Autogestione e potere/i

Tue, 23/09/2014 - 17:18
di
Catherine Samary

Pubblichiamo di seguito il denso contributo inviatoci da Catherine Samary dell'Association pour l'autogestion francese, per il dibattito sull'autogestione che apre venerdì il CommuniaFest.

Questo contributo sulle questioni dell'autogestione come modo di resistenza e progetto di società vuole partire da una tensione che attraversa molti dibattiti passati/presenti: quella che sembra opporre diritti individuali e approcci complessivi - quindi questioni di potere. Partirò da una concezione dell'autogestione come principio o come diritto di base accordato a tutti i cittadini, uomini e donne, nella loro diversità: il diritto di partecipare autonomamente ai processi di produzione e di distribuzione delle ricchezze (beni e servizi) con i mezzi per controllarli pienamente, cercando nelle varie parti affrontate di superare i falsi dilemmi. Proporrò prima alcuni principi generali, poi un modo per integrare il "passato/presente", e infine metterò l'accento sulla centralità di una riformulazione strategica delle lotte autogestionarie a partire dai "Beni Comuni".

I. Osservazioni generali e principi di base

1. Potere individuale e collettivo

a. Si tratta di un "potere" di decisione a monte e a valle del processo produttivo, che riguarda da un lato il che cosa produrre e come - secondo quali priorità, quali rapporti umani, quali condizioni sociali e ecologiche di produzione; ma anche il come questa produzione viene "appropriata" ossia le condizioni della sua distribuzione.
L'evocazione qui degli aspetti a monte e a valle del processo produttivo indica che c'è una verifica dei risultati e che ci possono essere delle rettifiche necessarie, delle insoddisfazioni, tanto nelle condizioni di produzione quanto rispetto alla soddisfazione dei bisogni nel senso più ampio e inclusivo. Si tratta dunque di aprire il dibattito sul "come" rispondere a disequilibri e insoddisfazioni di tutti i tipi (materiali o più qualitativi) senza modelli dogmatici sui mezzi. Gli obiettivi emancipatori, autogestionari devono essere espliciti. Però è fondamentale riconoscere subito come "normali" gli scarti, le tensioni e i conflitti, cercando i mezzi per esprimerli e assorbirli, senza farsi illusioni sulla possibilità immediata di realizzare una società senza conflitti.

b. Il "potere" autogestionario - concepito come diritto di controllo e decisione su tutto ciò che riguarda l'individuo, di ogni tipo - è "autonomo": è innanzitutto individuale. L'emancipazione non ha senso senza le libertà e i mezzi individuali in grado di pesare su tutte le scelte combinate che concernono l'individuo in questione. Ma ogni individuo ha lati diversi: oltre al suo genere, la sua età, la sua cultura, la sua nazione di origine; è anche implicato/a nella società in attività di studio, di produzione, di consumo, di partecipazione democratica a vari livelli ecc.
Questa implicazione nella società non è "atomizzata" e puramente egoista - contrariamente a ciò che rappresenta l'homo-economicus individuale del modello neo-classico, anche se è giusto riflettere concretamente sugli "interessi" individuali che forgiano i comportamenti. Ma è altrettanto importante non idealizzarli (nella loro generosità) quanto il non sottovalutare le trasformazioni profonde dei comportamenti associati ad una "prassi" sociale, che riguardano sia il tipo di solidarietà che si prova verso le diverse communità di appartenenza, sia l'allargamento degli orizzonti di pensiero e di aspirazione associato all'esperienza, ai dibattiti pluralisti, all'incontro delle/gli "altre/i" - alle lotte autonome.

c. La trasformazione (imprevedibile, complessa ma auspicabile) dei comportamenti in un senso altruista solleva la questione degli "stimoli" (materiali e immateriali) adeguati a un progetto di società socialista, che rispetti pienamente sia l'autonomia individuale che la soddisfazione solidale dei bisogni. Ho sottolineato precedentemente la necessità di pensare una tale società come non esente dai conflitti; ciò significa che la risoluzione fondamentale di questi conflitti, coerente con le finalità emancipatrici di tale società, deve articolare "fini e mezzi" in modo che i fini stessi diventino mezzi. In altre parole, i meccanismi di espressione e di superamento (provvisorio) dei conflitti devono essere basati sui diritti autogestionari e sulle libertà: la libertà di esprimere individualmente e collettivamente i bisogni non soddisfatti, le critiche sui rapporti di dominazione sottostimati o imprevisti; questa libertà è un "mezzo" che influisce sulla percezione degli obiettivi, modifica la coscienza individuale e collettiva e deve sfociare su procedure democratiche di gestione dei problemi incontrati. I conflitti espressi e i dibattiti danno evidentemente un peso essenziale (fino al diritto di veto) alle categorie sociali insoddisfatte o che si sentono oppresse - ma tocca all'insieme della società interessata trovare, a tastoni,(procedendo per rettifiche continue) le risposte.
Il potere autogestionario è dunque insieme individuale e collettivo - l'emancipazione di ciascuna/o sarà la condizione dell'emancipazione di tutte/i, potremmo dire per prolungare il Manifesto Comunista.

