Riflessioni sul centenario della rivoluzione d'ottobre

Fri, 29/12/2017 - 20:21
di
Daniele Bassi*

Tra le molte proposte di carattere storico e culturale che nel corso del 2017 hanno voluto celebrare il centenario della Rivoluzione d’ottobre, merita una menzione particolare un’iniziativa editoriale decisamente preziosa per chiunque sia interessato alla storia del Novecento e allo studio delle dottrine politiche che lo hanno attraversato. Mi riferisco alla riedizione, per i tipi di Edizioni Alegre, di Storia della Rivoluzione russa di Lev Trotsky. Questa monumentale opera di uno dei più importanti dirigenti bolscevichi, nonché del più acuto e radicale oppositore di Stalin, è – per ampiezza, documentazione e diretto coinvolgimento dell’autore – una delle più significative testimonianze sulla Rivoluzione del 1917. Il testo era introvabile nella nostra lingua da quasi 25 anni: la precedente edizione risale infatti al 1994 (da Newton&Compton). La traduzione che qui si ripropone è a cura di Livio Maitan (1923-2004, principale traduttore di tutta l’opera di Trotsky in italiano) e venne condotta da un’edizione francese e una inglese che Trotsky in persona fece in tempo, nel primo caso, a elogiare, e rivedere e correggere, nel secondo. La traduzione di Maitan uscì per la prima volta nel 1964, da SugarCo Edizioni, e fu ripubblicata in varie edizioni Mondadori tra il 1969 e 1978, così come in quella del 1994 sopra citata.
I due volumi che compongono l’opera, La Rivoluzione di febbraio e La Rivoluzione di ottobre, restituiscono al lettore la vastità di ben 1388 pagine.

Ad arricchire questa edizione concorre senza dubbio la prefazione a cura di Enzo Traverso, professore alla Cornell University (Ithaca, NY) e importante studioso della storia intellettuale dell’Europa contemporanea. Intitolata In bilico tra fare e scrivere la storia, questa prefazione ribadisce come Storia della Rivoluzione russa sia collocabile in una posizione di assoluto rilievo nell’ampia letteratura sul 1917: «Se la Rivoluzione d’ottobre è stata la matrice delle rivoluzioni del Novecento, il libro di Trotsky che ne ricostruisce la storia ne ha studiato l’anatomia e disvelato la logica interna» (1)
Interessante, alla luce del dibattito che ha animato la ricorrenza del centesimo anno della presa del Palazzo d’Inverno, è l’invito di Traverso a non lasciarci sopraffare da uno «sguardo retrospettivo» che comporterebbe, conoscendo naturalmente l’epilogo dell’Urss, l’incapacità di «dissociare il regime che ha attraversato l’intero XX secolo dalla cesura storica che lo ha generato» (2). A quella cesura, a quell’evento, Traverso cerca di restituire la sua autonomia «inscrivendolo in un ciclo che, a seconda della prospettiva adottata, si conclude negli anni Venti con la fine della guerra civile, o negli anni Trenta con il grande terrore, la collettivizzazione delle campagne e la stabilizzazione del regime di Stalin» (3).

Una tale concezione è fondamentalmente contrapponibile a quella di Michael Walzer, avanzata nel numero di novembre di questa rivista, concezione secondo la quale il germe totalitario sarebbe stato intrinsecamente presente nell’ossatura del pensiero bolscevico (4). Si tratta in verità di un confronto certamente non nuovo e rianimato, più che generato, dall’occasione della ricorrenza. La violenza nella Storia, e della Storia, il carattere autoritario e le involuzioni liberticide di molte rivoluzioni – interpretate come momenti cardine della Storia – sono un argomento imprescindibile di molta filosofia politica del Novecento. Non a caso, infatti, Traverso può da parte sua avvalersi dell’autorevolezza di Walter Benjamin, entusiasta lettore di Storia della Rivoluzione russa, secondo il quale «la rivoluzione riscatta secoli di oppressione e dominio […] attraverso la sua improvvisa e violenta irruzione nel presente» (5).

Trotsky, come la maggior parte degli intellettuali marxisti a cavallo tra Otto e Novecento, risente dell’influenza del positivismo trionfante e «non sfugge alla tentazione di fare del marxismo una scienza della società» (6); tuttavia, continua Traverso, «una volta grattato il rivestimento lessicale determinista rimane il nocciolo della questione marxista: sono esseri umani in carne e ossa a fare la storia, con le loro idee, le loro passioni, le loro aspirazioni, le loro illusioni e i loro pregiudizi» (7). Al vaglio di questa lente, molto più benjaminianamente, la ricostruzione appassionata e narrativamente coinvolgente di Trotsky ci mostra come i protagonisti di quegli avvenimenti «non assecondavano affatto il corso naturale della storia; stavano inventando un mondo nuovo, ignari di ciò che sarebbe scaturito dal loro tentativo, ispirati da un’immaginazione utopica sbalorditiva» e, tornando alla questione centrale, «sicuramente incapaci di immaginarne gli sbocchi totalitari» (8). Trotsky, fondatore dell’Armata Rossa, senza dubbio fissa un paradigma militare della rivoluzione, ma «le ‘leggi’ della rivoluzione non discendono da uno schema intellettuale ma sono dedotte dall’esperienza storica» (9), irrimediabilmente traumatica, di quell’epoca: la Grande guerra. «La violenza della Rivoluzione russa», sostiene Traverso, «non nasceva da un impulso ideologico, scaturiva piuttosto da una società brutalizzata dalla guerra» (10).

