Il disordine geopolitico e le sue implicazioni: note introduttive per una riflessione collettiva

Sat, 01/11/2014 - 15:22
di
Pierre Rousset

Con questo articolo/intervento iniziamo la pubblicazione di una serie di interventi e contributi sui temi dell'imperialismo, dell'internazionalismo, che possano aiutare un approfondimento e ad una maggiore discussione sulle dinamiche globali.

Il caos climatico è un nuovo dato strutturale provocato dal riscaldamento atmosferico dovuto ai fattori umani (in realtà capitalistici). Anche l’attuale disordine geopolitica sembra essere un nuovo dato strutturale provocato dalla mondializzazione capitalista e dalle decisioni imposte dalle borghesie imperialiste tradizionali. È quindi evidente che esiste il disordine e le sue cause sono profonde.

Dal 2003 (almeno – vedi la risoluzione del 15° congresso mondiale “Resistenze alla mondializzazione capitalista") stiamo cercando di capire le conseguenze della mondializzazione capitalista in ogni campo, ma oggi è necessario provare in maniera più sistematica ad analizzare le cause del disordine geopolitico e le dinamiche della crisi in corso, così come aggiornare le nostre risposte necessarie ad una situazione mondiale, sotto molti aspetti inedita. Queste note hanno l’obiettivo di affrontare queste questioni così da incoraggiare e alimentare una riflessione collettiva. Non pretendono di essere esaustive – altre questioni sono affrontate in altri testi scritti da altri compagni; sono spesso basate su analisi già condivise ma cercano di spingere più avanti la riflessione sulle loro implicazioni: non è infatti possibile essere soddisfatti di ripetere quelle che abbiamo già detto. Per questo, assumendosi il rischio di semplificare troppo le realtà complesse, “depurano” le evoluzioni in corso, spesso incomplete, per sottolineare quello che appare essere inedito.

Imperialismo a lungo e breve termine e modifica del contesto
Il dibattito originario riguardo all’imperialismo risale all’inizio del XX secolo, all’epoca del passaggio finale della formazione (in occidente) degli stati nazionali e degli imperi coloniali - e della guerra inter-imperialista diretta a modificare la divisione del mondo. Tutte le definizione di imperialismo sistematizzate in quel periodo riflettono tale contesto geopolitico e possono servire come utili «punti di riferimento» (e come base per verificare la misura dei cambiamenti) ma certamente non come «standard normativi» [Per una presentazione di questa questione si veda in particolare Michel Husson «Note sull’imperialismo contemporaneo. Teorie di ieri, questioni di oggi» - che verrà pubblicato su questo stesso sito].

Le rivoluzioni che sono seguite alla prima e seconda guerra mondiale hanno cambiato radicalmente la cornice geopolitica, con una nuova e più complessa configurazione data dal combinato dell’opposizione tra rivoluzione e controrivoluzione, «blocchi» dell’ovest e dell’est (che non coincide semplicemente con la precedente opposizione), decolonizzazione e zone di influenza più o meno esclusiva, rivalità inter-burocratiche (Urss/Cina) e rivalità interimperialiste all’interno di tale cornice.
L’implosione dell’Urss e, successivamente, l’ingresso della Cina nell’ordine del mondo capitalista hanno modificato ancora una volta la situazione. Torneremo su questo.
Il punto che voglio qui sottolineare è che lo «sviluppo organico del capitale» non spiega tutto, tutt’altro. Fattori esogeni giocano un ruolo molto più cruciale nella riorganizzazione del mondo. E’ necessario tener conto di questo per comprendere le scelte fatte dalla borghesie imperialiste dopo l’implosione dell’Urss nel 1991 (mondializzazione capitalista).

Anche nel breve termine (dagli anni 1990 ad oggi) si osserva un cambio piuttosto radicale. In un primo momento le (tradizionali) borghesie imperialiste e gli stati si comportarono da veri conquistatori: penetrazione nei mercati dell’est, intervento in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003) e così via. Successivamente abbiamo assistito alla paralisi militare, alla crisi finanziaria, l’emergere di nuove potenze (Cina), le rivoluzioni nel mondo arabo e così via, e tutto questo ha provocato una perdita di iniziativa e controllo geopolitico. Washington reagisce oggi più su una base di emergenza piuttosto che pianificando l’imposizione del suo ordine. Noi dobbiamo valutare il legame tra il tornante rappresentato dal 1989 (lungo termine) e la svolta che si è prodotta a metà degli anni 2000 (breve termine), in modo da distinguere cosa sia congiunturale e cosa strutturale della presente situazione.

Quando le borghesie imperialiste si sono emancipate dalla politica
Diciamo che dopo l’implosione dell’Urss, le borghesie imperialiste pensavano di essere libere finalmente di realizzare il loro sogno; e precisamente un mercato mondiale con regole uniformi che permettessero loro di dispiegare il loro capitale a volontà. Le conseguenze della mondializzazione capitalista potevano quindi solamente essere molto profonde - e accompagnate da sviluppi che, nella loro euforia, le suddette borghesie imperialiste non avevano potuto prevedere.

