita e per una comunità molto più ampia. Relazioni di mutuo soccorso e di solidarietà, economiche e sindacali, per la ricostruzione di un campo dove vivere questa fase di mezzo, provare a interrogarsi e ipotizzare delle risposte, nelle idee e nelle pratiche, in un cammino aperto costruito con molte altre realtà all’interno della rete nazionale Fuorimercato.

Quello di Stéphane Brizé è un film da vedere e rivedere, magari proprio in Ri-MAFLOW e in altri luoghi della lotta di classe di oggi. Per continuare a stare insieme in questo mezzo, imparare e mettere in pratica quello che manca, inventare quell’ignoto sempre più urgente e necessario.