Tutti (i padiglioni) son froci con il culo degli altri

Wed, 17/06/2015 - 12:12
di
Mauro Muscio

“Il capitalismo contemporaneo non sembra aver bisogno dell’eterosessismo”. Questa è una delle prime conclusioni che Nancy Fraser trae nel saggio in risposta ad alcune critiche di Judith Butler, dal titolo “Eterosessismo, mancato riconoscimento e capitalismo”, e tale punto di arrivo è il risultato della ricerca empirica che l’autrice compie nel mettere in relazione l’ordine economico e l’ordine della parentela delle società capitalistiche odierne. Questa affermazione ridimensiona l’assunto per cui la norma eterosessuale, e la sua espressione minima e fondamentale della famiglia eterosessuale riproduttiva, siano il nucleo fondamentale del mantenimento della struttura sociale. Ci consegna inoltre il quadro di un sistema economico capace di incorporare altre sessualità poiché, secondo la filosofa, “permette ora a un significativo numero di individui di vivere grazie al lavoro salariato al di fuori delle famiglie eterosessuali”.
L’affermazione è nello stesso tempo vera e unilaterale. Il suo nucleo di verità serve a ricordare che il capitalismo non è un sistema monolitico di strutture interconnesse di oppressione e a individuare quelli che Fraser, non per prima, chiama salti della società; in una vasta area del mondo una donna biologica può perfettamente essere una dirigente di una grande multinazionale come un omosessuale può ricoprire la carica di sindaco di una grande metropoli nonostante le loro condizioni di genere e di orientamento sessuale. La condizione di classe, quella di genere e quella dell’orientamento sessuale si intersecano quindi in una dimensione che non è diretta somma delle condizioni di oppressione o di privilegio, ma di una mutevole azione reciproca, che non esclude l’attenuazione dell’una per la prevalenza delle logiche dell’altra.

La logica dello sfruttamento proprio del capitalismo, come già aveva osservato Marx, resta quella dell’indifferenza a ogni altra differenza che non sia quella di classe. La forza lavoro non ha sesso, né età, né colore, né orientamento sessuale. Ciò che conta per i possessori di capitale è potere utilizzarla a piacimento, senza regole e impedimenti. L’esigenza di dividere e mettere in concorrenza la forza lavoro può fondarsi così sulle più diverse differenziazioni: lavoratrici e lavoratori del settore privato contro quelli del pubblico impiego, non garantiti contro garantiti, sud contro nord e viceversa, giovani contro vecchi, indigeni contro migranti ecc. Tuttavia contraddittoriamente, ma in coerenza con le logiche di dominio, le strutture delle oppressioni specifiche rimangono vitali. L’interesse a mantenere in vita istituzioni e forze conservatrici (chiese, eserciti, partiti della destra omofoba e razzista) crea nelle stesse aree del mondo in cui l’eterosessismo sembra superato una riserva di sessismo e omotransfobia, pronti a tornare a galla nei momenti di disperazione e di rabbia. Possiamo citare come esempio il caso spagnolo dove, dal 2013 parallelamente al dilagare della crisi e dei suoi effetti, si sta assistendo ad un incremento spaventoso delle violenze ai danni della popolazione lgbit*, con un incremento di oltre l’80% nel primo semestre del 2014 (i dati risultano essere ancora più sconcertanti se teniamo presente che oltre il 75% delle vittime di omotransfobia non denuncia gli accaduti).

Per i sistemi di potere vale ancora oggi ciò che Mazarino ripeteva a Luigi XIV, “Maestà il trono si conquista con le spade e i cannoni, ma si perpetua con i dogmi e le superstizioni”. L’inferiorizzazione delle donne e soprattutto la tendenza a considerarle destinate al servizio, la millenaria ostilità nei confronti delle sessualità cosiddette devianti o perverse hanno radici profonde nel senso comune e possono essere utilizzate soprattutto quando la miseria tende a cancellare ogni altra diversità che non sia quella legata al possesso delle ricchezze. Del resto nelle aree del mondo in cui l’eterosessismo sembra in ritirata è evidente un fenomeno qualitativamente non nuovo. Il capitalismo ha mostrato infatti una capacità inaspettata di fare spazio a orientamenti e identità sessuali; mentre si concedono spazi alle persone non conformate dal punto di vista di genere e sessualità appartenenti alla classe medio-alta, si continuano a reprimere sia le persone non conformi appartenenti a strati sociali subalterni sia i comportamenti “trasgressivi” che non possono essere mercificati e quindi tollerati. Le sessualità non riproduttive e non normate e le relazioni affettive non monogamiche non solo vengono represse ma anzi utilizzate nella propaganda culturale e politica sessuofoba e conservatrice come esempi di depravazione e/o di disturbi mentali.

