America Latina: la fine dell'età dell'oro? [Parte II]

Thu, 19/04/2018 - 10:20

[Leggi la prima parte dell'articolo]

Un’altra questione etica della discussione, secondo quanto ho capito, è la questione geopolitica, e in questo caso lo spostamento in avanti del livello di integrazione regionale connesso alla valutazione di nuove strategie imperialiste, e le sue interferenze nel continente. Le critiche alla sinistra spesso dicono che voi screditate e non valutate correttamente l’impatto dell’influenza o della destabilizzazione degli Stati Uniti, essenzialmente perché fate un criticismo interno del processo generale e delle scelte di governo. Questo è ciò che afferma il sociologo argentino Atilio Borón, tra gli altri: in molti dei suoi scritti insiste sul fatto che è necessario comprendere che non importa quanto sia moderato il governo progressista, apriranno comunque una nuova ondata di integrazione senza gli USA e che questo può rappresentare un passo gigantesco nella storia regionale con una prospettiva bolivariana. Quindi, cosa pensiamo dello stato di integrazione dell’America Latina, quali sono gli avanzamenti ed i limiti al giorno d’oggi?

ML: Dieci anni fa sono state fatte molte interessanti e speranzose proposte, oltre al fatto che sono venuti diversi impulsi da tutta l’America Latina verso il livello globale, nel senso che l’integrazione regionale era considerata in una direzione diversa da quella presa dall’Unione Europea con la sua costituzione neoliberale, specialmente nei termini in cui la Banca del Sud stava per promuovere progetti di sovranità e sostenibilità e non di sviluppo inteso in senso classico, o con il progetto SUCRE. Sfortunatamente, queste iniziative non hanno avuto successo negli anni, specialmente a causa della resistenza del Brasile, che ha ovviamente un ruolo importante nella regione e che era più orientato verso i suoi colleghi dei paesi BRICS e ha dato priorità ai suoi interessi di potenza mondiale.

EL: Alla fine, il Brasile si è accordato con la Banca del Sud, a condizione che fosse un’altra banca di sviluppo...
Se guardiamo ora al caso della profonda crisi venezuelana, che ha polarizzato le posizioni degli intellettuali (così come quelle della società civile), assistiamo alla traslazione della polarizzazione attorno a due appelli internazionali. Il primo è stato fatto (con la partecipazione attiva di Edgardo) dal Venezuela, “Chiamata internazionale urgente per fermare l’escalation di violenza in Venezuela. Guardiamo al Venezuela, andando oltre le polarizzazioni” che voi avete firmato e, secondariamente, la risposta intitolata “Chi accuserà gli accusatori?”, scritta dai membri del “Network degli Intellettuali e gli Artisti in Difesa dell’Umanità” (REDH), che è una risposta abbastanza ostile. Uno degli argomenti centrali dei membri di REDH è l’affermare che la crisi in Venezuela è prima di tutto il prodotto di un’aggressione imperialista e un’insurrezione del diritto neoliberale tanto quanto una “guerra economica”. Insistono che siamo in un contesto regionale di ritorno al diritto, dopo il colpo in Brasile, e che questo costringe la sinistra a serrare i ranghi dietro al governo che deve affrontare questa aggressione, lasciando da parte le “contraddizioni secondarie”. Al contrario, la chiamata firmata da voi due dice: “Non crediamo, come certi settori di sinistra latino americani affermano, che oggi stiamo cercando di difendere un governo popolare e anti-imperialista. Questo supporto incondizionato di certi attivisti e intellettuali non rivela unicamente una cecità politica, ma è dannoso perché contribuisce, sfortunatamente, al consolidamento di un regime autoritario”.

ML: Un collega recentemente mi ha detto che le prospettive geopolitiche fanno l'interesse delle persone invisibili. E non sono certo che questa sia una contraddizione secondaria. Mi sembra davvero deplorevole il modo in cui ha avuto luogo questo confronto, perché ha chiuso spazi di riflessione invece che aprirli. Credo che in questo momento avremmo bisogno di fare un profonda riflessione, creare spazi di dibattito e non di chiusura, in modo da trovare una soluzione alla crisi venezuelana.

