Spazi di contesa: città e movimenti sociali

Mon, 02/02/2015 - 20:08
di
Cesare Di Feliciantonio (Sapienza- Università di Roma e KU Leuven)*

Con l’acuirsi della crisi economico-finanziaria a livello globale, numerose città hanno visto sorgere movimenti di protesta che hanno prodotto nuove pratiche politiche ed immaginari (si pensi a Occupy o alle acampadas che hanno invaso le piazze spagnole nel 2011) per contrastare le politiche messe in campo da democrazie rappresentative che vivono una crisi profonda di legittimità. Pur dotandosi di reti d’appoggio e diffusione in alcuni casi transnazionali, tali movimenti vedono nelle città i luoghi primari d’organizzazione, spingendo sempre di più il mondo accademico a interrogarsi sul rapporto tra movimenti sociali e spazi urbani. I movimenti sociali urbani hanno così assunto rilevanza assoluta nel dibattito interdisciplinare, dopo essere rimasti in ombra all’interno della letteratura sui “nuovi movimenti sociali”; questi ultimi venivano considerati come movimenti sociali a sé stanti che, mossi da questioni inerenti il consumo collettivo, lottavano per l’affermazione di un ambiente urbano più giusto e democratico (1). Di fronte alla crescita esponenziale dell’urbanizzazione capitalistica e del ruolo delle città come nodi centrali dei processi di accumulazione e regolazione del capitalismo finanziario, gli spazi urbani assumono un’importanza strategica per i movimenti sociali tanto sul piano simbolico delle azioni quanto su quello della loro organizzazione e riproduzione quotidiana. La geografia (sociale e urbana) così come gli studi urbani possono quindi apportare un importante contributo nell’analisi e comprensione di tali dinamiche spaziali. In che modo gli spazi urbani favoriscono la nascita, la proliferazione e il radicamento di forme di contestazione delle relazioni di potere egemoniche? Che tipo di rivendicazioni vengono costruite attorno alla specificità degli spazi urbani? Come si declinano le lotte per i beni comuni- in forte diffusione- in una società urbanizzata?

A tutt’oggi, il contributo più importante nell’analizzare la nascita e l’evoluzione dei movimenti sociali urbani resta quello di Manuel Castells, che tuttavia ne ha fornito una visione contrastante nei suoi testi più importanti in merito. Ne La Questione Urbana (1974, ed. it.) egli enfatizzava infatti come le lotte urbane, esprimendo le contraddizioni strutturali della società capitalistica, potessero portare a cambiamenti radicali solo collegandosi all’azione di sindacati, partiti ed altre organizzazioni politiche. Al contrario, in The City and the Grassroots (1983) prevaleva una visione altamente negativa di tali alleanze, sottolineando il carattere compless(iv)o dei movimenti sociali urbani che combinava identità culturali, consumo collettivo, sindacalizzazione e diritti di cittadinanza.
Le principali rivendicazioni rintracciate dagli analisti dei movimenti sociali urbani riguardano il “diritto alla città” di matrice lefebvriana, che ha goduto di enorme fortuna sia tra gli attivisti che tra amministratori/élite locali, rendendone contraddittori l’uso ed il senso.
Introdotta dal filosofo francese Henri Lefebvre già prima del ’68, l’espressione “diritto alla città” rappresentava una provocazione tesa ad esprimere tanto un “pianto” quanto una “richiesta”; secondo il geografo David Harvey (2) il “pianto” esprimeva le sofferenze di una crisi che si viveva quotidianamente nelle città, mentre con “richiesta” è da intendersi un’idea di vita urbana alternativa, meno alienata e più aperta al gioco e alla festa. Tale diritto non va inteso come uno specifico diritto allo spazio pubblico, ad un servizio o una semplice norma, ma come diritto (collettivo) ad una totalità ed una complessità (3), essendo la città il luogo in cui “tutto” si riunisce. Infatti, “la città costruisce, sprigiona, libera l’essenza dei rapporti sociali: l’esistenza reciproca e la manifestazione delle differenze” (Henri Lefebvre, La rivoluzione urbana, Armando editore, 1973: pp. 133-134, ed. or. La révolution urbaine, Gallimard, 1970).
Va detto che la “città” intesa da Lefebvre non è la città capitalistica esistente, ma un’aspirazione futura ad un “urbano” in cui i confini tra città e campagna sono scomparsi (4); l’urbano non è quindi che sineddoche e metafora, “una moltitudine brulicante di diversi desideri ed aspirazioni non riducibili ad imperativi economici” (Mark Purcell, Possible Worlds: Henri Lefebvre and the Right to the City, “Journal of Urban Affairs”, n. 36(1), 2014: 145, traduzione a cura dell’autore). Forte di una massiccia diffusione in ambito sia teorico sia politico-sociale (tanto sul fronte dei militanti quanto su quello delle élites neoliberali promotrici di una governance basata sulla “partecipazione”), questo concetto sembra esser diventato una sorta di contenitore privo di significato. Infatti, come affermato da Harvey, non soltanto tutti possono chiedere un “diritto alla città”, ma soprattutto tutti hanno diritto a farlo, dagli investitori immobiliari ai migranti senza documenti; si tratta dunque di riconoscerne la natura conflittuale (e materiale) (5).
Dal punto di vista strettamente teorico, il “diritto alla città” è divenuto la principale rivendicazione associata ai movimenti sociali urbani. Ma di quale tipo di città si tratta? E come si esplica questo diritto per i movimenti sociali interessati? Perché proprio lo spazio urbano costituisce terreno privilegiato di costruzione e contesa? Tali domande trovano risposte differenti a seconda della prospettiva analitica privilegiata; tre sono le prospettive richiamate nel presente contributo: quella che potremmo definire “strutturalista” difesa da autori quali Margit Mayer e David Harvey, quella che richiama la vocazione originaria di giustizia sociale del concetto ed infine la prospettiva eminentemente spaziale della geografia “relazionale” rappresentata da autori come Walter Nicholls.

