Rivoluzione, progetto e democrazia: note sul movimento algerino Hirak

Fri, 18/10/2019 - 19:05
di
Nadir Djermoune*

Al settimo mese di mobilitazione continua, il movimento di protesta popolare algerino (Hirak) per la sua diffusione, la sua portata e la mancanza di una risoluzione politica, si situa ormai nella lunga durata e apre un dibattito su un piano più concettuale che relativo agli eventi effettivi. Termini quali rivoluzione, democrazia, processo costituente, classe sociale, oligarchia, “issaba” (parola araba variamente traducibile con "banda di malfattori", "clan" o "gang", ndt), borghesia, sono i termini che ne costituiscono il dibattito e l’azione.

Per cogliere questa dinamica, alcune critiche ed analisi sono ricorse a delle analogie con altri fenomeni simili o considerati tali, sia più vicini nel tempo e nello spazio, come l’attuale movimento sudanese o ancora la rivoluzione tunisina, che più lontani come la rivoluzione russa e quella francese. Queste analogie sono evidentemente necessarie, se almeno ci asteniamo dall’erigerle a modelli assoluti. Esse permettono di situare il futuro dell’Algeria nella storia mondiale e in un dibattito strutturato attorno ad un insieme di riferimenti teorici, metodologici e storici comuni a cui le diverse critiche si riferiscono, qui e altrove.
Questo è ciò che vedremo in questo contributo, a partire dalla realtà sul campo.

Rottura, continuità o transizione?

Il movimento popolare in corso non ha degli ideali che a priori bisogna realizzare. Analogamente agli altri movimenti che hanno segnato la storia moderna dell’umanità, cerca innanzitutto di trovare dei nuovi rapporti politici e sociali, vale a dire trovare la via migliore per uno sviluppo culturale, economico e sociale. Del resto, è a quest’obiettivo di “sviluppare delle forze produttive” che si sono orientate le rivoluzioni che hanno attraversato il ventesimo secolo, rivoluzioni che riguardavano tutte delle società considerate come “arretrate” in termini di sviluppo economico (Russia, Cina, Algeria, Vietnam, Cuba, etc.). Oggi assistiamo ad un blocco dello sviluppo di tali forze produttive che sarà preludio a una rivoluzione sociale [1]?

Ad ogni modo, per restare al caso algerino, è nella sua evoluzione dal 22 febbraio che la posta in gioco diviene sempre più chiara per la società. Se la motivazione che ha scatenato il movimento era situata, sin dagli inizi, sul terreno della “dignità ritrovata” [2], essa sta crescendo situandosi in una critica di ciò che si definisce “Sistema”; ma una critica che resta essenzialmente morale. È questo il senso delle parole d’ordine fondamentali del movimento “Klitou l’bled ya serraquin” (“Voi avete rubato il paese”). Critica che ha colto il regime in grado di mantenerla a questo livello morale, con le sue implicazioni giuridiche, evitando di spingersi ad una critica profonda del sistema economico neoliberale. Oggi, i ladri denunciati da Hirak sono presentati come “Issaba” (bande di malfattori, in arabo).

Questo è un nodo centrale del movimento. Sul campo, si sviluppa la critica secondo cui Gaid Salah tenta di “avvicinarsi al vero popolo che reclama delle azioni”, e denunciare che sarebbe “un abbandono delle aspirazioni delle masse al giudizio dei politici marci e corrotti”. È ciò che pensa, ad esempio, uno dei membri più influenti del “Panel” [3], il giornalista A. Belhimer, il quale considera “che l’esercito accompagna una rivoluzione pacifica, la protegge e si rifiuta di confiscarla, che essa non fa che riprendere laboriosamente ma coraggiosamente il suo afflato dopo un lungo periodo di strumentalizzazione vuota” [4]. Ciò costituisce un sostegno, o un appello, a malapena critico, all’istituzione militare.