2. Niente "gerarchie" e rapporti di dominazione - ma responsabilità condivise

a) Dal momento che ci si allontana dalla dimensione individuale (e da quella locale) si corre il rischio di cadere in una gerarchia nel senso di un rapporto di dominazione, di sfruttamento o anche nel burocratismo. Ci sono allora nei diversi campi coloro che decidono e coloro che eseguono, ma anche coloro che sono confinati nei compiti più ingrati etc. Questi rapporti, sotto le loro diverse forme - sfruttamento di classe, rapporti di oppressione nazionale, di genere, o altri rapporti di dominazione burocratica - devono ovviamente essere combattuti in modo esplicito in quanto contrastanti con le finalità e i diritti autogestionari. L'analisi concreta della comparsa e del mantenimento di tali rapporti rinvia al punto precedente: la società non sarà mai perfetta e senza conflitti. L'unico modo per garantire un senso (direzione e finalità) emancipatore all'organizzazione sociale è appunto da un lato garantire il diritto all'organizzazione e all'espressione pluralista dei conflitti d'una parte; ma anche esplicitare - in modo "costituzionale" - queste finalità questi diritti, per mettere al centro delle riflessioni i mezzi per "sorvegliare"e combattere ogni recrudescenza o ricomparsa di rapporti di dominazione.
Però ogni divisione del lavoro se viene cristallizzata nel tempo, ogni specializzazione eccessiva, ogni disuguaglianza culturale durevole, può apparentarsi a una gerarchia; può persino essere valorizzata sul piano materiale o relazionale in vari modi. La rotazione e la condivisione dei compiti (compresi quelli domestici), la revocabilità degli eletti, la formazione permanente per ridurre le distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale - la riduzione massiccia dell'orario di lavoro, che dovrebbe liberare anche tempo per la partecipazione alle attività di gestione democratica, nonché un controllo collettivo dei criteri di remunerazione che valorizzi/compensi preferibilmente i compiti ingrati: sono queste alcune misure che possono essere consapevolmente adottate per ottemperare ai fini emancipatori e quindi democratici evocati.
Le differenze di reddito e i loro criteri devono far parte dell'analisi pubblica e delle scelte concordate. Nelle imprese di beni e di servizi l'organizzazione del lavoro deve riflettere questi obiettivi - con l'elezione dei responsabili sulla base delle competenze acquisite e anche delle relazioni di fiducia, e con lo strumento della revocabilità e del controllo: i mandati decisi in assemblea devono essere oggetto di bilanci e rettifiche.

b) Bisogna però distinguere "gerarchia" e "responsabilità" nel quadro di una riflessione sull'organizzazione del lavoro e degli incentivi. Non tutte/i hanno voglia di essere "responsabili" diretti. C’è chi può aver voglia di concentrare la propria energia creatrice in attività ludiche e "fuori lavoro" - e contentarsi di un controllo da parte dei responsabili sotto forme e periodicità da decidere collettivamente in funzione dei campi da gestire. L'assunzione di responsabilità è, in sé, una fonte di difficoltà, certo, ma anche di valorizzazione e di interesse personale per un lavoro creativo. La remunerazione "a seconda del lavoro" non implica necessariamente di pagar meno un "lavoro semplice" senza grande qualifica rispetto a quello di una persona qualificata che assicura un'attività responsabile di direzione di una impresa o un servizio. Si possono anzi giustificare compensi per lavori ingrati che non si riescono a far sparire immediatamente.
Anche qui l'analisi concreta e collettiva - in evoluzione - è necessaria: se da una parte la formazione permanente, lo studio, sono assunti finanziariamente dalla collettività, e dall'altra non manca il personale qualificato, le differenze di remunerazione dovrebbero essere ridotte. Lo stimolo alla responsabilità può essere la responsabilità in sé, con il prestigio sociale e conviviale che comporta. Gli incentivi materiali dovrebbero essere associati agli sforzi collettivi, collegati alla condivisione delle conoscenze e delle competenze, all'aiuto mutuo solidale e alla cooperazione - e non alla competizione individuale - : i guadagni di produttività così acquisiti dovrebbero essere associati ad una migliore soddisfazione dei bisogni e organizzazione del lavoro: la riduzione dell'orario e la riorganizzazione del lavoro (e del tempo libero) può essere pienamente integrata nella riflessione sulle forme di incentivazione che hanno tali finalità (1).

c) "Osservatori" sulle disuguaglianze, di genere, di razza e altre, possono essere istituiti a diversi livelli e messi al servizio di associazioni e istituzioni democratiche. Devono consentire non un "appiattimento" delle differenze tra individui o una uniformazione dogmatica e normativa delle scelte ma anzi una grande diversità e flessibilità. Lo scopo degli osservatori sulle disuguaglianze e dei dibattiti pubblici è di impedire che le differenze si traformino in disuguaglianze e in rapporti di oppressione - in genere supportate da disequilibri materiali nell'accesso ai diritti riconosciuti). Inchieste realizzate periodicamente, analisi pluridimensionali (quantitative e qualitative) delle disuguaglianze, supportate da indicatori e sondaggi, devono essere pubbliche. Anche gli osservatori devono essere accessibili e contestabili da tutte le associazioni o istituzioni per esaminare un problema specifico.