La prima prospettiva legge i movimenti sociali urbani in relazione ai processi di ristrutturazione del capitalismo che trovano in quella urbana la scala privilegiata di accumulazione e regolazione (6). Una delle esponenti più influenti di quest’approccio analitico è Margit Mayer la quale, pur riconoscendo a Castells il merito di pioniere nell’analisi dei movimenti sociali urbani, gli rimprovera di aver sottovalutato i processi strutturali determinanti per la formazione e l’evoluzione di tali movimenti (7), critica peraltro già rivolta da altri importanti analisti negli anni ‘80, quali ad esempio Chris Pickvance e Harvey Molotch. Secondo quest’impostazione teorica di stampo “strutturalista”, sono le dinamiche di accumulazione, circolazione e regolazione del capitale che determinano le condizioni di possibilità ed esplosione (così come di successo o sconfitta) per i movimenti sociali; la stessa Mayer ha presentato più volte questo quadro analitico, rintracciando delle caratteristiche specifiche nei movimenti sociali degli anni ’70, degli anni ’80, degli anni ’90 e 2000 in relazione ai cambiamenti nelle dinamiche del capitalismo transnazionale (8). Secondo l’analista tedesca, i movimenti sociali degli anni ’60 e ’70 rispondevano alle norme e alla standardizzazione della città di stampo keynesiano-fordista, mettendo in campo rivendicazioni legate soprattutto al “consumo collettivo” (come strutture e servizi pubblici, maggiore trasparenza e accessibilità ai processi decisionali). La fase di rolling-back della neoliberalizzazione negli anni ’80, caratterizzata da politiche di austerità e distruzione dello stato sociale keynesiano, ha visto invece la comparsa di movimenti sociali urbani focalizzati soprattutto su questioni relative alla nuova povertà e disoccupazione e i bisogni (disattesi) nel settore della casa. La fase di rolling-out del neoliberismo affermatasi negli anni ’90 ha, dal canto suo, imposto la crescita economica e la competitività quali dogmi della politica urbana, facendo dello sviluppo economico locale un obiettivo centrale. In questo quadro, alcuni movimenti sociali hanno subito un rapido processo di professionalizzazione e istituzionalizzazione all’interno della governance neoliberista (ad esempio gli erogatori di servizi che si sono sostituiti allo stato sociale smantellato), mentre altri sono riusciti a mantenere un profilo più radicale di critica alla globalizzazione e alle dinamiche (urbane) di accumulazione e valorizzazione del capitale, in primis i processi di gentrificazione. Infine, a partire dai primi anni 2000, la crisi del capitalismo finanziario globale avrebbe aperto una serie di possibilità (tuttora in fieri) per i movimenti sociali urbani che si troverebbero nella condizione di approfittare della debolezza strutturale delle istituzioni della democrazia rappresentativa schiacciate dalle politiche di austerity.
Nei suoi lavori dedicati ai movimenti sociali (9), lo stesso David Harvey ripropone tale impostazione: nel suo recente Rebel Cities, tutti i movimenti sociali dal XIX secolo in poi, che si tratti della Comune di Parigi, di Seattle del 1919, delle donne, degli abitanti di Dharavi a Mumbai o dei giovani di Piazza Tahrir, vengono ricondotti alle dinamiche di accumulazione del capitale. In questo quadro teorico le città fungono semplicemente da “contesto” del processo di accumulazione globale e, di conseguenza, diventano “contenitori” dell’opposizione dialettica tra sistema e movimenti dal basso. Le città finiscono per assumere una prospettiva quasi intrinseca per i movimenti sociali in quanto nodi centrali dei processi di accumulazione finanziaria e immobiliare, il “diritto alla città” si configura per opposizione alle disuguaglianze del capitalismo come risposta dal basso da parte di chi la città la abita e la vive quotidianamente respingendo la supremazia del valore di scambio sul valore d’uso.
Pur non discostandosi dal riconoscimento delle realtà urbane come nodi emblematici delle contraddizioni e delle disuguaglianze del capitalismo transnazionale, una seconda prospettiva rintracciabile nel dibattito attuale in lingua inglese pone al centro la necessità di ripensare la radicalità e il progetto di giustizia sociale insiti nell’idea lefebvriana di “diritto alla città”.

