Dalla riforma alla rivoluzione

Thu, 17/01/2019 - 19:29
di
Lea Ypi*

La morte di Rosa Luxemburg simboleggia l'abbandono da parte della sinistra delle aspirazioni rivoluzionarie per farsi progetto di addomesticamento del capitalismo. Ma le sue idee sono contemporanee.

Il 15 gennaio 1919 Rosa Luxemburg fu assassinata da gruppi paramilitari di estrema destra, sostenuti dal primo cancelliere socialdemocratico in Germania, Friedrich Ebert. Il suo cranio è stato frantumato e il suo corpo è stato gettato nel Canale di Landwehr a Berlino, dove è stato trovato sfigurato diversi mesi dopo.  Rosa Luxemburg era una dei più interessanti e originali pensatori marxisti del XX secolo e una esponente di spicco del movimento socialista. La sua morte e le circostanze che l’hanno preceduta incarnano brutalmente la fine della socialdemocrazia come progetto rivoluzionario, internazionale e anticapitalista.

I temi affrontati nel suo lavoro come lo sviluppo della globalizzazione, la crisi del capitalismo finanziario, i vincoli della politica elettorale, la relazione tra partiti e movimenti, la minaccia della guerra e la centralità dell’internazionalismo hanno, cento anni dopo la morte, assunto rinnovata rilevanza. A un secolo dal suo omicidio, la vita e il lavoro della Luxemburg sono illuminanti per la nostra situazione attuale.

Dilemma

Prima di cercare il supporto dei proto-nazisti di Freikorps per reprimere le crescenti forze insurrezionali in Germania, Ebert avrebbe dichiarato «Odio la rivoluzione come un peccato mortale». Ma per la Luxemburg riforma e rivoluzione non erano mai stati opposti: si completavano a vicenda.

All’età di 27 anni, si era affermata come una figura importante nella Seconda Internazionale offrendo una delle più esaurienti, coerenti e devastanti critiche alla chiamata revisionista di Eduard Bernstein per dare priorità al metodo della riforma su quello della rivoluzione. Amico intimo e collaboratore di Engels, marxista di credenziali impeccabili ma anche pioniere dei diritti dei gay, Bernstein è stato anche il primo ad articolare un percorso non rivoluzionario verso il socialismo in quello che è ampiamente considerato il testo fondante della socialdemocrazia moderna: Le precondizioni del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899). La posizione di Bernstein era stata discussa esplicitamente (e respinta) alla Conferenza di Stoccarda del Partito socialdemocratico tedesco (1898) ed è succintamente catturata dalla sua famosa affermazione: «l’obiettivo finale non è niente per me, il movimento è tutto». Questo, ha sottolineato La Luxemburg, era un falso dilemma. «La socialdemocrazia può essere contro le riforme? Possiamo contrapporre la rivoluzione sociale, la trasformazione dell’ordine esistente, il nostro obiettivo finale, alle riforme sociali? Certamente no». La posta in gioco nel dilemma di Bernstein, sosteneva la Luxemburg, non era solo una scelta tattica, una semplice discussione su questo o quel metodo di lotta, era «l’esistenza stessa del movimento socialdemocratico» come una forza distintiva nella lotta contro il capitalismo.

Il dibattito è essenzialmente incentrato sul fatto se democrazia e capitalismo siano compatibili; una domanda ancora oggi altrettanto rilevante. Secondo Bernstein lo erano; e il potere della sua risposta e l’effetto che ha avuto sullo sviluppo della socialdemocrazia nel Ventesimo secolo non può essere sopravalutato. La sua difesa della priorità della riforma sociale sulla rivoluzione era basata su una serie di presupposti, sia teorici sia pratici, sviluppati all’interno del materialismo marxista.

