Narrazioni tossiche dell'emergenza per il controllo di cibo ed energia.

Wed, 24/06/2015 - 19:57
di
Simone Febbo

Controllate il petrolio e controllerete le nazioni. Controllate il cibo e controllerete i popoli.
Henry Kissinger (segretario di stato USA dal 1969 al 1977), 1970.

Questa affermazione riassume in modo molto efficace l’interesse strategico da parte del potere politico ed economico rispetto a due settori fondamentali come il cibo e l’energia.
Entrambi al centro della grande vetrina espositiva mondiale, che ha aperto le porte il 1 maggio 2015 a Milano; sebbene Expo 2015 abbia come focus la nuova narrazione sul tema del diritto al cibo, a una alimentazione sana e sostenibile ("nutrire il pianeta"), il sottotitolo introduce un esplicito riferimento all‘altro tema storicamente centrale nello sviluppo delle relazioni geo-politiche a livello globale: l’energia ("energia per il pianeta").
Non si tratta di un'espressione casuale, ma di un binomio in cui ciascun elemento ha un proprio peso specifico e nello stesso tempo influenza le dinamiche dell’altro. Non a caso tra gli sponsor principali c’è l’ENI, coinvolta in un enorme scandalo in Nigeria con accuse di tangenti e predatrice di risorse naturali in molti paesi africani e asiatici. E non manca nemmeno l’ENEL che in Italia è il primo emettitore di CO2 a causa della produzione di gran parte dell’energia elettrica con centrali a carbone. Con l’acquisizione della società elettrica spagnola ENDESA, controlla anche alcune delle principali fonti d’acqua del sud America.

Il tema del cibo e di come nutrire il pianeta.
Expo ha dispiegato le vele e attraverso le vie d’acqua (fortunatamente inesistenti) ha iniziato la propria navigazione per raccontare ancora una volta una storia in realtà già nota, vecchia: esiste l’emergenza "fame del mondo", quindi esiste la necessità di porvi rimedio. Come? Attraverso il ricorso massiccio a nuove tecniche e nuove tecnologie, messe a disposizione da quei paesi e da quei soggetti economici che mirano in realtà a creare nuovi strumenti colonizzanti, di dominio e sfruttamento delle risorse di paesi appetibili.
Presupposti e soluzioni si ripetono sempre uguali ormai da secoli, sintetizzabili grosso modo in questo piano elaborato da Cecil John Rhodes, importante imprenditore e politico britannico della seconda metà del XIX (da lui il nome la Rhodesia), insieme a uomini d’affari e esponenti politici del tempo, per porre rimedio alle preoccupazioni correnti:
1. I poveri sono molti e aumentano.
2. Non c’e’ abbastanza cibo per nutrirli tutti.
3. Se non c’e’ abbastanza cibo per nutrirli faranno la fame.
4. Se fanno la fame scoppierà la guerra civile.
5. Gli altri paesi hanno abbastanza cibo per nutrirli.
Lo stesso ragionamento è stato adottato con la cosiddetta prima rivoluzione verde, negli anni '60: incrementare la produzione agricola ed estendere la longevità dei prodotti agricoli per il trasporto e la conservazione; a questo scopo furono utilizzati nella ricerca agricola il metodo scientifico e la scienza moderna che svilupparono le varietà ad alta resa. Esse favorirono il diffondersi di un nuovo approccio all’agricoltura basato su "colture intensive ed estensive da esportare in ogni dove, massiccio ricorso a fertilizzanti chimici e pesticidi".
S’impose, a discapito delle colture e delle tecniche tradizionali sviluppate nel corso dei millenni dai contadini e forgiate dai saperi che essi si tramandavano di padre in figlio, la monocoltura: grandi aziende agricole al posto delle realtà più piccole, abbondante uso di fertilizzanti e pesticidi chimici, abbondante uso di acqua e utilizzo di fitosanitari (erbicidi) con pesanti conseguenze sulla fertilità dei terreni., processi di desertificazione e inquinamento delle falde acquifere.
Un'enorme pressione sulle risorse naturali e nonostante ciò il problema della fame nel mondo non veniva risolto.