Dall’altro lato, c’è la critica che considera Gaid Salah piuttosto come “in fase intimidatoria” nei confronti del movimento di protesta. Se prova a conquistare popolarità incolpando con accanimento tutte le categorie sociali e professionali confuse tra loro, dal ragazzo accusato di aver sollevato l’emblema “amazigh” all’uomo d’affari o l’imprenditore industriale, divenuti “oligarchi” accusati di appropriazione indebita e di corruzione, “ciò può essere il preludio a qualcosa di più grave”, giustamente si mette in discussione questa opinione che è costruita a ritmo di Hirak.

Evitando di peccare di ingenuità, bisogna innanzitutto non minimizzare questo rischio. Evidenziarlo significa soprattutto mettere in guardia e ricordare alla popolazione che ha il diritto di conoscere i motivi di incarcerazione e di esigere dei processi trasparenti. Questa rivendicazione è democratica. Essa stessa è potenzialmente rivoluzionaria nel contesto in cui viviamo, dove la concretizzazione di una rivendicazione transitoria di questo genere porta a delle rotture, specialmente nel sistema della giustizia, poiché è a questo livello che si situa la posta in gioco.

Politicamente, questo si traduce in due posizioni a confronto. La prima sostiene il transito verso un’elezione presidenziale in grado di ristabilire al più presto la stabilità politica del regime e del sistema. La seconda reclama una rottura con lo stato di cose attuale, e di conseguenza un periodo di transizione verso una nuova situazione in sintonia con le ispirazioni del popolo in mobilitazione, verso l’obiettivo di un’assemblea costituente sovrana.

Intanto, le prospettive di un esito giusto e democratico, in questa fase di lotta, si allontanano. Ma il movimento non ha per questo fallito [5], anche se non ha preso la “Casa d’Elmouradia” sul modello della “presa del Palazzo d’inverno” [6], o quella del “palazzo di Cartagine” [7]. La natura e l’ampiezza del movimento richiedono una dinamica di rottura e di transizione. Il termine “transizione” emerge come il più idoneo a tradurre le azioni da affrontare a breve o medio termine, ma pone immediatamente la domanda seguente: come condurre questa transizione e verso quale obiettivo?

La forma che prenderà questa transizione dipenderà, in ultima istanza, dai rapporti di forza che si costruiscono al ritmo di lotte e dal confronto delle progettualità. L’idea dell’assemblea costituente, per esempio, era estremamente minoritaria subito dopo il 22 febbraio. Non si tratta per noi di attendere che venga stabilito un rapporto di forza al servizio degli indigenti per rivendicare la necessità di quest’assemblea, ma di isolare il potere e impedire che vengano trovati consenso e compromessi tra il potere e le frazioni dell’oligarchia. Essa ha come scopo quello di armare il popolo in lotta con parole d’ordine politiche per concretizzare la “caduta del sistema”. È quello che in parte è accaduto. Oggi, l’idea del processo costituente ha convinto una parte di società civile e politica. Per quel che sia l’esito di questa fase di lotta, elezione presidenziale o assemblea costituente, la chiave è per noi l’approfondire il processo che porta verso l’emancipazione sociale e politica.
Considerare che il movimento non è finito non deve, ciononostante, impedirci di sottolinearne le contraddizioni, di vedere l’impasse nella quale oggi si trova.

Il paradigma “gramsciano”

La contraddizione fondamentale nella quale si trova attualmente Hirak ci ricorda il dilemma storico diagnosticato dal dirigente comunista italiano Antonio Gramsci durante la crisi italiana degli anni ’20. Dilemma che si verifica ad ogni impasse rivoluzionaria.

È durante la piena crisi del capitalismo mondiale del 1929 che Gramsci parla di “crisi dell’autorità” o “crisi dell’egemonia” del capitalismo europeo, scrivendo che:
“(…) se la classe dirigente non beneficia più del consenso in suo favore, vale a dire che essa non è più “dirigente” ma “dominante”, esercitando unicamente la forza di coercizione, significa precisamente che le masse si sono distaccate dalle loro ideologie tradizionali e non possono continuare a credere a quello in cui credevano fino ad allora (…)” [8].