Ho la sensazione che più le persone sono lontane dal processo venezuelano, più hanno bisogno di affermare una specie di identità solidale, che è piuttosto una sorta di riflesso antimperialista astratto, distaccato da quello che succede quotidianamente in Venezuela. Credo che la solidarietà che abbiamo bisogno di costruire sia differente. Non dovrebbero ruotare attorno a noi e al nostro bisogno di affermare un'identità politica come professione a una fede, ma piuttosto metterci insieme alla ricerca di nuovi sentieri, tra le persone concrete. La solidarietà dovrebbe essere proprio per loro, che spesso non hanno gli stessi interessi di un governo.

E questo mi porta a un'autocritica: sono tornato recentemente in Venezuela e ho avuto l'opportunità di parlare con alcuni settori critici verso il chavismo, ed è stato solo in quel momento che ho capito come questo campo si sia trasformato negli ultimi anni. E quanto sia complicato mostrare solidarietà, anche in maniera critica e alternativa, nel contesto ultra polarizzato dei giorni d'oggi. La lettera che ho firmato avrebbe dovuto essere pensata e discussa di più prima di essere pubblicata, ed io avrei dovuto parlare di più con i diversi settori critici con il chavismo prima di firmarla; solo per essere coerente col mio approccio. Sebbene continuo a pensare che è necessario difendere le istituzioni democratiche e certi valori liberali, come affermato anche nella lettera: dobbiamo allargarli e incrementarli e allo stesso tempo difenderli, perché sono il risultato delle lotte passate. Ma soprattutto, credo che un'aggressione esterna non possa mai giustificare gli sbagli che vengono fatti all'interno.
Questa polarizzazione che si è verificata in Venezuela come in altri paesi, non concede sfumature di grigio oltre al bianco e nero, è molto negativa e dannosa per la trasformazione. È davvero difficile esprimere solidarietà senza causare un danno a l'uno o l'altro lato. In quanto femminista, sento anche che il modo in cui questo dibattito si sta strutturando è estremamente patriarcale, pieno di binarismi e di semplificazioni, logiche di guerra e auto-alimentazioni del proprio ego, mentre quello che dovremmo fare è costruire legami e altre pratiche del fare politica, che significa accompagnarci su percorsi di ricerca alternativi.

Infatti, sembra che una certa dialettica del pensiero critico è stata persa in questo dibattito. Riguardo alla polarizzazione del Venezuela, i sostenitori convinti di Maduro sottolineano che la polarizzazione è innanzitutto tra l'alleanza della destra con l'imperialismo contro la “gente” e il governo boliviano. Tale analisi è ovviamente fondata su elementi concreti dati dalle coordinate del conflitto attuale, ma non lascia spazio per comprendere le tensioni, le differenziazioni e le contraddizioni interne al chavismo e anche nel contesto popolare.

ML: C'è una sorta di costruzione artificiale che fa pensare a questa unità tra il governo e le persone, come accadde anche molto a Cuba, ad esempio. In altri termini, il popolo cubano è uno e chi parla per il popolo cubano è per forza il proprio governo. Come se non ci fosse alcun rapporto di dominazione o conflitto di interessi all'interno della società cubana. Tra uomo e donna, ma anche tra stato e società, o tra neri, meticci e bianchi, o tra campagna e città. Da questa prospettiva che unisce popolo e governo in un blocco simbolico, nessuna emancipazione potrà mai davvero nascere. Alla fine, quello che vogliamo è ridurre o superare le relazioni di dominio, se ho ben capito l'obiettivo. In questa costruzione dicotomica, di polarizzazione, una logica di guerra si riattiva, un lascito culturale rimasto dalla Guerra Fredda, che già allora in quel momento storico non ci ha permesso di imparare molte lezioni necessarie. Un eredità che forse era stata in parte superata con la rivolta del '68 e il suo impatto culturale con la società, ma che si sta rievocando ora in maniera alquanto dolorosa.

Edgardo, una domanda sulla situazione in Venezuela: personalmente, non ho firmato nessuno dei due appelli internazionali, perché ho sentito che nessuno dei due parlava dell'urgenza della situazione, della necessità di denunciare l'aggressione imperialista, della destra e dei suoi settori apertamente pro-golpe, ed allo stesso tempo fare un'analisi critica della deriva autoritaria del madurismo, non solo riguardo alla difesa formale della Costituzione del 1999 ma anche il recupero necessario di forme di potere popolare, delle esperienze di autorganizzazione, del progetto comunitario che sopravvive, nonostante tutto, negli interstizi del processo.