3. Democrazia diretta e/o rappresentativa - istituzioni democratiche socializzate

Non bisogna escludere nessuna forma di rappresentanza ma correlare ognuna di esse a un obiettivo, criteri espliciti e bilanci periodici. La critica concreta al parlamentarismo nelle società capitalistiche non può essere separata dall'analisi dei rapporti di classe e delle disuguaglianze così come dall'analisi dei rapporti di produzione/distribuzione che condizionano e limitano la democrazia politica rappresentativa. Una democrazia autogestionaria socialista non si ferma mai alle porte delle imprese e si occupa di tutti gli aspetti di base della vita sociale. Le forme di controllo diretto o quelle sociali specifiche (camere ad hoc dotate di diritti specifici di veto per esempio) possono essere articolate in forme "parlamentari" di rappresentanza dei cittadini in generale.
"La politica" deve assumere un senso più ampio - associato alle grandi scelte di società e ai mezzi per soddisfarle - e non essere più l'appannaggio di partiti o di un apparato di Stato separato dalla società; deve penetrare tutte le sfere pubbliche (e l'arrivo sulla scena pubblica di una questione "privata" dipende dall'emergere di una insoddisfazione maggiore e condivisa, o di un rapporto di oppressione, denunciato dalle/gli interessate/i).
Però bisogna approfondire il dibattito sulle istituzioni - in particolare con gli anarchici. La critica del parlamentarismo non implica necessariamente che bisogna sopprimere i parlamenti; così come la critica del ruolo della moneta e dei rapporti mercantili dominanti nel capitalismo non significa che si possa fare a meno di ogni forma di moneta o di mercato. Lo stesso vale per i partiti, i sindacati, le associazioni e altre istituzioni che non sfuggono alla burocratizzazione: la lotta contro la burocratizzazione passa per la soppressione di queste istituzioni? Le reti e la democrazia diretta non sono esse stesse soggette ai rapporti di potere (non codificati e non controllabili)? Mentre non è impossibile combatterli coscientemente dentro i partiti, i sindacati, le associazioni. Infine, possiamo trattare le istituzioni organicamente connesse alla difesa repressiva dell'ordine borghese (l'esercito, la polizia, la Nato...) alla stessa stregua del le istituzioni di tipo parlamentare o l'ONU? L'analisi critica necessaria di queste ultime nel contesto capitalista non implica necessariamente che verranno abolite in futuro.
Insomma bisogna distinguere le istituzioni che dovranno sparire con l'ordine capitalista, quelle che saranno radicalmente ricomposte e quelle che potranno essere inventate e messe al servizio della democrazia diretta - che deve prevalere in ultima istanza. Affrontando il dibattito su "i mezzi e i fini" in modo non dogmatico ma basato sull'esperienza, bisognerà anche pensare al "deperimento dello Stato" in quanto organo repressivo di classe, o al di sopra delle società e del mercato, con una combinazione delle trasformazioni radicali e di "socializzazione" (controllo sociale) di tutte le istituzioni - ivi compreso il piano, il mercato, la moneta, così come le diverse forme di proprietà e di associazione.

II. Superare i falsi dilemmi, incorporare i frutti dell'esperienza

1. Lotte autogestionarie nel/contro il capitalismo - e sistema autogestionario globale

Bisogna opporre le une all'altro? Si e no.
Si, perchè la dimenticanza (o la sottostima) del potere capitalista reale nelle sue declinazioni istituzionali e socio-economiche, come costrizione fondamentale che limita i diritti e i rapporti autogestionari, conduce a delle impasse controproducenti. L'incorporazione dentro il capitalismo, la perdita di sostanza dello "spirito" iniziale di certe cooperative, l'auto-sfruttamento dei lavoratori - e parallelamente l'approccio negativo delle resistenze non autogestionarie considerate come non sovversive - sono difetti o rischi reali. Gli stessi si possono ritrovare quando manca l'analisi critica dei finanziamenti diretti verso le micro-imprese e le famiglie sfavorite, presentate eventualmente dalla Banca mondiale come "soluzione alla povertà" orientate al "workfare" e l'autoimpiego, ma che sono delle trappole: tassi d'interessi da usurai e scivolamento in una povertà e una dipendenza senza fine.
L'autogestione nel capitalismo è così difficile da applicare che a volte è più pertinente rivendicare (come l'hanno suggerito alcuni lavoratori argentini) la nazionalizzazione sotto controllo operaio. Se no si rischia di concentrare l'attenzione su dei casi molto marginali o eccezionali e di rinunciare a delle lotte che sono essenziali in difesa dei lavoratori e dei loro diritti ma che non possono prendere forme autogestionarie o cooperative all'interno di certe imprese. (tornerò dopo su altre potenzialità da non trascurare). Il capitalismo impone la sua coerenza di "diritto di proprietà" e esige di poter "vendere" i prodotti - di essere o autosufficiente o assistito per sopravvivere. L'autogestione di territori e comuni agricoli, le piccole produzioni mercantili, i prodotti che hanno una clientela popolare, sono degli esempi più favorevoli a delle lotte autogestionarie/cooperative. Ma le imprese multinazionali hanno imparato a compartimentare la loro produzione e a delocalizzare "reparti" o a esternalizzarli, a spezzare la coerenza del processo di produzione locale: vendere un pezzo di un motore non ha un "senso" autogestionario...
No, perché l'attesa del "Grande evento" della rivoluzione per esperimentare delle alternative abbozzate sotto /contro il capitalismo sarebbe un altro suicidio; perché anche dei casi parziali possono diventare popolari e dimostrare altre possibilità; perché infine la lotta contro la burocratizzazione delle esperienze rivoluzionarie sarà più efficace se il nuovo potere si radica dentro le esperienze di auto-organizzazione/autogestione più possibili spinte in avanti. Si tratta anche di una componente del rapporti di forza sociali e ideologici contro il capitalismo, una base di contro-egemonia che contesti i criteri dominanti.
Però la coscienza dei limiti imposti dal capitalismo può essere un fattore di radicalità dell'esperienza: deve essere permanentemente esplicitata e sviluppata - per radicalizzare le esigenze, per non accettare come "ideali" i rapporti sociali molto impregnati dalle logiche dei rapporti monetari e di concorrenza mercantile, per cercare ad ogni costo i legami esterni- territoriali, sociali, internazionali- - che aiutino a resistere e a pensare diversamente.