Per chiunque volesse affrontare il problema in termini storico-filosofici, assumere l’idea che le aspirazioni rivoluzionarie e l’epilogo totalitario costituiscano un tutt’uno inscindibile, implica l’impossibilità di esimersi dall’interrogare il rapporto di Marx con il totalitarismo. Il ruolo e la posizione da protagonista occupati da Marx nella filosofia di Otto e Novecento fanno sì che tale indagine risulti estremamente delicata. Hannah Arendt, oltre ad aver dedicato, nell’edizione del 1958, un intero capitolo de Le origini del totalitarismo al legame tra la dittatura sovietica e il marxismo, è autrice di due dattiloscritti (recentemente pubblicati in italiano) sul tema della relazione tra Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale. Redatti in occasione di alcune conferenze tenute presso la Princeton University (NJ) nel 1953, in pieno maccartismo, a fare da sfondo all’argomentazione arendtiana è la necessità di rispondere con esattezza all’idea che sia facilmente tracciabile un filo diretto tra Marx, Lenin e Stalin. Arendt, pur sostenendo come una «commistione di determinismo e hybris» significativamente presente nella cultura marxista abbia nutrito la retorica e l’ideologia totalitaria, non esita a scrivere che «si possa mostrare come la linea che congiunge Aristotele a Marx è segnata da meno fratture, e meno decisive, di quella che unisce Marx a Stalin» (11). È del resto noto che, nelle Origini del totalitarismo, Arendt definisce la mostruosa forma di governo totalitaria, «oltre che più radicale, essenzialmente diversa da altre forme conosciute di oppressione politica e dispotismo» (12). Come sostiene Daniel Bensaid (1946-2010, influente studioso contemporaneo del marxismo, per anni professore all’Università di Parigi VIII), «al di là delle differenti impostazioni, autori talmente diversi come Trotsky e Arendt sono concordi nel datare con il primo piano quinquennale e le grandi purghe degli anni Trenta la svolta qualitativa a partire dalla quale si può parlare di controrivoluzione burocratica (per Trotsky) o di totalitarismo (per Arendt)» (13).

L’esercizio controfattuale che propone Walzer, chiedendosi come sarebbero andate le cose se avessero vinto i menscevichi, è certamente interessante, ma non più di chiedersi come sarebbero potute andare se Trotsky avesse vinto su Stalin. Che porsi questi interrogativi sia oggi «molto utile per meglio definire le strategie delle politiche radicali» (14), credo sia un punto non trascurabile di accordo tra Traverso e Walzer. «Ancor più di allora», scrive Traverso con parole certamente sottoscrivibili da Walzer, «il capitalismo è diventato un immane flagello, non perché non sia in grado di produrre ricchezza […], ma perché fonte di mostruose disuguaglianze sociali […] povertà ed esclusione» (15). Storia della Rivoluzione russa si carica dunque, agli occhi del lettore contemporaneo, di «una dimensione epica, come quella che distingue la grande letteratura del modernismo classico, e al contempo malinconica, perché ci fanno sentire che la sequenza novecentesca degli assalti al cielo è finita», e nondimeno, conclude Traverso con una sorta di auspicio, «il XXI secolo conoscerà altre rivoluzioni […] che tuttavia saranno diverse da quelle del secolo scorso» (16).

NOTE:
1. E. Traverso, In bilico tra fare e scrivere la storia, in L. Trotsky, Storia della Rivoluzione russa, Roma, Alegre, 2017, p. 37.
2. ibid., p. 11.
3. Ibidem.
4. vedi 100 anni dopo la Rivoluzione bolscevica, in «Il Senso della Repubblica», anno X, 11, novembre 2017, pp. 1-3.
5. E. Traverso, In bilico tra fare e scrivere la storia, cit., p. 17; il riferimento è a W. Benjamin, I “Passages” di Parigi, in Id., Opere complete, 9 voll., a cura di R. Tiedemann, Torino, Einaudi, 2000, vol. IX, p. 518.
6. ibid., p. 22.
7. ibid., pp. 26, 27.
8. ibid., p. 23.
9. ibid., p. 24.
10. ibid., p. 25.
11. H. Arendt, Marx, Milano, Raffaello Cortina, 2016, p. 40.
12. Ead., Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2009, p. 630.
13. D. Bensaid, Chi sono questi trotskysti?, Roma, Alegre, 2007, p. 36.
14. 100 anni dopo la Rivoluzione bolscevica, cit., p. 3.
15. E. Traverso, In bilico tra fare e scrivere la storia, cit., p. 39.
16. ibid., p. 37.

*Articolo pubblicato sul numero 12, dicembre 2017, della rivista "Il senso della repubblica. Quaderni di storia e filosofia", consultabile a questo link: https://issuu.com/heos.it/docs/sr_dicembre_17