In Italia l’opera delle forze reazionarie e conservatrici si manifesta con particolare evidenza. Basti pensare alla crociata contro le teoria del gender e del queer e alla mancanza di diritti che continua a caratterizzare lo stesso territorio in cui l’elite industriale grida allo scandalo per le dichiarazione omofobe del Barilla di turno e i consigli di amministrazione discutono circa politiche gay friendly. La lotta per il riconoscimento, la visibilità e la parità sociale ed economica è indispensabile ma non sufficiente: queste minano fortemente le strutture conservatrici ed eterosessiste della società ma sono insufficienti perché lasciano immutate le logiche della dominazione di classe e la loro tendenza a conservare comunque le superstizioni e i dogmi nascoste nelle visceri del corpo sociale. Si faccia attenzione al video della campagna di Women For Expo ; se il filmato fosse in bianco e nero e si retrodatasse la data dell’Esposizione di qualche decennio, i contenuti e la rappresentazione data delle donne sarebbero facilmente riconducibili al Ministero della Stampa e della Propaganda fascista del Ventennio. Non tanto il video, quanto piuttosto la narrazione che porta con sé, sono oggi il risultato della maggiore visibilità del femminismo mainstream in Italia cucinato spesso in salsa differenzialista. Il riconoscimento ottenuto, frutto delle lotte politiche di movimenti sociali ora ampi ora meno, è stato sia pure contraddittoriamente inglobato e questo processo ha ridimensionato i meccanismi di oppressione. Le donne nel modello della società di Expo, siano esse il 50% di un Parlamento, di un partito, di un’azienda, o siano artiste, scrittrici o semplicemente donne, si dedicano naturalmente alla nutrizione e vengono rappresentate ancora una volta come quell’immagine di madri capaci di cullare il mondo e far riappacificare gli uomini. Questo racconto nello stesso tempo liberista e differenzialista idealizza il presente e per questa stessa ragione diventa incapace di resistere alle spinte visibili e invisibili alla restaurazione, nel caso dell’Italia alla conservazione. Insomma i modelli e le norme hanno cambiato facce ma le loro radici restano (v)etero-patriarcali. Rimanendo in ambito meneghino si faccia attenzione anche all’inaugurazione della GayStreet milanese, fortemente voluta dalla giunta di centro-sinistra della città, in occasione dell’evento di Expo2015 e nella aspettativa di incremento del turismo (anche omosessuale) ad esso connesso. Abbiamo definito, in un precedente articolo , questo meccanismo come ascrivibile in parte ai meccanismi di pinkwashing contemporanei, esplicitando la necessità di uno sforzo intellettuale collettivo per comprenderne la versione italiana.

Chiaro è che non tutti gli avanzamenti progressisti in termini di visibilità e acquisizione di diritti e parità civile, sia pure conseguiti nei confini istituzionali, culturali o economici, siano ascrivibili al pinkwashing; la lotta per la liberazione e il riconoscimento dovrebbero altrimenti non essere praticate. Al contrario concordo sulla necessità di porseli come obiettivi, e sull’utilizzare anche diversi strumenti per il loro raggiungimento, riconoscendo però alcuni limiti e alcuni meccanismi controproducenti delle varie vie percorribili. Il movimento lgbt mainstream rischia di fare un grosso autogol se permette la strumentalizzazione della propria lotta da parte del capitale; la sussunzione infatti del sistema delle rivendicazioni politiche del movimento si declina in qualcosa di molto pericoloso, perché si traduce in depotenziamento del movimento e mistificazione dei processi di lotta.
Lasciarsi strumentalizzare dal mercato, in cambio di qualche tipo di riconoscimento e visibilità, significa fomentare quel pensiero secondo cui il modello capitalista occidentale sia l’unico sistema entro cui la popolazione lgbt possa vivere meglio, a dispetto di altri sistemi economici e di altri stati non occidentali.
Non dobbiamo stupirci quindi se per Expo le industrie incentivino il turismo omosessuale o il pinkmarket mentre le forze conservatrici e reazionarie non permettono il riconoscimento dei diritti civili per questo stesso target di produttori-consumatori.