Ciò significa che le condizioni politiche per un esito rivoluzionario non si sono ancora verificate. Questo tipo di situazione storica è caratterizzato nella frase più volte citata:
“la crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e che il nuovo non può nascere” [9].

È in quest’impasse tra un potere offeso, incapace di governare, e un movimento popolare che non è ancora capace di costruire un nuovo potere, che può emergere il bonapartismo nota Gilbert Achar [10]. È stato il caso, proporzionalmente, di H. Boumedienne nel 1965. È stato anche lo stesso tipo di contraddizione che ha portato a una dinamica islamista fascistizzante nell’Algeria del 1991. Oggi, l’allarmismo di certi ambienti, in particolare quelli neoliberali, nel cercare una soluzione rapida attraverso un’elezione presidenziale, si muove esattamente in questa direzione: l’obiettivo è di trovare un “Bonaparte” e così evitare un intervento di massa organizzato verso una soluzione democratica larga.

Tuttavia, la nostra situazione attuale è senza alcun dubbio differente dal quella del 1965 o del gennaio del 1991, ed è ancora più lontana dall’Italia di Gramsci. La crisi non è così acuta, né sul piano economico né, su una scala minore, su quello politico.

C’è una crisi che è sopravvenuta nel frattempo, dopo decenni di smantellamento del “contratto sociale” sul quale poggiava l’egemonia del capitalismo di Stato, edificato a partire dal 1965 da Boumedienne. Sviluppandosi a partire dagli anni ’80, momento marcato dal debutto dell’apertura economica chiamata “infitah”, la destabilizzazione e la precarizzazione neoliberale delle condizioni socioeconomiche che si sono lentamente ma concretamente stabilite hanno alimentato un ripiego generalizzato su questioni identitarie (religione, etnica, cultura, nazione) anziché una deriva verso l’ideologia liberale.

Si pone quindi la domanda seguente: questa situazione è una conseguenza della crisi generica del capitalismo che oggi tutto il mondo sta attraversando, o piuttosto il prodotto di una crisi specifica del sistema statale e patrimoniale, che caratterizza questa parte del mondo, come sottolinea Gilbert Achcar [11] nel suo studio sul mondo arabo? Questione che resta aperta e che non può essere trattata nei limiti di questo contributo.

Quel che ne sia, l’azione a breve termine suggerisce un’esigenza democratica senza moderazioni.

Democrazia di classe o critica di classe della democrazia?

Per democrazia si intende la conquista da parte del popolo del potere politico. “Il presupposto della democrazia, è la politica”, conferma il militante e filosofo francese Daniel Bensaid [12]. È la condizione di partenza per ogni sviluppo economico e per ogni emancipazione sociale. È a questo livello che si situa il fulcro immediato di ciascuna rivoluzione.

Questo fulcro è ben messo in rilievo dall’Hirak algerino. Il dibattito sulla costituzione o l’elezione presidenziale che abbiamo visto prima ben esprime questo nodo congiunturale. Procedere per una piattaforma di rivendicazioni culturali, sociali ed economiche quali richieste al potere è una forma di riconoscimento della legittimità di tale potere. O, in un momento storico dove milioni di persone per strada rivendicano la dipartita di tale potere, questa postura si lega al sostegno del “regime” e del “sistema” attuale!