* Il classico schema di relazioni Nord-Sud o Centro-Periferia (con il Nord esportatore di benie il Sud di materie prime) è stato sconvolto dalla internazionalizzazione delle catene di produzione e con i paesi del Sud che sono diventati i principali esportatori di beni industriali (in particolare in Asia: la Cina «fabbrica del mondo»). Anche se la dominazione economica del «centro» prosegue con altri mezzi (alta tecnologia, status del dollaro statunitense, finanziarizzazione, capacità militare degli Usa e così via), questi cambiamenti ovviamente hanno implicazioni importanti per il movimento dei lavoratori, ma anche per le borghesie imperialiste: contribuisce a ridurre il ruolo dei loro paesi di origine e facilita la loro emancipazione dalla politica.

* Costituire un mercato mondiale «uniformato» implica, anche in questo caso, una maggiore emancipazione dalla politica. I «modi appropriati» della dominazione borghese prodotti dalla storia specifica di ogni paese e regione (compromesso storico di tipo europeo, populismi in America latina, intervento ufficiale dello stato in Asia, populismi redistributivi di diverso tipo ecc...) sono gradualmente messi fuori legge, perché ognuno di essi stabilisce specifiche relazioni con il mercato mondiale e diventano quindi ostacoli al libero dispiegarsi del capitale imperialista. In ogni caso, abbandonare questi modelli di dominazione «adatti» porta inevitabilmente ad una crisi di legittimazione e anche all’ingovernabilità, specialmente tanto più che le politiche aggressive neoliberali lacerano il tessuto sociale in un numero crescente di paesi.

Quello che colpisce è che le borghesie imperialiste non sembrano essere in grado di porre attenzione a questo, fintanto che resta assicurato il loro accesso alle materie prime, ai centri produttivi, ai mezzi e ai nodi della comunicazione e così via. Al tempo degli imperi era necessario assicurare la stabilità dei possedimenti coloniali - anche (sebbene in misura minore) le zone di influenza ai tempi della guerra fredda.
Oggi questo dipende dal momento e dal luogo. Le relazioni con il territorio cambiano. Possiamo dire che se gli stati continuano a sostenere le «loro» multinazionali (transnazionali), queste ultime non si sentono più dipendenti dal loro paese di origine: la relazione è molto più «assimmetrica» che mai.

* La relazione con il territorio cambia, e così con lo stato. Per esempio, i governi non sono più i co-piloti di progetti industriali su larga scala (si veda lo sviluppo degli impianti nucleari da oltre un decennio in Francia) o di infrastrutture sociali (educazione, salute e così via). Essi devono contribuire a instaurare le regole che universalizzano la mobilità del capitale, aprire ogni settore agli appetiti del capitale stesso (salute, educazione, pensioni ecc...), distruggere i diritti sociali e mantenere il consenso delle proprie popolazioni. Un capo di stato è semplicemente un maggiordomo, oggi. Naturalmente certi paesi rimangono più uguali di altri e gli Stati uniti si permettono cose che non autorizzano da nessuna altra parte. Gli Usa mantengono funzioni regali globali ce altri non hanno più - o non hanno ancora i mezzi per ottenerle.

* La mondializzazione capitalista porta così alla crisi per diverse ragioni, tra le quali una occupa un posto particolare: una classe non può dominare in forma duratura una società senza mediazioni sociali, compromessi, legittimità (di tipo storica, sociale, democratica, rivoluzionaria o di altra origine). Le borghesie imperialiste hanno liquidato secoli di «savoir faire» in questo terreno nel nome della libertà di movimento del capitale; ma il loro sogno finanziario è irrealizzabile e porta alla fine ad uno stato di crisi permanente. Questo è già il caso in intere regioni.

La specificità della mondializzazione capitalista è quella che sembra adattarsi alla crisi come stato permanente: questa diventa consustanziale al normale funzionamento del nuovo sistema di dominazione totale. Se questo è vero, è necessario modificare profondamente la nostra visione della «crisi» come particolare momento tra lunghi periodi di «normalità» - e non abbiamo ancora finito di misurarla e di subirne le conseguenze.