2. Il passato/presente

Bisogna certo reinventare il linguaggio delle lotte all'orizzonte delle esperienze attuali - fortunatamente non è necessario conoscere e condividere il bilancio delle esperienze passate per combattere il sistema capitalista e impegnarsi a costruire un'alternativa. Eppure, lungi dal denigrare l'esperienza passata globalmente presentata come fallimentare, è anzi essenziale incorporarne le lezioni come "nostre": l'atteggiamento di molti militanti e intellettuali antistalinisti che rigettano in blocco il "socialismo reale" presenta il pericolo paradossale di fare il gioco di chi rifiuta in blocco il comunismo, facendo del capitalismo l'unico orizzonte di pensiero e di esperienza possibili.
Lo scarto tra il "socialismo reale" e gli ideali di emancipazione socialisti e autogestionari non deve essere pensato come qualcosa di "esterno" all'esperienza anticapitalistica. Anzi: la cristallizzazione burocratica staliniana è certo "eccezionale" nella sua dimensione totalitaria e nel ruolo che lo stalinismo ha avuto nel movimento operaio internazionale; ma il burocratismo è un problema "organico" del movimento operaio (politico, sindacale, associativo) durante il capitalismo e dopo la presa del potere. Non comprenderlo vuol dire erigere a "nuova classe" o semplicemente a "borghesia" (quindi esterna al movimento operaio) un problema innanzitutto endogeno, che dobbiamo saper affrontare nei nostri propri ranghi... Un problema che minaccia ogni organizzazione rivoluzionaria pur antistalinista o anarchica che sia.
Dire ciò non significa che non si analizzi il processo burocratico che può tendere verso la cristallizzazione di una nuova classe o borghesia e che possa avere relazioni di interessi comuni (e di conflitto) con la "borghesia realmente esistente" e il suo sistema. Però impone da un lato una più grande profondità autocritica del movimento rivoluzionario (ivi compreso il riferimento alla fase pre-staliniana della rivoluzione russa), e sopratutto di analizzare tutta una serie di conflitti e di contraddizioni come problemi "nostri", che qualsiasi esperienza rivoluzionaria dovrà risolvere. Questo approccio di riappropriazione dell'esperienza passata è particolarmente importante per quanto riguarda la rivoluzione yugoslava,: una rivoluzione sociale e politica in cui un partito comunista (dopo la stalinizzazione dell'URSS) è forza dirigente che induce l'autogestione generalizzata per la prima volta nel mondo. L'approccio dogmatico verso questa esperienza qualificata come "capitalismo di Stato" conduce al non analizzare come "problemi nostri" la difficoltà di organizzazione di un sistema di autogestione - e a rigettare come non interessanti le elaborazioni delle correnti marxiste autogestionarie e critiche: non c'è niente da imparare da tutto ciò poiché si tratta di capitalismo (un capitalismo staliniano) e le critiche interne sono al meglio delle coperture riformiste di un sistema che è globalmente da rifiutare.
Contro questi comportamenti intellettuali e politici non possiamo naturalmente pensare che l'esperienza yugoslava possa giocare oggi un ruolo diretto nella coscienza larga dei nuovi movimenti sociali di resistenza al capitalismo - non più tra l'altro della Rivoluzione d'ottobre o della Comune di Parigi: sono ormai esperienze di un passato remoto. Però contano per la formazione e la riflessione politica.

3. Alcuni contributi dell'esperienza yugoslava

I principali contributi della Scuola di Praxis (corrente marxista che ha condotto la battaglia nel quadro del sistema autogestionario, criticandolo in nome degli ideali comunisti) avanzati contro le riforme mercantili degli anni 1960:

a) Proprietà sociale - contro il dilemma "proprietà nazionale statalizzata o autogestione impresa per impresa" (collegate tramite il mercato e con le banche che gestivano il surplus): la socializzazione della proprietà resiste sia all'alienazione dell'autogestione da parte dello Stato che da parte del mercato. Trasfoma l'autogestione in diritto di gestione di questa proprietà a una scala di società - e non solo di impresa. Certo essa è "di tutti e di nessuno" (si dice a volte per criticare l'assenza di criteri e di meccanismi precisi di gestione) - ma è un soggetto aperto all'esperienza, alla riflessione e al dibattito che riprenderò più tardi a proposito della nozione dei "Commons" (o Beni comuni). Le proposte espresse dalla corrente di Praxis e in parte riprese negli emendamenti alla Costituzione del 1974, redatti da E. Kardej, sono passi in avanti nella risposta a questa questione. Li riassumo nei punti seguenti.