Il giurista-urbanista Peter Marcuse (10) ha intrapreso un importante percorso teorico in merito, basato sull’idea che qualunque teoria urbana che voglia definirsi critica debba basarsi sull’estendere la portata delle richieste del “diritto alla città”, da re-intendersi come molteplicità di rivendicazioni e battaglie non più concentrate solo sul lavoro ma sull’urbano come contenitore di tutte le nostre relazioni vitali (11). Dati i cambiamenti nell’attuale configurazione del capitalismo che assegnano un ruolo sempre più importante al rapporto tra settore immobiliare e finanziario nei processi di accumulazione e valorizzazione del capitale, Marcuse riconosce la casa come settore conflittuale con elevate possibilità di generare nuove battaglie e rivendicazioni (12). Inoltre, Marcuse coglie in Occupy Wall Street un esempio incisivo che ha il privilegio di aver mostrato come una lotta di successo non debba necessariamente basarsi sulla costituzione di spazi vergini ma possa partire da spazi (urbani) esistenti, dando loro nuovo significato e mettendo in campo delle battaglie per sovvertire le relazioni di potere che ne determinano gli usi (13). Analogo richiamo alla natura eminentemente rivoluzionaria e conflittuale del “diritto alla città” di matrice lefebrviana arriva dai lavori di Mark Purcell, che ne denuncia l’appropriazione in chiave liberal-democratica. In un recente articolo, egli sottolinea l’impossibilità di separare il “diritto alla città” dai principi di autogestione, partecipazione e riappropriazione dal basso e comunitaria della proprietà (14). Seppur con strumenti analitici completamente differenti, nella stessa direzione di riaffermare il carattere radicale del “diritto alla città” come portatore di giustizia sociale e spaziale si muove il contributo di quegli analisti che pongono in primo piano la necessità di pensare i beni comuni (commons). In particolare, in ambito geografico-urbanistico risalta la posizione di Paul Chatterton, per il quale un progetto di giustizia spaziale intorno al “diritto alla città” può essere realizzato privilegiando i beni comuni urbani (urban commons) (15). Dando seguito all’idea di Hardt e Negri secondo cui le città sono i laboratori primari di produzione biopolitica del capitalismo finanziario contemporaneo (16), Chatterton (17) sottolinea come il pensare il bene comune urbano sfida l’egemonia neoliberista in almeno tre ambiti: a) considerare le città stesse come il bene comune fondamentale contemporaneo; b) riconoscere la densità e il potenziale delle relazioni (non di mercato) quotidiane; c) aprire la strada a nuovi immaginari e vocabolari politici.