“La democrazia è l’enigma risolto di tutte le Costituzioni. Qui, la Costituzione è incessantemente riportata al suo fondamento reale, all’uomo reale, al popolo reale; essa è posta non soltanto in sé, a partire dalla sua essenza, ma a partire dalla sua esistenza, oltre la realtà, come l’opera propria di un popolo. La Costituzione appare quella che è, un libro fatto dall’uomo” [13], sottolineava K. Marx a suo tempo. Ed aggiungeva a sostegno delle sue argomentazioni che “la democrazia è l’essenza di tutte le Costituzioni politiche: l’uomo socializzato considerato come Costituzione politica particolare… l’uomo non esiste a causa della legge, ma la legge esiste a causa dell’uomo: è un’esistenza umana, tanto che nella altre [forme politiche] l’uomo è l’esistenza legale. Tale è il carattere fondamentale della democrazia” [14].

Non si tratta dunque di partire da una visione metafisica della democrazia. Si tratta invece di partire dalla realtà, e questa è in ultima istanza una realtà sociale. Ciascun uomo, donna, gruppo, associazione o partito politico, secondo la posizione di ciascuno nella scacchiera sociale che è strutturata secondo gli strati e le classi sociali, sviluppa la sua propria critica della democrazia. Vi è dunque una critica di classe della democrazia e non una democrazia di classe, come per Marx, sul piano metodologico “non vi è un’economia politica di classe, ma una critica di classe dell’economia politica” [15].

Da questo punto di vista, l’attitudine più democratica consiste nell’organizzare un’assemblea costituente sovrana che vedrà il popolo mobilitato costruire un nuovo inizio a partire da un nuovo rapporto di forze sociali e politiche. Ed è in funzione di questo nuovo rapporto di forze che una nuova dinamica può essere affrontata. Questa nuova realtà non sarà evidentemente la fine della storia, ma permetterà di impegnare o di continuare la stessa battaglia democratica e sociale su nuove basi e a partire da nuove regole. Per parafrasare Bensaid, bisogna andare sempre più lontano, trasgredire permanentemente alle forme istituite, cercare di estendere in permanenza e in tutti i suoi domini l’accesso all’uguaglianza e alla cittadinanza [16].

La seconda attitudine che sostiene il passaggio ad un’elezione presidenziale tenta piuttosto di frenare questo slancio. Essa protegge gli interessi dell’oligarchia al potere. Questa banda di malfattori, chiamata “Aissaba” (in arabo), non è più semplicemente una malformazione del regime che ha governato il paese sotto il regno di Bouteflika. Essa è parte integrante dell’iceberg del sistema economico neoliberale, che costituisce la matrice ideologica dominante del sistema e che è più larga rispetto alla sfera di regime. La parte nascosta di tale iceberg, che non ha raggiunto questo livello di disfunzione, non ha ancora perduto totalmente la battaglia.

Tuttavia, le forma di organizzazione e di protesta, la natura stessa del movimento, l’assenza di organizzazione del movimento a partire dai luoghi di lavoro e da quelli di vita, quartieri urbani e villaggi, mantiene il movimento in una condizione fragile e ad un atteggiamento difensivo e di denuncia, incapace di prendere delle iniziative offensive miranti alla conquista del potere. L’appello alla costruzione di forme d’autorganizzazione da parte delle forze di “alternativa democratica”, anche se tardivo, è giusto e necessario per un futuro più intraprendente. Ma la realizzazione è lontana. Ed anche quando sarà effettiva, la sua portata democratica e sovversiva al servizio della maggioranza e dei soggetti svantaggiati dipende in ultima istanza dalla sua composizione e dal suo contenuto. Essa costituirà un nuovo spazio di lotta politica e ideologica, altrimenti detto il luogo della lotta permanente.

La semplice esistenza di un’autorganizzazione non è mai la garanzia assoluta di una soluzione realmente democratica. La critica al servizio delle classi dominate e povere deve ricordare l’esempio di “Aârouch”, quella struttura autorganizzata emersa durante la rivolta del 2001 che ha toccato una parte dell’Algeria, la Kabylie, come anche deve ricordare l’esempio iraniano del 1979.