b) Le "SIZ" (acronimo serbo croato) o "Comunità d'interesse autogestionarie" che associavano produttori, utenti del prodotto o servizio dato: queste Comunità stabilite per la gestione dei servizi di sanità, educazione, asili nido, trasporto pubblico, territoriale a vari livelli, autogestivano quindi un bilancio comune e il modo in cui produrre un bene comune - in particolare un servizio. E' il superamento necessario di un approccio puramente centrato sulla produzione e che permette agli utenti di fare pressione sulla qualità e l'organizzazione del servizio, attraverso l’interlocuzione con i lavoratori di questo servizio. La SIZ poteva integrare anche rappresentanti dei poteri pubblici del livello considerato e associazioni o sindacati.

c) Le camere di autogestione a diversi livelli territoriali. Queste camere ad hoc che furono introdotte in pratica nella Costituzione del 1974 solamente a livello dei comuni e delle repubbliche, avrebbero avuto una pertinenza importante sul piano federale per allargare l'orizzonte di gestione in un approccio articolato dei bisogni di un determinato territorio. La composizione di queste Camere doveva permettere i legami con i diversi centri di produzione di beni e servizi autogestiti sul territorio; poteva combinare forme di delega dei lavoratori, degli utenti, sindacati, differenti associazioni socio-economiche: possiamo immaginarci l'interesse di un approccio ecologico, femminista ecc. Queste camere erano ovviamente articolate sull'ultimo aspetto della "mutualizzazione" dei diritti autogestionari: la pianificazione.

d) la pianificazione autogestionaria; può essere concepita a diversi livelli territoriali con modalità di coordinamento. In essenza punta a realizzare più dimensioni evocate riguardanti la natura dello statuto/dei diritti autogestionari/o.

* I diritti individuali di decisione e controllo autogestionari non devono essere il frutto casuale di un lavoro in una impresa o in un servizio particolare: tutti/e coloro che sono coinvolti/e nella produzione e nella gestione di un bene o servizio possono pronunciarsi (priorità, ripartizione dei finanziamenti, criteri, ecc): tutti i membri della società possono essere implicati nelle procedure di discussione della pianificazione autogestionaria - e si può concepire un crogiuolo specifico di riflessione e di elaborazione nel quadro delle Camere, basate sulle rappresentanze di collettivi, anche se le grandi scelte vengono in seguito sottoposte ai cittadini.

* Reciprocamente, non è giusto che i problemi incontrati in una impresa o in un settore particolare sia solamente a carico delle/i lavoratrici/ori di questa impresa: queste/i ultime/i hanno la responsabilità prima nelle scelte di gestione della loro impresa. Ma queste possono dipendere dalle scelte della società (produrre o no il nucleare, assicurare un equilibrio di lavoro e di attività su un piano regionale, assicurare la conversione ecologica dei trasporti, ecc..) e di un principio di rifiuto della disoccupazione.

* Oggi va da sé che la pianificazione autogestionaria deve incorporare i diritti sociali e allo stesso tempo obiettivi di riconversione radicale della produzione in funzione di finalità ecologiche. (3)

4. I diritti sociali vanno in parte dissociati dal lavoro - ciò può essere fatto nel quadro di un approccio transitorio anticapitalista verso una società autogestionaria.

L'esperienza yugoslava autogestionaria si è scontrata con una contraddizione e un fallimento maggiori: l'incompatibilità di un sistema di diritti autogestionari legati al lavoro con le esigenze di ristrutturazione del lavoro e del pieno impiego. La "disoccupazione socialista" che ha conosciuto la Yugoslavia deve essere analizzata come tale e non con i concetti e i criteri di una società capitalista. E' di nuovo il "nostro problema", uno dei problemi essenziali da risolvere in una società socialista e non la prova che la Yugoslavia di Tito era capitalista.
Per risolvere questi problemi bisogna affermare simultaneamente: il diritto al lavoro (distinto da un lavoro specifico) e la rimessa in discussione radicale del rapporto di dominio e (quindi dello statuto) del salariato: quindi dei diritti associati allo statuto di autogestionario quindi al controllo dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori/utenti essi stessi. La rimessa in discussione del rapporto salariale come rapporto di dominio della proprietà capitalista non significa la fine del "reddito" monetario (chiamato così per distinguerlo dal salario) associato al lavoro; non significa neppure il rifiuto della flessibilità necessaria nel lavoro (a condizione che sia ricercata dai lavoratori): si può voler cambiare il posto di lavoro e l'organizzazione del lavoro ma si può anche desiderare la permanenza del posto di lavoro. Ciò riguarda sia scelte individuali che collettive: la riorganizzazione del lavoro può essere socialmente fondata o contestata come uno spreco o in funzione di tale o tale aspetto negativo che implica delle riconversioni.
La compatibilità di questi obiettivi simultanei implica che le riconversioni vengono assunte socialmente, collettivamente (quindi organizzate) e che i redditi e i diritti sociali di base (protezione della salute, diritti alla formazione permanente su tutta la durata della vita, protezioni familiari, ecc) non vadano persi quando si cambia attività. Si può anche pensare ad una nozione di lavoro (sociale) o di attività sociale nel senso ampio riconosciuto dalla società che integri il tempo della formazione (che può essere distribuito lungo tutta la vita), il tempo necessario per le attività democratiche di gestione, il tempo consacrato alle attività domestiche e di cura dei bambini, ecc. Il reddito di base e i diritti sociali possono essere associati a questa "attività sociale" che può passare da un lavoro all'altro - o a una formazione, o ancora ad un altro compito collettivamente riconosciuto.
Questi problemi si pongono anche nelle lotte anticapitalistiche, contro la precarietà imposta che punta (dal punto di vista capitalistico) a ridurre i benefici sociali versati. Bisogna al contrario elaborare un codice del lavoro (con i giuristi del lavoro) che sopprima lo "stimolo" capitalistico della precarietà: questa deve costare (in termini di protezione sociale) al padrone quanto un lavoro non precario... La lotta anticapitalistica sul piano sociale e ideologico deve rimettere in discussione il trattamento disumano dei lavoratori come merci scartabili (per comprimere i costi): un "diritto" di proprietà e uno statuto sociale alternativo deve essere abbozzato contro il diritto borghese, per delegittimarlo. Però si tratta di una battaglia complessiva che si scontra con i pieni poteri istituzionali, militari, giuridici, economici del capitale a vari livelli. Il "contratto" di lavoro è evidentemente profondamente distorto e disuguale rispetto a questi diritti di proprietà giuridici e reali del capitale. Bisogna contestare questi diritti. Dei passi in avanti sono possibili.
Però è chiaro che una delle trasformazioni radicali che punta a permette la presa del potere rivoluzionaria è di stabilire una nuova Costituzione da parte di una assemblea costituente: questa dovrà cambiare "le regole del gioco", i diritti sociali di base, gli statuti degli esseri umani. E' li che devono essere concretizzate e difese le finalità autogestionarie, nelle modalità in cui saranno state abbozzate dalle esperienze parziali.