Bernstein ha insistito sul fatto che la dialettica richiedeva che i risultati scientifici venissero riconsiderati alla luce di nuovi risultati empirici. E nelle circostanze del Diciannovesimo secolo, il capitalismo aveva mostrato una sorprendente capacità di adattamento. Dal punto di vista della teoria economica ci sono stati una serie di nuovi sviluppi con cui i marxisti hanno dovuto fare i conti: l’intensificazione del commercio estero, l’espansione del settore bancario e finanziario, lo sviluppo del sistema creditizio, il consolidamento delle classi medie, l’ascesa dei proprietari e l’emergere di cartelli e trust. Questo insieme, significava che le crisi economiche non avrebbero più preso la forma inevitabilmente distruttiva che Marx aveva previsto.

Dal punto di vista della pratica politica, Bernstein ha equiparato la democrazia rappresentativa alla fine del governo di classe. Da un lato, l’espansione dei privilegi, dall’altra il rafforzamento dei sindacati e delle cooperative operaie e le prospettive di successo elettorale per i partiti socialdemocratici di massa in tutta l’Europa occidentale dimostravano che la democrazia rappresentativa era capace di subordinare il capitalismo agli imperativi dello stato democratico. La cittadinanza democratica e l’emancipazione politica erano un solo progetto, un progetto che il movimento socialdemocratico poteva sviluppare a prescindere dall’«obiettivo finale».

La Luxemburg ha risposto a Bernstein in un testo intitolato Riforma o rivoluzione? (1899). In sostanza, sosteneva che mentre la riforma e la rivoluzione erano compatibili, la democrazia e il capitalismo non lo erano. Il suo punto centrale aveva a che fare con la struttura della globalizzazione e il ruolo degli stati nazione in un sistema economico finanziarizzato. L’espansione internazionale del capitale e lo sviluppo del sistema del credito e del debito hanno fatto sì che il potere politico degli stati nazione fosse strumentale al consolidamento del potere economico da parte dei detentori del monopolio, delle multinazionali, delle imprese e delle banche.

In risposta alle osservazioni di Bernstein sul ruolo potenziale del credito nell’evitare il collasso capitalista, Luxemburg ha sottolineato che il capitalismo finanziario e la disponibilità di prestiti aggravano la crisi piuttosto che fornire una soluzione. Il credito, sosteneva, incoraggia la speculazione e allarga il divario tra ciò che potremmo chiamare l’economia reale e quella fittizia. In effetti, mentre il credito inizialmente stimola lo sviluppo di forze produttive, può anche portare a errori di calcolo e di sovrapproduzione, quindi cessare di essere utile nel processo di scambio al primo sintomo di stagnazione.

Allo stesso modo, cartelli e trust, e gli altri meccanismi di regolamentazione progettati per aumentare il coordinamento tra i detentori di capitale riescono ad aumentare il saggio di profitto nei mercati interni solo in virtù dell’espansione verso l’esterno, vendendo all’estero i prodotti che non possono essere assorbiti dalla domanda interna. L’altra faccia dell’evidente stabilità del mercato in Europa è l’acuirsi della concorrenza all’estero e dell’anarchia sul mercato mondiale, l’opposto di ciò che i cartelli intendevano raggiungere.

Capitalismo e imperialismo

La Luxemburg ha sviluppato la sua critica al revisionismo in L’Accumulazione del Capitale. Un contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo (1913). Questo studio della struttura dinamica dell’accumulazione di capitale conteneva una critica del volume II del Capitale di Marx e un tentativo di illustrare come il capitalismo potesse sopravvivere solo attraverso la sua estensione alle economie non capitaliste. Criticava Marx per aver analizzato il processo di riproduzione del capitale assumendo un sistema chiuso di accumulazione e un mercato con soli capitalisti e lavoratori, trascurando così le specificità economiche di intere aree del mondo che non avevano raggiunto lo sviluppo capitalista. Questa analisi a sistema chiuso, suggeriva Luxemburg, rendeva difficile spiegare come il capitale è riprodotto e valorizzato nel contesto della depressione salariale, della crescente disparità di reddito e del relativo sottoconsumo dei lavoratori nelle economie capitaliste avanzate.