Le due prospettive fin qui presentate non colgono però appieno i caratteri specifici che favoriscono la proliferazione dei movimenti sociali in ambito urbano. Al contrario, un contributo forte in tal senso arriva da quei geografi “relazionali” che studiano le geografie dei movimenti sociali, in particolare Walter Nicholls il cui lavoro esalta la scala urbana come fondamentale per l’analisi dei movimenti sociali perché è nelle città che essi trovano radicamento (embeddedness) sociale, istituzionale, politico, culturale e territoriale (18). Infatti, secondo Nicholls (19), questo può essere spiegato facendo riferimenti ai “legami alla Granovetter” (20): i legami forti creano e rafforzano le norme condivise, la fiducia, uno schema interpretativo comune delle informazioni e degli avvenimenti politici, nonché l’energia emozionale necessaria a sviluppare solidarietà ed affrontare le sfide. Invece i legami deboli favoriscono la cooperazione tra gruppi necessaria a creare legami di lungo termine e quindi favorire la nascita di una cultura comune della resistenza. In uno degli articoli più famosi sulla questione (21), Nicholls fa riferimento al caso delle organizzazioni di migranti a Los Angeles, per mostrare come in quel contesto la debolezza delle istituzioni di governo tradizionali abbia favorito la nascita di diverse reti impegnate nella costruzione di battaglie su più fronti, come ad esempio sul salario minimo o contro la legge anti-immigrazione approvata nel 2006. Approfittando della debolezza istituzionale, diversi gruppi di recente formazione hanno iniziato a costruire delle reti solide attraverso l’organizzazione di campagne che riguardavano una pluralità di questioni urbane, risultate poi fondamentali per il consolidamento di un’elevata capacità di mobilitazione.

Seguendo questa prospettiva, la nozione di “diritto alla città” è stata criticata perché in essa la città sembra essere il fine ultimo delle battaglie e delle rivendicazioni; si è perciò proposto di parlare di “diritto attraverso la città” (right through the city) riconoscendo che quello della scala urbana per i movimenti sociali è un primato “relazionale”. Infatti, le città favoriscono la condivisione di battaglie e opportunità per gli attivisti, concentrando le infrastrutture relazionali e sociali attraverso cui sono costruite le lotte sociali e rappresentando allo stesso tempo un punto di attacco privilegiato alle relazioni di potere egemonico che nelle città conservano forza e prestigio (22). Le città fungono cioè da “incubatori” di relazioni e pratiche, favorendo la nascita e il rafforzamento di reti che permettono sia l’accesso e la condivisione delle informazioni in un determinato ambito politico sia la formazione di un bacino di potenziali alleati per campagne e azioni. Inoltre la vicinanza spaziale favorisce quell’interazione ripetuta nel tempo che è fondamentale per il radicamento di una conoscenza tacita collettiva che riguarda movimenti e coalizioni sociali complessi (23).

Per concludere, dall’esame congiunto di queste tre prospettive emerge come gli spazi urbani offrano ai movimenti sociali la possibilità di riaffermare un “diritto alla città” in termini radicali di giustizia sociale intorno ai beni comuni (ivi compresi quelli urbani), ponendo una sfida complessiva alle relazioni di potere del capitalismo transnazionale non limitata ad una serie di diritti specifici come la tradizione liberal-democratica vorrebbe. Le città offrono un vantaggio strategico in quanto centri nevralgici del sistema di accumulazione e regolazione, consentendo di sviluppare quei legami necessari alla nascita e al consolidamento dei movimenti sociali stessi. Tuttavia la sfida riguarda proprio il ripensare la città capitalistica nella sua configurazione presente attraverso una nuova immaginazione geografica rivoluzionaria che ne ripensi i limiti ed i confini, esaltando le possibilità offerte dal ripartire dai valori d’uso dei beni comuni (urbani).

1 Per una discussione di sintesi del dibattito sui movimenti sociali urbani, si vedano, tra gli altri, Byron Miller e Walter Nicholls, Social Movements in Urban Society: The City as A Space of Politicization, “Urban Geography”, n. 34(4), 2013, pp. 452-473; Chris Pickvance, From Urban Social Movements to Urban Movements: A Review and Introduction to a Symposium on Urban Movements, “International Journal of Urban and Regional Research”, n. 27(1), 2003, pp. 102-109.