Il fallimento della rivoluzione verde era palese, ma passò presto nel dimenticatoio grazie all’azione tecnico-propagandistica esercitata già dai primi anni ’70 dalla nascita dell’ingegneria genetica; si afferma così nei decenni successivi, soprattutto negli anni '80-'90, la seconda rivoluzione verde: anch’essa con l’obiettivo di risolvere il problema della fame nel mondo, ma stavolta attraverso modifiche apportate in laboratorio al DNA delle piante per realizzare “un’agricoltura senza chimica, pulita per l’ambiente e sana per gli uomini”.
Si è trattato e continua a trattarsi, in realtà, di una vera a propria colonizzazione agricola a causa della quale vengono distrutti interi ecosistemi e viene impoverita la biodiversità (l’80% della quale si trova nel sud del mondo); basti pensare che se nel corso degli ultimi 400 milioni di anni si è calcolata l’estinzione di una specie di pianta ogni 27 anni, attualmente si estinguono in media 5 specie al giorno
Se negli anni ‘70 la rivoluzione verde aveva soffocato i campi coprendoli di sementi bisognose di pesticidi, fertilizzanti chimici e una forte irrigazione, negli anni ‘90 con la rivoluzione biotecnologica si dava il via al saccheggio delle risorse genetiche del Sud portando a una sempre maggior rimozione della diversità genetica e creando una grave minaccia per la biodiversità.
Nel 2008 si registra una nuova crisi nel settore alimentare; a differenza delle crisi precedenti, causate in gran parte dalla scarsità di raccolti in alcune aree, quest’ultima crisi è collegata a diversi fattori interconnessi come il rapido aumento della domanda e la produzione di cereali non più solo per il consumo umano ma anche per l’alimentazione del bestiame e la produzione di agrocarburante.
L’aumento dei prezzi di beni essenziali come grano e riso ha reso tali alimenti inacquistabili per un gran numero di individui. I nuovi prezzi hanno contribuito all’innalzamento della soglia di povertà globale, nella quale sono finite altre 125 milioni di persone e all’aumento del numero degli individui che soffrono la fame, cresciuto di 75 milioni di persone.

Si assiste a un grande mutamento della struttura dell’agricoltura globale: la catena agro-alimentare di produzione del valore è costituita da un lato da banche e fornitori (grandi imprese energetiche, chimiche, di fertilizzanti e di sementi) e dall’altro da imprese che si occupano del trasporto, della trasformazione, della logistica, della vendita del prodotto (industrie alimentari, supermercati, etc); in una parola l’agribusiness. Dentro questo sistema assumono un ruolo fondamentale le multinazionali, in continua espansione verso nuove aree del settore agricolo, colonizzando nuovi terreni (landgrabbing), e alla conquista di nuove frontiere, quale per esempio quella del controllo delle sementi, attraverso veri e propri processi di privatizzazione di un bene che, per sua natura e grazie alla pratica tradizionale diffusa tra i contadini di conservare e riprodurre semi, è sempre stato lontano da questo rischio.
Nel 2004 il mercato delle sementi geneticamente modificate e dei prodotti che ad esse fanno da corollario (erbicidi, fertilizzanti, etc.) era monopolizzato da sole quattro compagnie: la Monsanto Corporation (che controlla il 90% del mercato di semi di soia), la Pioneer Hi-Bred Inc., la Dow Agrosciences e la Syngenta.
Expo in perfetta armonia con le logiche dell’agrobusiness prova a celarne il volto “duro e cattivo”, creando un brand basato sulla sostenibilità e sulla giustizia alimentare. A tal fine la grande vetrina sta partorendo una linea guida per combattere la fame: la Carta di Milano, inizialmente “protocollo di Milano” passato di mano dalla fondazione Barilla alla fondazione Feltrinelli. L’ennesima operazione di pulizia e sostenibilità mediatica. Poco cambia: anche se il linguaggio ammicca, con molta furbizia, alla sensibilità delle organizzazioni contadine che si contrappongono alle logiche dell’agrobusiness, all’interno della Carta in realtà mancano:
- la condanna degli OGM e quindi dei processi di privatizzazione delle sementi e delle terre;
- la richiesta di taglio dei sussidi che UE e USA stanziano per le proprie multinazionali per distruggere i piccoli produttori agricoli dei paesi del sud del mondo;
- la condanna degli EPA, accordi di partnerariato imposti dall’UE ai paesi africani, che erodono l’agricoltura locale e la sovranità alimentare;
- la condanna del Land Grabbing, appena citato senza individuare e mettere al bando i soggetti responsabili del fenomeno, sia economici che politici.