Cercando di spiegare gli incentivi dello sviluppo economico capitalista, Luxemburg rivolse la sua attenzione a ciò che gli economisti avrebbero in seguito chiamato la relazione tra il tasso di risparmio e gli investimenti reali, anticipando importanti intuizioni delle teorie di stagnazione di Keynes e Kalecki. Mentre Marx aveva spiegato la riproduzione del capitale con riferimento allo sviluppo della tecnologia, alla concorrenza tra i capitalisti e alla sete di massimizzare il profitto, lei ha scoperto che questa analisi non rendeva giustizia ai peculiari vincoli strutturali della riproduzione del capitale. In particolare, non ha tenuto conto della necessità di accedere a nuovi mercati per vendere beni di consumo che i lavoratori domestici impoveriti non potevano più permettersi. Tuttavia, nel contesto di un’economia depressa con una bassa domanda di beni di consumo, senza una garanzia di un mercato in continua espansione, non vi sarebbe alcun incentivo per gli investimenti e nessuno sbocco per gli stock di capitale accumulato.

La principale intuizione della Luxemburg è che l’espansione del capitale nelle aree non capitalistiche del mondo attraverso la conquista, il commercio, la violenza e l’inganno fornisce proprio questo sbocco. I beni di massa economici che lottano per essere venduti nei mercati degli stati capitalisti sviluppati a causa di bassi modelli di consumo diventano disponibili in altre aree del mondo. Essi creano opportunità di investimento che spostano modi tradizionali di organizzazione della vita economica e distruggono prevalentemente le forme di produzione agricola. Portano anche innovazioni tecnologiche e progetti di modernizzazione che modificano le relazioni esistenti di autorità e rimodellano forme di conflitto di classe diverse da quelle capitaliste.

Mentre la conquista imperiale e la guerra garantiscono la sottomissione diretta di intere parti del mondo al controllo politico dei paesi capitalisti più sviluppati, modi di controllo più sottili, ad esempio sotto forma di prestiti internazionali, stabiliscono una dipendenza politica ed economica che pone le politiche estere ed economiche dei giovani Stati capitalisti direttamente sotto l’influenza dei loro padroni neo-coloniali. In un’economia finanziaria, con gli investimenti vengono le speculazioni, e quando le speranze di aumentare i tassi di profitto sono deluse, il debito arriva a perseguitare queste vulnerabili economie nazionali e le perdite devono essere socializzate. Ciò innesca una nuova, ancor più profonda, crisi e l’inizio di un nuovo ciclo di accumulazione.

Questa attenzione allo sviluppo delle aree non capitalistiche del mondo ha dato alla Luxemburg sensibilità per le questioni di razza, etnia e diritti degli indigeni che non erano caratteristici del marxismo del suo tempo. Marx e altri marxisti ortodossi avevano più o meno condiviso il pregiudizio teleologico della filosofia illuminista adottando una teoria in quattro fasi dello sviluppo storico secondo cui le forme di vita nomadi (cacciatori-raccoglitori) erano state soppiantate da relazioni sociali presumibilmente più progressiste sotto forma di agricoltura, e quindi dalla società commerciale. Scritti della Luxemburg emersi di recente dimostrano che lei credeva che i modelli di proprietà comune e la distribuzione dei ruoli sociali osservati in molte comunità indigene fossero per molti aspetti superiori a quelli delle società commerciali. È stata anche una delle pioniere di un’analisi del razzismo e dell’appropriazione culturale come componenti distintive ma integrate di un’analisi del capitalismo in cui lo sfruttamento economico e la discriminazione basata sull’identità si rafforzano reciprocamente.