2 Cfr David Harvey, Rebel Cities. From the right to the city to the urban revolution, Verso, 2012 (trad. it. Città Ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Il Saggiatore, 2013). (sul rapporto tra diritto alla città e festa in Lefebvre, si veda Francesco Chiodelli, La cittadinanza secondo Henri Lefebvre: urbana, attiva, a matrice spaziale, “Territorio”, n.51, 2009, pp. 103-109)

3 Cfr Henri Lefebvre, Le droit à la ville, ed. Anthropos, 1968 (ed. it. Il diritto alla città, Marsilio editore, 1970).

4 Cfr ibid.

5 Cfr nota 2.

6 Questo rappresenta uno dei temi chiave della c. d. urban political economy; per una sintesi del dibattito, cfr Ugo Rossi e Alberto Vanolo, Geografia Politica Urbana, Laterza, 2010.

7 Cfr Margit Mayer, Manuel Castells’ The City and the Grassroots, “International Journal of Urban and Regional Research”, n. 30(1), 2006, pp. 202-206.

8 Si vedano ad esempio Margit Mayer, First world urban activism. Beyond austerity urbanism and creative city politics, “City: analysis of urban trends, culture, theory, politics, action”, n. 17(1), 2013, pp. 5-19 e, in precedenza, Margit Mayer, The Right to the City in the context of shifting mottos of urban social movements, “City: analysis of urban trends, culture, theory, politics, action”, n. 13(2-3), 2009, pp. 362-374.

9 Oltre al già citato Rebel Cities, si veda ad esempio David Harvey, Spaces of Hope, University of California Press, 2000.

10 Cfr Peter Marcuse, From critical urban theory to the right to the city, “City: analysis of urban trends, culture, theory, politics, action”, n.13 (2-3), 2009, pp. 185-197; P. Marcuse, From Critical Urban Theory to the Right to the City: What Right, Whose Right, to What City, How?, In Neil Brenner, P. Marcuse, and M. Mayer (a cura di), Cities for People, Not for Profit: Critical Urban Theory and the Right to the City, Routledge, 2011, pp. 22–41; P. Marcuse, Reading the Right to the City, “City: analysis of urban trends, culture, theory, politics, action”, n. 18(1), 2014, pp. 4-9.

11 Una prospettiva simile è stata sviluppata anche da D. Harvey, op. cit., 2012.

12 Cfr P.Marcuse, op. cit., 2009.

13 Cfr P. Marcuse, op. cit., 2014.

14 Cfr M. Purcell, op. cit., 2014.

15 Cfr Paul Chatterton, Seeking the urban common: Furthering the debate on spatial justice, “City: analysis of urban trends, culture, theory, politics, action”, n. 14(6), 2010, pp. 625-628.

16 Cfr Michael Hardt e Antonio Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, 2010.

17 Cfr P. Chatterton, op. cit., 2010.

18 Si vedano, tra gli altri, Walter Nicholls, The Geographies of Social Movements, “Geography Compass”, n. 1(3), 2007, pp. 607-622; W. Nicholls, The Urban Question Revisited: The Importance of Cities for Social Movements, “International Journal of Urban and Regional Research”, n. 32(4), 2008, pp. 841-859; W. Nicholls, Place, networks, space: theorising the geographies of social movements, “Transactions of the Institute of British Geographers”, n. 34(1), 2009, pp. 78-93.

19 Cfr W. Nicholls, op. cit., 2008.

20 Cfr Mark Granovetter, The Strength of Weak Ties: A Network Theory revisited, “Sociological Theory”, n. 1, 1983, pp. 201-233; Mark Granovetter, Economic Action and Social Structure: The Problem of Embeddedness, “American Journal of Sociology”, n. 91(3), 1985, pp. 481-510.

21 Cfr W. Nicholls, op. cit., 2008.

22 Cfr Justus Uitermark, W. Nicholls and Maarten Loopmans, Cities and social movements: theorizing beyond the right to the city, “Environment and Planning A”, n. 44(11), 2012, pp. 2546-2554.

23 Cfr W. Nicholls, op. cit., 2008 e B. Miller e W. Nicholls, op. cit., 2013.

*Fote articolo: «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità
sociale» (settembre-dicembre 2014).
www.storieinmovimento.org
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