III. Riformulazioni strategiche della battaglia autogestionaria. I "Beni comuni" questione strategica, dal locale al planetario...

1. Ogni periodo storico deve trovare i propri riferimenti e le proprie "parole" per dire i nuovi progetti che si dissociano delle sconfitte passate senza spezzare i legami di continuità con le grandi lotte emancipatrici e le utopie concrete. Il problema principale è quello del rapporto di forza in grado di stabilire una contro-egemonia rispetto a quella dominante, appoggiandosi su "blocchi storici" di resistenza.
Non si possono pensare un'alternativa al mondo attuale, "comunista" nei fatti, e una strategia autogestionaria, basandosi su quello che fu il "comunismo reale", che non è un modello. Ma la semplice accumulazione di esperienze parziali profondamente costrette e soffocate da un ambiente circostante ostile porta ugualmente ad un'impasse, una via poco credibile in cui gli sforzi militanti rischiano di esaurirsi rapidamente.
Non per questo bisogna rinunciare. Però non bisogna mettere in opposizione cammini multipli e apparentemente contradditori (particolarmente difficili da riconciliare quando le forze sono poche). A prescindere dalle difficoltà, dobbiamo tenere insieme passato/presente, individuale/collettivo, locale/planetario e agire di conseguenza cercando di padroneggiare queste tensioni.

2. La questione dei "Beni comuni" ci aiuta in ciò - nella riformulazione, con parole "nuove", di vecchie e durevoli utopie "comuniste" – ma anche nella comprensione dei fallimenti passati. Permette di allargare i terreni e i temi di mobilitazione, in un'ottica autogestionaria nel senso ampio definito prima: utenti e produttori, a diversi livelli territoriali, e articolando esplicitamente un rifiuto di statuti sociali disumani. Il tema dei "beni comuni" esprime l'esigenza del XXI ° secolo di diritti sociali universali fondamentali integrandovi l'esigenza della co-proprietà, la piena responsabilità delle ricchezze umane prodotte, la co-solidarieetà nella protezione dell'ambiente. Non si tratta di astrazioni ma di questioni concrete.
La nozione dei "Commons" (in inglese) o "beni comuni" emerge sempre di più sia nelle ricerche teoriche (4) - come quella di Elinor Ostrom sulle comunità indigene - sia nelle esperienze orientate alla gestione democratica dei beni naturali - come l'acqua o la terra - o dei beni (materiali o immateriali) creati dall'attività umana. Queste riflessioni che si diffondono attualmente su tutti i continenti nei movimenti di resistenza si ergono contro le interpretazioni neoliberiste che hanno cercato di dimostrare che solo la proprietà privata dei beni genera una gestione efficace. La "tragedia dei beni comuni",(5) articolo scritto da Garrett Hardin nel 1968, associava così ad ogni proprietà collettiva una supposta inefficienza organica. Questa "tragedia" sarebbe dovuta alla "deresponsabilizzazione" che ogni proprietà sociale comporterebbe ("di tutti e di nessuno", come si diceva in Yugoslavia) visto che ognuno rinvierebbe ad altri il compito di prendersi cura della proprietà comune. E molte critiche liberali dell'esperienza yugoslava, e più in genere del "socialismo reale", hanno messo l'accento sui comportamenti reali di spreco o di assenza di manutenzione dei beni pubblici, illustrando in effetti questa "tragedia". Eppure non è fatale e le sue cause stanno al centro della riappropriazione che dobbiamo fare di un bilancio critico di questo passato: l'assenza di responsabilità degli autogestionari, dei lavoratori e degli utenti della proprietà collettiva, teoricamente "proprietari" ma praticamente subordinati alla gestione da parte del partito/Stato a nome dei lavoratori, alle loro spalle.
Ma non vi è niente di fatale e le esperienze studiate da Elinor Ostrom consentono di estrapolare criteri che entrano in sintonia con le osservazioni fatte prima: i comportamenti irresponsabili possono essere padroneggiati se emergono quelle che si potrebbero chiamare, riprendendo il vocabolario yugoslavo evocato prima, le "comunità d'interesse autogestionarie" che decidono i criteri stessi della gestione e ne controllano l'applicazione. Questa idea generale può estendersi a vari livelli di applicazione. Implica che tutte le persone interessate nella gestione di un determinato bene siano responsabilizzate nella determinazione delle scelte, nel loro controllo, nel loro riaggiustamento a vari livelli territoriali.
Certo, c'è bisogno di un'analisi concreta delle situazioni concrete. I problemi di gestione non sono gli stessi se il bene da gestire è "divisibile" e materiale (come una terra o delle risorse naturali di acqua o di energia) e esauribile; o se diventa meno costoso produrlo a misura che tutte/i ne fanno uso individuale - senza che ciò ne impedisca l'uso collettivo: anzi la soddisfazione di ognuno/a aumenta, per esempio con un software libero gestito collettivamente. Le caratteristiche della "proprietà intellettuale" sulle conoscenze scientifiche e mediche, o culturali, sottolineano che la privatizzazione è controproducente per l'interesse collettivo. Ma possiamo anche dimostrare articolazioni positive tra l'interesse individuale e collettivo trovando stimoli e modi di gestione adeguati alle imprese autogestite, ai servizi pubblici, o a una "comunità di società" tutta intera (in una regione, prima di prendere un potere ancora più ampio..). Detto in altre parole la "gestione dei Commons" consente anche di articolare la riflessione e l'azione delle lotte dentro e contro il sistema capitalista, inventando concretamente altri "possibles" (potenzialità storiche) che non possono trovare la loro coerenza e efficacia senza sollevare la "questione del potere" e quindi dei diritti riconosciuti.