EL: Ovviamente c'è stata un'offensiva duratura da parte dell'Impero, gli Stati Uniti. Sin dall'inizio del governo Chávez ci sono stati tentativi da parte del governo nord americano di indebolire questo processo, per ragioni geopolitiche ed economiche. Sappiamo che le riserve di petrolio in Venezuela, come le miniere d'oro, di coltan, di uranio o altre abbondanti riserve minerali nel sud del continente sono essenziali per gli Stati Uniti, sia per loro che per limitare l'accesso ad esse da parte dei nemici globali. Dal 1999, il Venezuela ha rappresentato la porta di ingresso e di snodo per accedere a tutto il continente, e questo è il motivo per cui gli USA hanno supportato il colpo di stato militare del 2002 ed lo sciopero petrolifero per la chiusura delle aziende nel 2002-2003, che ha paralizzato il paese per due mesi, con l'esplicita intenzione di far cadere il governo del Presidente Chávez. Sappiamo che gruppi e partiti dell'estrema destra venezuelana hanno potuto contare sul sostegno economico del Dipartimento di Stato. Il blocco finanziario e le minacce esplicite di intervento militare agitati da Trump non devono assolutamente essere presi alla leggera. Ci sono stati anche interventi importanti di Uribismo e dei paramilitari colombiani. Questo tipo di aggressioni fa parte del panorama attuale della crisi in Venezuela, e nessun rappresentante della sinistra può evitarlo o metterlo in secondo piano.

Ora il problema del processo boliviano è: che cosa vogliamo difendere? Come dovremmo farlo? Dovremmo difendere un governo che ha un discorso aperto con gli USA? O dobbiamo difendere un processo collettivo di natura democratica, anticapitalista e antimperialista che possa puntare ad un orizzonte che risponda alla profonda crisi civile che stiamo attraversando? Dobbiamo difendere il governo di Maduro, che diventa sempre più autoritario, o dovremmo difendere il potenziale di trasformazione emerso nel 1999? Oggi, per preservare il potere del governo Maduro, il clientelismo e le minacce di tagliare gli accessi alla sovvenzione per i beni di prima necessità gioca un ruolo molto più importante (nelle condizioni in cui per un'ampia porzione di popolazione è l'unico modo per avere accesso al cibo) che l'attrazione per la partecipazione popolare alla politica. E lì, sullo sfondo, resta il tema di dibattito: cosa noi capiamo oggi della sinistra? Possiamo pensare alla sinistra senza chiederci che cosa è stato il socialismo dell'ultimo secolo? Delle forze che cercavano di superare la democrazia borghese sono finite per diventare dei regimi autoritari, verticisti e totalitari. Oggi, in Venezuela, dobbiamo chiederci se ci stiamo muovendo nella direzione di incrementare la democrazia o se si sta chiudendo la porta della partecipazione diretta della popolazione alla scelta del destino del paese.

In Venezuela, in un'Assemblea Costituente del 1999 (CA) con livelli altissimi di partecipazione, si è proposto un referendum per decidere come doveva tenersi la CA; i deputati furono eletti con alta partecipazione, i risultati approvati con una maggioranza del 62%, risorse enormi sono state spese per ammodernare il regime elettorale, stabilire una digitalizzazione totale, un sistema trasparente con meccanismi di controllo multipli, e un audit. Un sistema elettorale affidabile, a prova virtuale di frodi tale da essere riconosciuto da numerose organizzazioni internazionali ed esperti elettorali di tutto il mondo. Ma, nel dicembre 2015, l'opposizione ha vinto le elezioni parlamentari con larga maggioranza, e il governo ha dovuto far fronte al dilemma tra il rispettare queste leggi elettorali e rimanere fedeli alla Costituzione del 1999 o, al contrario, fare tutto il possibile per rimanere al potere, anche se avrebbe significato ignorare la volontà della maggioranza della popolazione o sacrificare il sistema elettorale che aveva conquistato tali alti livelli di legittimità. Chiaramente ha scelto per rimanere al potere a tutti i costi.