Ma soprattutto, il documento, che sarà sottoposto al vaglio delle Nazioni Unite, è un testo prodotto dalle multinazionali e sottoscritto da governi che sempre meno rappresentano gli stati e i popoli da cui hanno ricevuto il mandato, ma che sono sempre più al servizio dei soggetti economici dominanti.
L’unica soluzione possibile ribalta la questione a partire dalla premessa: il problema della fame del mondo non è un problema di quanto cibo viene prodotto (tutti i dati parlano di una quantità di cibo prodotto pari al doppio delle necessità, con i conseguenti grandi sprechi) ma di accessibilità al cibo prodotto, alle terre e alle risorse necessarie per consentire a milioni di persone (già oggi più del 60% della popolazione asiatica e africana vive tuttora in aree rurali, e che la maggior parte di essa lavora in questo settore) di autoprodursi il cibo necessario al proprio nutrimento in condizioni di giustizia sociale e controllo della risorse.
Esattamente ciò che il sistema dell’agrobusiness sta cercando di distruggere rappresenta la soluzione reale al problema: la biodiversità, l’autodeterminazione delle comunità che vivono i territori nel disporre, decidere, utilizzare le proprie risorse naturali compatibilmente con la capacità di queste di autorigenerarsi per garantire anche alle generazioni successive le stesse possibilità.

Il tema dell'energia e di come nutrire i processi produttivi.
L’approccio utilizzato per affrontare il tema del cibo è del tutto analogo a quello utilizzato nel settore energetico.
Si pensi all‘emergenza legata al cambiamento climatico: il riscaldamento del pianeta è ormai innegabile alla luce dei dati scientifici che ne rivelano l’entità e le cause.
Il V rapporto GIEC (Gruppo Intergovernativo degli Esperti sui Cambiamenti Climatici all'interno dell'ONU) chiarisce che: “le emissioni di CO2 provenienti dalla combustione di combustibili fossili e dei processi industriali hanno contribuito per il 78% sul totale delle emissioni di gas a effetto serra dal 1970 al 2010, con un contributo simile in percentuale dal 2000 al 2010”. Il contributo dei diversi gas tra il 1970 e il 2010 conferma che il problema essenziale è dovuto all’utilizzazione del carbone,del petrolio e del gas naturale come fonte di energia.
A questo problema i soggetti politici ed economici, in gran parte responsabili, propongono soluzioni sostanzialmente basate su nuove tecnologie e nuovi mix energetici, utili solo a protrarre situazioni di dominio dei grandi gruppi economici legati ai combustibili fossili, oltre che a incancrenire gli effetti del riscaldamento climatico.
- La cattura e il sequestro geologico del carbone (CCS) occupano nel rapporto GIEC un posto illusoriamente strategico: il rapporto stesso infatti dice che, da qui al 2030, la transizione energetica necessiterebbe di investimenti per parecchie centinaia di miliardi di dollari ogni anno, a livello mondiale;
- altre analisi affermano che l’economia mondiale potrebbe abbandonare l'uso di combustibili fossili producendo in 20-30 anni almeno 3,8 milioni di aerogeneratori da 5 megawatt, costruendo 89000 centrali solari fotovoltaiche e termodinamiche, installando sui tetti degli edifici pannelli fotovoltaici e disporre di 900 centrali idroelettriche; ma con quale energia si potranno costruire nel breve termine le nuove tecnologie e le filiere che a esse servono per essere operative?