3. Cogliere il senso strategico delle privatizzazioni generalizzate del XXI° secolo

L'esperienza del capitalismo attuale dimostra che nessun bene naturale, nessun prodotto, ma neppure nessun essere umano o pezzo di essere umano è di per sé protetto dalle minacce di appropriazione predatrice individuale del "brevettaggio" capitalistico. La privatizzazione attraverso "l'esproprio" è stata denunciata da David Harvey come nuova fase e moltiplicazione delle nuove "enclosures" (evocando i recinti associati alla privatizzazione delle terre in Inghilterra nel 16° e 17 secolo). Questa nuova ondata predatrice che segna la fase neoliberista del capitalismo finanziario dagli anni 1980, si è estesa in tutte le sfere e le regioni del mondo articolandosi sulle caratteristiche di base della "riproduzione allargata" del capitale in funzione del maggiore profitto.
Questa logica si è imposta prima nel cuore stesso dei paesi imperialisti sotto lo slogan TINA (There Is No Alternative) di Margaret Thatcher, con la distruzione dello Stato sociale e le ondate di privatizzazioni: queste continuano contro le protezioni collettive del codice del lavoro e tutto ciò che non è ancora stato privatizzato, in corrispondenza alle varie fasi della crisi, in particolare in Europa. Questa distruzione sociale si appoggia in questo continente sulla distruzione del vecchio regime del "Socialismo reale" attraverso la privatizzazione forzata di intere industrie e cooperative agricole, accompagnata dalla trasformazione del ruolo della moneta e del mercato. Parallellamente tutte le risorse naturali dei Paesi del Sud, che erano state nazionalizzate con la decolonizzazione, sono diventate preda delle multinazionali sotto pressione del FMI e dell'OMC. C'è quindi una posta specifica e storica nelle privatizzazioni del XXI° S. - con le sue dimensioni dogmatiche neoliberiste appoggiate da istituzioni potenti, le cui dimensioni antisociali sono combinate con una crisi ambientale maggiore: gli "espropri" combinati alla distruzione di ogni forma di protezione sociale collettiva dei lavoratori sono una realtà di questo capitalismo globalizzato a partire dalla svolta neoliberista dell'ultimo quarto del secolo precedente. Rispondendo a una crisi del profitto e dell'ordine mondiale capitalistico questo corso neoliberista è stato accentuato radicalmente con il ribaltamento del 1989-1991 dell'unificazione tedesca e con lo smantellamento dell'URSS. Questi attori (politici, finanziari, ideologici) assumono oggi più esplicitamente le caratteristiche dogmatiche "dell'ordo-liberisme" che impone le sue regole attraverso istituzioni forti radicalmente contradditorie con ogni democrazia, tanto gli effetti delle sue politiche sono distruttori dei diritti sociali e dell'ambiente. La mondializzazione di queste logiche antisociali, antiambientali e antidemocratiche è accompagnata da rivoluzioni tecnologiche che trasformano le relazioni mondiali di produzione e di distribuzione - ciò che rende spesso impotenti le resistenze puramente locali.