Passo dopo passo sono state prese decisioni che hanno definito la deriva autoritaria. È stato impedito lo svolgimento del referendum di richiamo del 2016, le elezioni governative di dicembre dello stesso anno sono state rimandate in maniera incostituzionale, le assegnazioni dei seggi dell'Assemblea Nazionale sono sconosciute, e queste usurperanno cariche all'interno della Corte Suprema di Giustizia e del potere esecutivo. Da febbraio 2016 il Presidente ha iniziato a governare utilizzando lo stato di emergenza (“emergenza economica”), violando espressamente le condizioni e il limiti per lo stesso stabilite nella Costituzione del 1999. Assumendosi un potere che secondo la Costituzione corrisponde alla figura di un sovrano, Maduro ha convocato un'Assemblea Nazionale Costituente e i meccanismi elettorali sono stati definiti per garantirsi il controllo totale di quell'assemblea. I 545 membri presenti hanno preso il posto del governo. Quest'assemblea, una volta installata, si è autoproclamata sovra-costituzionale e plenipotenziaria. Molte delle decisioni vengono prese acclamandole all'unanimità senza alcun dibattito. Invece che andare verso l'obiettivo che era stato in teoria scelto, la stesura di una nuova carta costituente, ha iniziato a prendere decisioni in merito a tutte gli ambiti del potere pubblico: ha dismesso gli ufficiali, ha chiamato delle elezioni in condizioni pensate per prevenire o rendere davvero difficile la partecipazione di quelli che non supportavano il governo, ha approvato quella che viene definita la Legge Costituzionale, che di fatto produce l'abolizione della Costituzione del 1999. Sono state adottate leggi retroattive, come la decisione di dichiarare fuorilegge tutti quei partiti che non avevano preso parte al voto maggioritario delle elezioni di dicembre 2017. La partecipazione di candidati di sinistra non scelti direttamente dal PSUV è stata ostacolata. Nel frattempo, il Consiglio Elettorale Nazionale ha effettuato una truffa per bloccare l'elezione di Andrés Velázquez come governatore dello Stato del Bolivia.

Non è soltanto in gioco la difesa formale della Costituzione del 1999, ma la difesa della democrazia; non della democrazia borghese, ma dell'apertura di un processo democratico largo che rappresenta la Costituzione del 1999. C'è stata una pietra miliare unica che ha definito la rottura con l'ordine democratico costituzionale creato allora: l'ordine democratico costituzionale è stato fatto a fette come un salame, pezzo dopo pezzo, finché ci ritroviamo nella situazione attuale in cui non è nemmeno più riconoscibile.

Dopo la descrizione di questo panorama estremamente complesso, dove l'esperienza del progressismo retrocede bruscamente o gradualmente, in cui la sinistra critica o radicale non riesce ad emergere come forza popolare e di massa, dove attualmente le forze elettorali alternative sono la destra neoliberale e a volte insurrezionale, come in alcuni casi in Venezuela, come pensare a delle alternative concrete che pongano fine all'egemonia dei progresisimos e il ritorno di un tardo neoliberalismo? Dalla prospettiva del benessere ed ecosocialista, dalle critiche dei limiti e delle contraddizioni ai governi progressisti, da un punto di vista femminista popolare e de-coloniale, come pensare a delle utopie insieme alle prospettive concrete per la Nostra America?