Contro l’autodeterminazione nazionale

La posizione autenticamente internazionalista della Luxemburg aiuta a spiegare il secondo argomento contro la difesa di Bernstein della riforma sociale sulla rivoluzione: l’argomento politico. La conquista di una parte del potere decisionale all’interno delle istituzioni rappresentative liberali significa molto poco nella vita politica degli stati contemporanei dominati da due aspetti: la politica mondiale e il movimento operaio, sostiene Luxemburg. La mutua dipendenza tra potere economico e politico in presenza della globalizzazione e il relativo sfruttamento di aree remote del mondo hanno reso la Luxemburg scettica sulle teorie dell’emancipazione politica attraverso l’autodeterminazione. Qui lei differiva dagli altri teorici marxisti dell’autodeterminazione (incluso Lenin) che avevano discusso a favore dei movimenti di liberazione nazionale quando questi erano d’aiuto nell’avanzare obiettivi socialisti. Per la Luxemburg, i movimenti di liberazione nazionale finivano per fare il gioco delle élite di governo liberali e indebolire il movimento operaio internazionale anche se guidato dai socialisti.

Questa posizione contro l’autodeterminazione nazionale fu quella che la Luxemburg mantenne costantemente per tutta la sua vita. Ha caratterizzato il suo attivismo giovanile nel movimento rivoluzionario polacco in cui sosteneva che era contrario agli interessi delle classi lavoratrici polacche diventare indipendenti dalla Russia poiché, senza governi socialisti in Germania, Austria e Russia, l’indipendenza avrebbe approfondito lo sfruttamento dei lavoratori polacchi. Durante il suo periodo di attivismo nella Spd, criticò Kautsky e la leadership del partito per non aver saputo bloccare i progetti imperiali tedeschi in Marocco per paura di perdere le loro conquiste elettorali. La sua rottura definitiva con la socialdemocrazia tedesca avvenne durante la prima guerra mondiale quando gli eletti socialdemocratici tra i rappresentanti del Reichstag decisero di unire le forze con i conservatori nazionalisti per sostenere la guerra contro la Russia. «Fintantoché gli Stati capitalisti esistono [.. . ] fintanto che le politiche imperialistiche del mondo determinano e regolano la vita interiore ed esteriore di una nazione, non ci può essere autodeterminazione nazionale né in guerra né in pace», ha sostenuto nel Pamphlet Junius (1915).  

Politica riformista

L’illusione della democrazia sotto il capitalismo e l’illusione dell’emancipazione politica attraverso l’autodeterminazione erano lati diversi della stessa medaglia. Proprio come in tempo di guerra i socialdemocratici sbagliavano nel pensare che non riuscire a partecipare allo sforzo militare sarebbe stato interpretato come un fallimento del patriottismo, in tempo di pace si sbagliava a pensare che i progressi elettorali e la difesa delle riforme socialdemocratiche avrebbero comportato di per sé la fine del dominio del lavoro salariato.

È importante, tuttavia, capire che la Luxemburg non si è opposta alla rappresentanza in parlamento o alla lotta per le riforme sindacali e di tipo democratico. Ciò è particolarmente chiaro se si considerano i suoi scritti sul suffragio delle donne, che sono anche un importante antidoto alla vulgata diffusa tra le femministe che, a differenza della sua amica e collaboratrice Clara Zetkin, la Luxemburg fosse largamente disinteressata alla questione dell’emancipazione femminile. Piuttosto, la sua posizione era che sia la richiesta di diritti sociali ottenuta attraverso la rappresentanza parlamentare sia la richiesta di emancipazione femminile dovevano essere integrate in una critica più radicale del capitalismo, in cui la chiave è l’accesso al potere politico e una radicale trasformazione delle strutture politiche ed economiche della società. Così come non ci poteva essere progressiva emancipazione nazionale all’interno del capitalismo, non ci poteva essere neanche l’emancipazione di genere e razziale.

Le riforme, sosteneva la Luxemburg, fornivano piattaforme di apprendimento cruciali attraverso le quali la massa di persone oppresse sviluppava la capacità di prendere decisioni autonome e prepararsi alla conquista del potere politico. Eppure tali riforme erano prove di libertà, non erano la libertà. Ciò si rifletteva nella sua critica ai modelli centralizzati di organizzazione politica (incluso il suo scontro con Lenin sull’idea dell’avanguardia) e alla sua teoria del partito radicato nelle iniziative spontanee di massa. Erano componenti essenziali di un’analisi della libertà e dell’agire democratico che le relazioni sociali capitalistiche globali ostruivano a un livello molto profondo.