4. Risposte autogestionarie in difesa dei Commons, dal locale al planetario

Però queste trasformazioni creano anche una mondializzazione dei legami e delle resistenze. Certe questioni fondamentali sono diventate veramente planetarie - la crisi ecologica in primo luogo; ma anche i problemi della fame, della povertà, dell'accesso all'acqua o all'educazione, alla sanità o alla casa - diritti fondamentali acquisiti con le lotte del XX° S che sono rimessi in discussione. E' per questo che bisogna intraprendere la battaglia per la delegittimazione politoco-morale di questo processo di "esproprio", trasformare le rivolte in battaglie collettive ancorate nei "beni comuni" associati ai diritti: il diritto all'acqua, alla casa, alla cultura, alla salute, all'educazione - a un reddito e a uno statuto "degno".
Questi diritti si scontrano con la distruzione delle risorse fiscali degli Stati - un altro "bene comune" così come la moneta in quanto bene pubblico: la trasparenza dei conti e la subordinazione delle finanze al controllo pubblico, sociale, devono essere imposti anche nella lotta contro il salvataggio delle banche private da parte degli Stati sulle spalle dei contribuenti e in quella contro i crediti tossici delle banche che intrappolano i Comuni impoveriti o le famiglie precarizzate. I diritti di base si scontrano anche con le speculazioni finanziarie sulle materie prime, l'acqua, l'immobiliare, i prodotti agricoli; si scontrano con i comportamenti e i discorsi supposti "responsabili" delle aziende multinazionali ipocriti e tentacolari come Vivendi o Nestlé, protetti da potenti istituzioni e accordi di "libero scambio" mentre privano milioni di contadini poveri o di abitanti dei quartieri poveri dall'accesso all'acqua.
La sensazione di urgenza della crisi sociale e ambientale, la rivolta contro l'ingiustizia, la percezione crescente degli interessi sociali confliggenti , dal piano locale al mondiale, si sono espressi in particolare nella conferenza Rio+20 durante la quale il termine "commons" è diventato un punto di raccordo, espresso nel titolo stesso del "Vertice dei popoli per la giustizia sociale e ambientale in difesa dei beni comuni". I coordinamenti tra lotte sociali, nazionali, continentali e planetari esistono anche nelle battaglie in corso contro gli accordi di libero scambio transatlantici.(6) Una stessa logica è presente nelle lotte che vogliono imporre la subordinazione del diritto alla concorrenza difeso dall'OMC, dal FMI (o dalla Commissione europea,..) ai diritti etici superiori riconosciuti nella Dichiarazione universale dei diritti umani che l'ONU dovrebbe difendere. Certe battaglie sono state vittoriose contro il diritto alla concorrenza dentro l'Unesco in difesa dei beni culturali, o ancora con l'Oms in difesa della salute contro l'OMC. Le sovvenzioni in difesa dei diritti sociali e ambientali si oppongono a quelle che sostengono le aziende agro-esportatrici; questi conflitti sono espressi dai Senza Terra brasiliani e portati avanti dalla Via Campesina in lotte mondializzate che mettono oggi l'OMC in crisi - ma con il pericolo immediato di accordi bilaterali distruttori.
Separare il locale dai problemi internazionali è un impasse mentre tali accordi condizionano strettamente ciò che possono essere i diritti sociali delle imprese, i criteri di sovvenzione e i mezzi di resistenza contro la predazione delle aziende multinazionali. Reciprocamente le lotte "globali" avranno una portata e un peso solamente appoggiandosi sui rapporti di forza costruiti nelle mobilitazioni di massa delle popolazioni locali, nazionali - stimolate da vittorie parziali, resistenze multiformi che si collegano tra di loro. Nuovi "spazi pubblici" di contro-poteri, di contro-egemonia, d'invenzione di nuovi diritti e di nuovi possibili scenari devono emergere dentro/contro il capitalismo globalizzato, collegati dal locale al planetario, attraverso internet e gli incontri solidali.
La (ri)conquista dei"Beni comuni" si farà allo stesso tempo contro i nuovi predatori e contro la gestione tecnocratica o statale passata; la difesa della "dignità" come uno dei "Beni comuni" associata ai diritti di base, deve implicare una pluralità di attori tra cui gli "esclusi" o precari del mondo del lavoro. Questa questione, associata alla ricomposizione di un tessuto associativo e della vita comune (lavoro, consumo, tempo libero, formazione,..) passa per la difesa dei diritti umani e di uno statuto degli esseri umani in quanto co-gestionari delle ricchezze esistenti, oggi in mano dall'1% che gestisce il pianeta.

----------------------------------------------

(1) All'inizio degli anni 1960 un "Grande dibattito" attraversava i Paesi dell'Est su quali riforme introdurre per amigliorare la qualità e l'efficacia delle produzioni. Parecchi economisti difendevano l'ampliamento dei meccanismi di mercato e dei stimoli monetari. Ci furono scambi di idee importanti a questo proposito tra Che Guevara, Ernest Mandel (dirigente della 4a Internazionale) e Charles Bettelheim. Quest'ultimo difendeva piuttosto le riforme di mercato, Che Guevara vi si opponeva, considerando che rischiavano di smantellare il carattere solidale della produzione - ma si rivolgeva quindi verso la pianificazione di tipo sovietico. Ernest Mandel, appogiandosi sui dibattiti in corso nella sinistra marxista yugoslava (dentro un'ottica di pianificazione autogestionaria) preconizzava gli stimoli che spingevano alla cooperazione e non alla concorrenza mercantile, convergendo su questo punto con l'ottica del Che, pur criticando l'esperienza sovietica . http://www.ernestmandel.org/fr/ecrits/txt/1965/le_grand_debat_economique...

(2) Vedere “la dialectique des fins et des moyens” http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article7509

(3) Vedere http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article29445 : “Des dégâts du productivisme à la planification démocratique autogestionnaire”

(4) Vedere http://blog.mondediplo.net/2012-06-15-Elinor-Ostrom-ou-la-reinvention-de...

(5) The Tragedy of the Commons articolo di Garrett Hardin, "Science", 13 dicembre1968.

(6) Vedere i dossier di Le Monde Diplomatique http://www.monde-diplomatique.fr/2013/11/WALLACH/49803