EL: In Venezuela, l'unica forma di ottimismo è per me al momento il fatto che la crisi è stata così profonda, ha avuto un impatto così forte sulla coscienza collettiva, per cui è possibile che il fascino per il petrolio, del rentismo e dell'inizio di un momento magico di provider e benefattori ha iniziato, lentamente, a dissipare. L'intero dibattito politico destra-sinistra delle ultime decadi si è giocato entro i parametri dell'immaginazione del petrolio, dentro cui sta la nozione del Venezuela come un paese ricco, padrone del più vasto giacimento di petrolio del pianeta. La politica ha ruotato attorno alle richieste dei diversi settori della società fatte allo Stato per accedere a quelle risorse. Inizio a vedere dei segni, ancora lamentevolmente deboli, di una presa di coscienza del fatto che non è più possibile continuare su questo percorso. Abbiamo iniziato ad assumere che un ciclo storico è arrivato alla sua fine. Le persone hanno iniziato a grattarsi la testa, e adesso cosa? Ho avuto per anni relazioni con il più costante e vigoroso processo di organizzazione popolare in Venezuela, Cecosesola. Questo è un network di cooperative che operano in diversi Stati centrali e occidentali del paese e collega un'ampia rete di produttori agricoli e artigianali e consumatori urbani, una grossa cooperativa medica per la salute e anche una pompa funebre. Mi hanno colpito la presenza nelle discussioni quotidiane di argomenti quali il recupero e lo scambio dei semi. Il riconoscimento di un prima e un dopo dell'inizio della crisi. Recentemente, quando qualcuno in una cittadina agricola giunge da una città vicina, gli viene detto di ricordarsi di portare una scatoletta di semi di pomodoro. Questo succede ogni giorno. I semi delle piante di pomodoro ibride, importate e selezionate, non si riproducono; questo non necessariamente perché transgeniche, ma perché si sterilizzano dopo la prima semina. Con la crisi economica, l'accesso ai semi originari è stato bruscamente tagliato. Ora vediamo come vengano recuperate pratiche contadine ancestrali. L'incontro tra gli agricoltori avviene sulla domanda: chi ha i semi di cosa? Si cerca il recupero dei semi autoctoni, gli unici che sono stati preservati su piccola scala per essere scambiati (semi di patata, pomodoro e così via). Questo apre a nuove possibilità. Ci sveglieremo da questo sogno (che si è rivelato un incubo) e penseremo alla possibilità che ci troviamo in un altro posto, in un altro paese, in altre condizioni e la vita va avanti, ma ora in un modo nuovo.

Miriam, quello che Edgardo dice è interessante ma descrive, per il momento, embrioni di potere popolare molto piccoli, che potrebbero non sembrare davvero operativi di fronte alle immense sfide regionali, la globalizzazione finanziaria, il caos mondiale...

ML: Certo è così, ma dipende anche da che punto di vista vedi le cose. Credo che qui in Europa, ad esempio, sarebbe necessario iniziare a diventare consapevoli degli effetti che lo stile di vita consumistico sta causando in altre parti del mondo. Mi sembra che le dimensioni della distruzione che viene causata, non solo in termini ambientali ma anche in termini di tessuto sociale, delle soggettività, sia ben più importante di ciò che viene creduto in Europa, dove tutto questo rimane praticamente invisibile, camuffato dal contesto piacevole e anestetizzante vissuto dai consumatori.

EL: O la convinzione che gli standard di vita del Nord non dipendono dall'estrattivismo nel Sud.

ML: Alcuni di noi lo definiscono lo “stile di vita imperialista”, che presuppone automaticamente che le risorse naturali e il lavoro sottopagato o sfruttato del mondo intero siano per quel 20% della popolazione mondiale che vive nei centri del capitalismo o la classe medio alta delle società periferiche. E se il prodotto è economico, è meglio. Questo da la sensazione che il pianeta sia vicino al collasso ecologico e sociale per via del gigantesco numero di gadget prodotti, di cui nessuno ha veramente bisogno eccetto “il mercato”, per tutto ciò che il capitalismo suggerisce come bisogni artificialmente costruiti. Quindi, qui nei centri capitalistici c'è da porsi un obiettivo davvero molto importante: ridurre la quantità di materia ed energia che viene quotidianamente consumata. Per esempio, il movimento attorno alla decrescita ha posto delle buone prospettive in termini di trasformazione culturale, dove a causa dei disagi col neoliberalismo che hai menzionato prima, le persone riscoprono dimensioni immateriali altre di qualità della vita, ed anche la ricchezza dei vestiti autoprodotti, o del miele, o altro.

Sì, anche qui in Francia attualmente si trovano molte reti contadine alternative, esperienze di autogestione, zone da difendere (ZAD), monete alternative e così via; tuttavia sono esperienze ancora molto piccole.

ML: Certamente, sono reti molto piccole per ora, ma la cosa importante è cercare di contagiare quante più persone possibile con questi immaginari differenti, così che il cambiamento non viene imposto con la forza o dalla crisi, ma dal desiderio stesso. Quelle persone possono sentire e fare l'esperienza sulla propria pelle del fatto che esistono altre dimensioni del buon vivere che possono essere facilmente compensate dall'avere meno cose materiali, e che una decrescita non deve essere vista come se si trattasse di una perdita.
EL: Non come un sacrificio per smettere di avere cose...