In questa contrattazione sociale, Gaid Salah rilancia il suo progetto politico presidenziale dopo aver, sembra, consolidato i propri assi in seno all’istituzione militare e securitaria. Egli anticipa al tempo stesso la prossima riforma economica, di ispirazione neoliberale, che mira a rivedere la normativa 49/51 relativa agli investimenti stranieri in Algeria. Questo progetto punta tuttavia sull’assenza di personale politico credibile per essere intrapreso veramente. Dal canto suo, il movimento popolare si accontenta della sua “guerra di posizione” e dei rifiuti. Esso guadagnerà nel costruirsi all’interno dei luoghi di lavoro e negli spazi della vita quotidiana per un’azione più attiva, più organizzata e più offensiva.

A prescindere da quel che sarà, l’esito di questa contraddizione aprirà la via ad una transizione verso nuovi orizzonti più promettenti, tenuto conto della breccia aperta nel sistema. L’impegno politico rivoluzionario non è fondato su una qualunque certezza scientifica progressista ma su una ragionata sfida al futuro [17].

All’inizio c’è stata l’indignazione, l’indignazione di prostrarsi davanti ad un morto vivente. O, come suggerisce Bensaid [18], “l’indignazione è un principio. Un modo di sollevarsi e di scendere in strada. Ci indigniamo, insorgiamo, e poi vediamo” [19]. Si tratta oggi di capire, collettivamente, come avanzare oltre l’indignazione.

Note:
[1] Lo stesso tipo di domanda è posta da G. Achcar sui movimenti di rivolta che hanno conosciuto un certo numero di paesi arabi nel 2011/2012.
[2] Rimandiamo su questo tema al nostro articolo su « la prima vittoria della dignita ritrovata ».
[3] Struttura messa in campo dal governo in vista di avviare delle trattative con le opposizioni politiche per l'organizzazione delle elezioni.
[4] Su questo tema rimandiamo alle proposte di A. BELHIMER, membro del panel in « Lahouari Addi, Dire que l’armée accompagne le hirak est faux, Belhimer », in https://www.dzvid.com/2019/09/01/lahouari-addi-dire-que-larmee-accompagn.... Ma se in questo scambio, L. ADDI ha ragione nel dire che « l'esercito non accompagna Hirak, ma fa di tutto per soffocarlor », quando sottolinea che « L'altra corrente (dell'esercito), che raggruppa dei giovani generali, pensa che è arrivato il tempo di ritirarsi dal campo dello Stato e fare quello che hanno fatto i turchi », sta facendo un appello all'altra supposta fazione dell'istituzione militare per accompagnare l'Hirak.
[5]J.P. SERENI, « Algérie, les généraux gardent la main », Orient XXI.
[6] Facendo riferimento alla rivoluzione del 1917 in Russia.
[7] Riferimento alla rivoluzione tunisina del 2011.
[8] Citato da G. ACHCAR, « Phénomènes morbides » : qu’a voulu dire Gramsci et quel rapport avec notre époque ? », Contretemps.
[9] Ibid.
[10] ibid
[11] Vedi G. ACHCAR, le peuple veut, édit. Actes sud, 2013
[12] D. BENSAID, « Démocratie : le scandale permanent », Contretemps.
[13] Kritik des Hegelschen Staatsrechts, in Werke, tome I, Berlin 1956, p. 231, citato da Maximilien RUBEL, « Le concept de démocratie chez Marx », in http://www.critique-sociale.info/304/le-concept-de-democratie-chez-marx/
[14] Ibid.
[15] Vedi M. TAFURI, Projet et Utopie, Paris Dunod, 1979, P. 153
[16] D. BENSAID, Op. Cit.
[17] D. BENSAID, « Eloge de la résistance à l’aire du temps », citato da M. LOWY, « Un communiste hérétique », in, Daniel Bensaid l’intempestif, La découverte, 2012, p. 26.
[18] Ibid.
[19] Ibid.

*Fonte articolo: https://www.contretemps.eu/revolution-democratie-hirak-algerien/
Traduzione a cura di Federica Maiucci.