- nell'ipotesi “100% rinnovabili”, si riscontra facilmente il seguente grossolano errore: per migliorare l’efficienza del sistema energetico, il rapporto Energy Revolution di Greenpeace, per esempio, prevede di trasformare 300 milioni di abitazioni in case passive nei paesi dell’OCSE. Gli autori calcolano la riduzione di emissioni corrispondente, ma non tengono minimamente in conto l’aumento di emissioni che sarebbe causato dalla produzione dei materiali isolanti, finestre a doppio vetro, pannelli solari, etc. In altre parole, la percentuale di riduzione delle emissioni è lorda, non netta;
- la geoingegneria (es: gli specchi speciali, che alcuni immaginano già come soluzione per impedire l'alzamento della temperatura) alla quale Bill Gates e altri investitori destinano milioni di dollari è favorita da da un ragionamento molto semplice: consapevoli del fatto che un capitalismo senza crescita è un ossimoro, essi concludono che sarà impossibile raggiungere gli obiettivi di riduzione dei gas serra, ma anche che l'urgenza climatica impone di fare qualcosa, qualsiasi cosa. Prima o poi suonerà l'ora anche per la geoingegneria e questo aprirà le porte ad un immenso mercato.
L'emergenza climatica ha indotto 154 nazioni nel 1992 a prendere parte alla prima Conferenza sull’Ambiente di Rio de Janeiro, che si è conclusa con la stesura della Convezione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Entrata in vigore, senza alcun vincolo per i singoli Paesi, il 21 marzo 1994, la Convezione Quadro prevedeva una serie di adeguamenti o protocolli che, nel tempo, avrebbero introdotto limiti obbligatori alle emissioni di CO2. Obiettivo del trattato era il raggiungimento, entro il 2000, della stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera rispetto ai livelli del 1990. I Paesi più industrializzati si attribuirono gran parte delle responsabilità dei cambiamenti climatici. Dal 1994 le delegazioni decisero di incontrarsi annualmente nella Conferenza delle Parti (COP).
La COP 3 del 1997 di Kyoto produsse il Protocollo di Kyoto: gran parte dei Paesi industrializzati e diversi Stati con economie di transizione accettarono riduzioni legalmente vincolanti delle emissioni di gas serra, comprese mediamente tra il 6 e l’8 per cento rispetto ai livelli del 1990, da realizzare tra il 2008 e il 2012.
Ciò che si produsse in realtà fu una serie di meccanismi speculativi di natura eco-finanziaria atti a garantire enormi profitti soprattutto a quei soggetti politici ed economici responsabili della crisi stessa:
- CDM (clean developments mechanism): progetti specifici classificati come „puliti“ realizzati da i paesi con obblighi di riduzione in paesi in via di sviluppo con la conseguente possibilità di acquisire diritti di emissione (o crediti), cioè di poter continuare a utilizzare processi inquinanti nei paesi sviluppati; molti di questi progetti si traducono nella produzione di biocombustibili, rientranti nella definizione del tutto arbitraria di fonte rinnovabile;
- REDD+ (ridurre emissioni da deforestazione e degrado delle foreste): finanziamenti a pioggia destinati a progetti di riforestazione che portati avanti da grandi gruppi economici (Coca Cola) non considerano affatto le esigenze delle comunità che abitano le terre oggetto di intervento, ma ancora peggio si basano su tecniche altrettanto nocive: monocolture per la produzione di legname o, anche in questo caso, di biocombustibili (land grabbing);
- in Italia il programma di incentivazione CIP 6/92 è costato nel periodo 1992-2012 circa 13 miliardi di euro pagati dai cittadini e dalle cittadine attraverso oneri aggiuntivi nascosti nelle bollette; oltre all'elemento di ingiustizia economica che non tiene conto della progressività del reddito di chi paga, l'aspetto critico dal punto di vista ambientale è l'incentivazione di impianti a fonte assimilata, ovvero a impianti alimentati da fonti di origine fossile: una quota vicina al 60% dei contributi è stata indirizzata a questi impianti, anziché a quelli a fonte rinnovabile, favorendo di fatto i grandi gruppi elettrici ed industriali nazionali, gruppi con una componente elevata di produzione elettrica inquinante (tra i maggiori beneficiari ricordiamo l'ENEL, l'Edison, l'ENI, l'ASM di Brescia, ora A2A dopo la fusione con la AEM, l'ACEA Electrabel, l'EGL Italia, la Sorgenia e la Modula). E questo è anche il motivo per cui gli inceneritori riescono a operare in economia: senza il contributo cip6, risulterebbero economicamente svantaggiosi e non convenienti.