Infatti qui si parla sempre di più della conquista necessaria di una felicità sobria e di un'austerità volontaria contro lo spreco dei consumi; questo è un concetto interessante e potente che può essere connesso con la questione del benessere e dell'ecosocialismo.

ML: Ogni volta che vengo in Europa sento che viene vissuto con grande disagio lo stile di vita super accelerato che qui prevale. Molti tra i miei amici sono malati, se non fisicamente lo sono psicologicamente, con stress, depressioni, esaurimenti, attacchi di panico. Le ragioni per cui si arriva a stare male sono sistematicamente nascoste nel discorso dominante, che continua ad associare il benessere con la crescita economica, e molto di più di come viene percepito nel sud globale. Dal punto di vista dell'America Latina, qui nei paesi del centro tutto diventa una riflessione necessaria. Poi, visualizzare ed identificare questi disagi e rendere visibili le altre forme della vita che derivano da essi, sarebbe un passo importante. Perché nel sud, curiosamente, tutti pensano che sia meglio vivere nelle città, mentre in Germania o in Spagna, al contrario, le comunità ecologiche che si spostano in campagna si stanno moltiplicando. In altri termini, sarebbe un passo verso la rottura di questa egemonia dello sviluppo necessario di riflesso, che costringe il sud a ripetere tutti gli errori che sono già stati commessi nelle società del nord, tipo intasare le città di automobili, per esempio. Ma qui nel nord alcuni di questi errori sono stati superati dalle nuove generazioni, come nella divisione del lavoro tra uomo e donna. Ora, nelle generazioni quali la mia e quelle successive, condividere il lavoro di cura non solo tra coppie ma anche oltre la coppia, magari con i propri vicini, nella comunità che si genera in uno spazio ridotto di coesistenza, sta diventando sempre più normale.

C'è anche un altro elemento importante: la costruzione di comunità contro l'individualismo forzato, sia nelle campagne che nelle città. Non intendo dire che la comunità sia il piccolo villaggio campagnolo, ancestrale, sempre uguale nel tempo; intendo una comunità politica in movimento, che incorpora il lavoro di cura come un compito collettivo e la riorganizzazione della vita attorno a ciò che la vita riproduce, e non attorno a ciò che il mercato o il capitale chiede. E credo che dovremmo rendere visibili gli sforzi che sono già stati fatti in questo senso, come le persone vivono relativamente bene, sia nel nord che nel sud del mondo. Nel sud, in parte, si tratta sia di comunità ancestrali che di nuove, mentre nel nord normalmente si sono costituite di recente. Si tratta di cambiare il senso unico dei rapporti dominanti nel modo di pensare e di guardare alle cose che esistono, non occorre reinventare tutto da zero.

Per esempio, esiste questo modo di guardare alle periferie urbane come ad un inferno, nel sud globale prima di tutto. Ma se le guardiamo più da vicino, vediamo come in questi luoghi esistono logiche assolutamente anticapitaliste, per esempio il non lavorare e dare priorità al fare festa, a scambi non mediati dalla logica del denaro... Certo, forse non è il modello, ma in ogni caso non esiste modello e non dovrebbe esserci, e questo è un punto importante da enfatizzare. Non avremo, dopo il socialismo del XX secolo, una ricetta unica da firmare e seguire, ma piuttosto dovremmo favorire una pluralità di alternative, in modo da poterci costruire prendendo qualcosa da ogni cultura e contesto, dalle persone che lì sono coinvolte. Il buon vivere è plurale.

Dobbiamo anche dare spazio a una cultura delle alternative che ci permetta di sbagliare, di fare errori e di imparare da essi. Questi spazi di sperimentazione sociale in cui possiamo dire: bene, ora proveremo questa cosa e se non funziona proviamo qualcos'altro, ma in una logica di collaborazione e non di competizione. Un libro titolato “Lo sviluppo del futuro” afferma che la percentuale della popolazione mondiale realmente inserita nei circuiti del mercato globale neoliberista è a malapena la metà, e tutto il resto è ai margini (2). Questo ci da la speranza, significa che la metà della popolazione mondiale sta in un luogo altro, oltre al modello dominante; dovremmo per questo iniziare a guardarci intorno.

*Fonte articolo: http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article5423
Traduzione a cura di Giulia Di Bella e Federica Maiucci