Questo è anche il motivo per cui, come ha sostenuto in risposta a Bernstein, il lavoro per le riforme non dovrebbe essere inteso come «una rivoluzione rivelata», e la rivoluzione non dovrebbe essere intesa come «una serie di riforme condensate». Come ha spiegato la Luxemburg, storicamente, la riforma legale serviva a consolidare una classe sociale emergente fino a quando l’equilibrio delle forze politiche fosse tale che il sistema giuridico esistente potesse essere smantellato in favore di uno nuovo. Questo è esattamente ciò che i termini riforma e rivoluzione significano. Hanno suggerito un cambiamento radicale nel contenuto delle disposizioni giuridiche fondamentali piuttosto che nella maniera della loro realizzazione.

Come lei ha affermato, la riforma e la rivoluzione non sono metodi diversi di progresso storico che «possono essere scelti dallo scaffale della storia come si scelgono le salsicce calde o fredde». Coloro che si sono opposti al metodo della riforma legale per raggiungere il potere politico degli operai non si oppongono «a un metodo più tranquillo, più calmo e più lento per raggiungere lo stesso obiettivo», scelgono «un obiettivo diverso». Scelgono miglioramenti superficiali di un vecchio ordine piuttosto che l’impegno di principio alla creazione di uno nuovo. Opponendo la riforma alla rivoluzione, separano la democrazia dal socialismo, nel separare il socialismo dalla democrazia finiscono per perdere entrambi.

Rosa Luxemburg fu tra gli ultimi socialisti veramente rivoluzionari. Fu anche una delle ultime vere socialdemocratiche nel senso di un impegno sia per un socialismo intransigente che per una democrazia intransigente. La libertà, come dice uno dei suoi detti più famosi, è sempre la libertà di chi la pensa in modo diverso. Capì che il superamento del capitalismo non consisteva nell’aumentare le tasse, nel modificare il sistema di distribuzione delle opportunità qua e là, nel migliorare le condizioni dei lavoratori in questo o quel paese. Il socialismo implicava un impegno verso un diverso tipo di società, in cui il principio del libero sviluppo di ogni individuo è incompatibile con il perseguimento di fini di profitto per il profitto ma anche con gerarchie tecnocratiche e con la gestione burocratica della vita politica. Il socialismo era un progetto di emancipazione sia economica che politica. Era un impegno globale, non nazionale. La conquista dei seggi in parlamento separati da uno sforzo globale per stabilire relazioni sociali veramente collaborative in ogni angolo del mondo non solo valeva molto poco, ma era anche molto probabilmente effimera.

Mentre i tradizionali partiti socialdemocratici in Europa oggi lottano per la loro vita, il fantasma di Rosa Luxemburg dovrebbe venire a perseguitarli. La sua morte cento anni fa simboleggia la morte di una sinistra che ha abbandonato le sue aspirazioni rivoluzionarie e internazionaliste e si è trasformata in un progetto nazionale di addomesticamento del capitalismo. Ma la sua vita e il suo lavoro, il suo studio del capitalismo globalizzato, la sua difesa intransigente dell’internazionalismo e la sua analisi della strategia socialista radicata nell’educazione collettiva e nell’azione politica di massa sono importanti oggi come lo erano un secolo fa.

Mentre ci sforziamo di costruire un’alternativa di sinistra radicale che sia al contempo pragmatica e orientata da principi, che persegua riforme sociali senza abbandonare le sue aspirazioni socialiste trasformatrici, Rosa Luxemburg è la nostra contemporanea piuttosto che la nostra martire.

Lea Ypi insegna Teoria politica alla London School of Economics. Qui la versione originale dell’articolo uscito su Jacobin Mag. La traduzione è di Leopoldo Calabria.

*Fonte: https://jacobinitalia.it/dalla-riforma-alla-rivoluzione/