Anche in questo caso la risposta al disastro assume il volto buono, sostenibile e rassicurante della propaganda green. Anche in questo caso la soluzione proposta dai soggetti reponsabili della crisi si preoccupa di reiterare meccanismi di accumulazione della ricchezza, senza alcuna volontà di risolvere la crisi e di evitare gli scenari previsti dal GIEC. Ricordiamo che il V rapporto descrive lo scenario meno drammatico, ma nello stesso tempo più difficile da raggiungere, come quello che prevede una stabilizzazione della concentrazione atmosferica a 430 ppm di CO2.
Per raggiungere tale obiettivo, trovandoci già a questo livello di emissioni, lo sforzo da realizzare sarebbe estremamente vincolante e anche colossale: nel 2050 le emissioni mondiali dovrebbero avere un ribasso dal 70 al 95% ( rispetto al livello del 2010); nel 2100, esse dovrebbero diminuire dal 110 a 120%. Questo scenario implica un riorientamento rivoluzionario in tutti i settori della vita sociale. È, pertanto, il solo che darebbe una chance per non superare 1,5°C di riscaldamento - un obiettivo che numerosi scienziati (compreso il presidente del GIEC) considerano come necessario.
Per conseguire tale obiettivo ad esempio l’80% delle riserve conosciute di combustibile fossile dovrebbe restare sotto terra e mai essere sfruttato; ma a ben vedere queste riserve fanno già parte degli attivi delle compagnie petrolifere e delle famiglie regnanti degli Stati produttori (lo conferma l’investimento in nuovi metodi estrattivi quali le tar sands e lo shale gas). Non sfruttare queste risorse implicherebbe quindi la distruzione pura e semplice della maggior parte di questo capitale già contabilizzato.
Tuttavia, il ruolo dei combustibili fossili non è che un aspetto di una questione più vasta: per ridurre drasticamente le emissioni da qui al 2050, sapendo che queste emissioni provengono prima di tutto dalla conversione energetica, occorrerebbe per forza ridurre il consumo finale di energia e occorrerebbe ridurre la produzione materiale e i trasporti. Ciò sarà possibile senza nuocere al benessere diffuso delle comunità (aumentandolo, al contrario) se si sopprimono le produzioni inutili e nocive, l’obsolescenza programmata, i trasporti fuori controllo nel quadro della mondializzazione, ecc.
Sarà possibile senza pregiudicare il lavoro e, al contrario, favorendolo, se si redistribuiscono e soprattutto si ridefiniscono il lavoro, la ricchezza, i saperi e le tecnologie.

Il problema dunque non è quanta energia si può produrre con le cosiddette fonti rinnovabili in sostituzione alle fonti fossili, prime responsabili dell’effetto serra. Il problema reale è per cosa si utilizza l’energia, come la si utilizza, chi decide come, dove e per cosa utilizzarla.
Cibo ed energia rappresentano settori strategici per l'accumulazione del capitale, sempre più intrecciati se si pensa al consumo di suolo agricolo crescente attraverso la pratica predatoria del land grabbing, per la produzione di biocarburanti. O se si pensa che il 20-25% dei gas serra è prodotto dal settore agricolo.
Come per l'emergenza alimentare anche per l'emergenza climatica la soluzione non può che essere l'autodeterminazione delle comunità che abitano i territori, a partire dai bisogni sociali diffusi, dalla consapevolezza delle risorse disponibili, dai saperi e dalle conoscenze, dalla capacità di costruire relazioni con altre comunità in una rete sempre più ampia e sempre più forte in grado di determinare una proposta di società alternativa da contrapporre a quella dominante che produce crisi, austerità, debito, povertà e insicurezza.

Per questo Expo da un lato e la prossima Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici COP21, che si terrà a Parigi a fine 2015, dall'altro devono rappresentare tappe di un percorso collettivo di riflessioni, analisi e lotte calate nei territori, nella singola vertenza esemplare rispetto ai temi del cibo, dell'energia e dell'ambiente in generale. Solo in questo modo una proposta di società alternativa potrà acquisire forza e vigore tali da svelare e distruggere le false verità narrate dai protagonisti dell'agrobusiness-bio e dell'energybusiness-green.