Senza movimenti che partano dal basso (dal punto di vista di classe) non si metterà mai in discussione l’eterosessimo ma, impegnati a cercare nuove alleanze nei C.d.a, in Confcommercio o nelle direzioni dei partiti politici, non si metteranno in discussione realmente le strutture sessiste e omostranfobiche, e quel sistema economico che ad esse lascia spazio di autoriproduzione. In questo senso quindi abbiamo definito pinkwashing la strumentalizzazione di Expo e delle Istituzioni delle identità lgbt, perché la sussunzione delle istanze del movimento lgbt si traduce nel suo depotenziamento: credere che la visibilità entro il mercato si traduca in messa in discussione reale dello stigma e dell’omotransfobia, lasciando far reiterare l’immagine di un sistema che concede e la mistificazione del ruolo della lotta dei movimenti dal basso, significa lasciarsi schiacciare ancora una volta dal nemico. Accettare che condizioni di vita migliori possano arrivare dall’alto vuol dire accettare nuove facce della stessa oppressione. Il capitalismo, più che essere quel sistema economico migliore, è quel sistema che trova nuove dimensioni per intrecciare e rimodellare le varie forme di oppressione, siano esse coloniali, sessuali o di genere. Il capitalismo occidentale sussume le rivendicazioni del movimento lgbt e sgonfia la sua potenza rivoluzionaria schiacciandola in nuovi confini di quel “privato” in cui inserire soggetti lgbt senza alterare in alcun modo l’eterosessismo e la divisione polarizzata del genere, di cui continua evidentemente ad aver bisogno come strumenti di oppressione, di controllo dei corpi e delle sessualità. Il sessismo e l’omotransfobia rimangono radicati nella società e ne è la conferma, come abbiamo detto precedentemente, l’esclusione delle soggettività e sessualità transgender, genderfluid e le reti affettive non conformi.

Judith Halberstam parlò del problema del bagno come dimostrazione, tra l’altro, anche del predominio del genere proprio in un contesto sociale in cui la fluidità e la flessibilità vengono riconosciute ad esso; “il bagno” – scrive l’autrice queer – “è uno spazio domestico fuori casa che rappresenta l’ordine domestico, o una sua parodia, nel mondo esterno”. Anche Lisa Duggan chiarisce a mio avviso perfettamente il carattere di quel privato sopracitato; non c’è nessuna messa in discussione dell’eteronormatività da parte della politica sessuale neoliberale – scrive l’autrice nel 2002 in un articolo – ma piuttosto un appoggio alle istanze del movimento lgbt mainstream al fine non di riconoscere pubblicamente le rivendicazioni ma piuttosto di riconoscere un nuovo privato domesticated and depoliticized, elementi centrali di quello che lei definisce omonormatività.

Dire che Expo è il paradigma del liberismo occidentale è vero anche sotto il punto di vista della relazione di quest’ultimo con le identità e le sessualità, poiché, seguendo l’etimologia del termine, dimostra e fornisce un quadro di elementi che vanno oltre l’oggetto in esame in maniera chiara.
Modelli di controllo della sessualità e della strumentalizzazione a fini commerciali delle donne e dei soggetti lgbit*q , oltre alle nuove relazioni tra genere, orientamenti sessuali e classe, non rappresentano una novità in alcuni stati del capitalismo occidentale, americano e israeliano; diversa, però, la situazione italiana, dove alcuni poteri cercano di riproporre questi modelli, trovandone una declinazione adeguata, in un contesto dove è assente il riconoscimento legislativo, elemento presente invece nei paesi prima menzionati. Il pinkwashing in Israele o l’omonazionalismo e l’omonormatività in Francia, USA e Paesi Bassi sappiamo essere modelli e meccanismi che funzionano e si riciclano anche a partire dal riconoscimento dei diritti lgbt da parte dei diversi stati, ma come si adattano e plasmano questi meccanismi in Italia, alla luce dell’assenza dei diritti e del potere enorme dello Stato Vaticano? Sotto un certo punto di vista il paradigma Expo sfiora livelli quasi paradossali perché al “suo interno” si sono alternati il convegno omofobo organizzato dalla Regione Lombardia a Gennaio e il patrocinio che la stessa regione ha concesso al Pride qualche settimana fa, la firma della carta antidiscriminazione sui luoghi di lavoro dell’Unaar da parte dell’amministratore unico Sala e l’incontro con il premier russo Putin. Che l’economia tenti di dipingere alcuni suoi settori di rainbow, determinando condizioni di vita migliori per soggettività omosessuali della classe medio alta, senza eliminare le radici etero sessiste, lo abbiamo detto, è una tendenza evidente, più o meno, anche in Italia, ma come la politica italiana faccia i conti con questa attitudine, mantenendo equilibri con i poteri economici e le forze reazionarie o cattoliche, non è così chiaro.

Pensare che il riconoscimento economico possa aiutare, se non addirittura determinare, la vittoria per la lotta dei riconoscimento dei diritti dei soggetti lgbt, significa distruggere la potenzialità del movimento nell’attesa dei diritti e non nella loro conquista facendosi strumentalizzare in nuovi processi di esclusione. Se da una parte l’associazionismo lgbt sceglie di pagare un affitto per avere un angolo all’interno di un padiglione di Expo, pensando di ottenere visibilità internazionale, e dall’altra il Ministero dell’istruzione decide di cancellare tutti i programmi previsti nelle scuole contro l’omofobia e il bullismo, significa che l’associazionismo non gioca nessun ruolo di rottura reale oggi. O si comprende il significato di Expo, uscendo dalle logiche settoriali dell’attivismo e dalla favola renziana della rinascita, o da questo, e dal sistema che rappresenta, si viene inglobati e schiacciati.