Nuovi Fascismi

Una delle prime conseguenze del fenomenale potere di destabilizzazione della mondializzazione capitalista è la spettacolare ascesa di nuovi fascismi con una (potenziale) base di massa. Alcuni prendono forme relativamente classiche, che si posizionano con nuovi riflessi xenofobici e identitari, come Alba Dorata in Grecia, ma il fenomeno ora dominante è l'affermazione di correnti fasciste con riferimenti religiosi (e non più il trittico “popolo/stato, razza, nazione”). Tale fenomeno si è presentato in tutte le “grandi” religioni (Cristiana, Buddhista, Induista ed ecc...) e attualmente costituisce una minaccia considerevole in paesi come India o Sri Lanka. Il mondo musulmano non ha quindi il monopolio in questo campo, ma è sicuramente quello il luogo in cui si è sviluppato particolarmente su scala internazionale, con movimenti trans-nazionali come lo Stato Islamico o i Talebani (si veda la situazione in Pakistan) e network che sono connessi più o meno formalmente dal Marocco all'Indonesia, anche (soltanto potenzialmente?) nel sud delle Filippine.

Si può discutere sulla definizione di fascismo. Questi movimenti non sono organicamente collegati al “grande capitale” come nella Germania Nazista, ma esercitano un terrore di tipo fascista, incluso nella vita quotidiana. Dove loro esistono occupano la “nicchia politica” del fascismo – e pongono nuovi problemi politici (per le nostre generazioni) per quanto riguarda la resistenza anti-fascista su vasta scala.

Il termine Islam politico copre un ampio raggio di correnti che non sono incluse nella stessa categoria, lontano da questo fenomeno. Ma non molto tempo fa una significativa parte della sinistra radicale internazionale ha ritenuto che l'ascesa del fondamentalismo islamico (come i Talebani) avesse caratteristiche anti-imperialiste e progressiste. Però, anche quando si fronteggiano gli Stati Uniti, questo fenomeno rappresenta una spaventosa forza contro-rivoluzionaria. Con l'aiuto dell'esperienza, le correnti che mantengono queste posizioni sono oggi più rare, ma il “campismo” rimane presente in questo ambito, come un riflesso pavloviano: soddisfatti per esempio nel condannare l'intervento imperialista in Iraq e Siria (che è sicuramente necessario fare), ma senza dire alcunché su cosa lo Stato Islamico rappresenta o per chiamare al resistervi.

Questo tipo di posizione ci ha impedito di porsi chiaramente il compito della solidarietà nel suo insieme. Segnalare la responsabilità storica dell'imperialismo, nell'intervento del 2003, gli obiettivi non dichiarati del corrente intervento, non è abbastanza per denunciare indipendentemente l'imperialismo. E' necessario pensare attraverso concreti piani di solidarietà (dal punto di vista dei bisogni dei popoli vittima e dei movimenti in lotta). Facciamo un esempio controverso: secondo questo punto di vista si può essere contro l'intervento imperialista e per l'invio di armi ad alta potenza ai Kurdi da parte dei nostri governi – questa è la risposta a una insistente e ripetuta richiesta delle organizzazioni Kurde: perché rifiutare? Non cerco di appellarmi a un principio di autorità, ma trovo che il testo di Leon Trotsky scritto nel 1938 [“Un articolo sull'internazionalismo concreto in tempo di guerra: Imparare a Pensare – Un Amichevole Suggerimento Per Alcuni di Ultra-Sinistra”] sia veramente interessante e utile per i nostri dibattiti di ieri (la guerra delle Malvinas, per esempio) e di oggi.

Nuovi (proto) imperialismi

Le tradizionali borghesie imperialiste pensarono dopo il 1991 che avrebbero penetrato i mercati dei cosiddetti ex paesi “socialisti” al punto di subordinarli naturalmente – domandandosi anche se la NATO avesse ancora una funzione rispetto alla Russia. La supposizione non era assurda come mostrato dalla situazione della Cina all'inizio degli anni 2000 e dalle condizioni di appartenenza di questo paese al WTO (molto favorevole al capitale internazionale). Ma le cose andarono a finire diversamente – e questo non sembra fosse stato inizialmente o seriamente considerato dai poteri costituiti.

In Cina una nuova borghesia si era costituita all'interno del paese e del regime, soprattutto attraverso la borghesizzazione della burocrazia, che si è auto-trasformata in una classe possidente con meccanismi che conosciamo bene. [[vedere In Loong Yu, “China's Small channel: Strength and Stability”, Merlin Press, Resistance Books, IIRE, 2012]]. Era stata quindi ricostituita su una base di indipendenza (l'eredità della rivoluzione Maoista) e non come una borghesia organicamente subordinata all'imperialismo dall'inizio. La Cina è un nuovo imperialismo? Come con il concetto di fascismo, è necessario specificare cosa si capisce attraverso il concetto di imperialismo nell'attuale contesto mondiale. Da parte mia, io uso la formula dell'imperialismo in costituzione (senza alcuna garanzia di successo) [[vedere “Chinese ambitions - An imperialism in formation”->http://internationalviewpoint.org/spip.php?article3468].]] E' abbastanza dire al momento che la Cina è diventata una potenza capitalista per capire che la geopolitica del mondo contemporaneo è piuttosto differente rispetto a quella di cinquanta anni fa. Ritorneremo su questo punto nel report sulla situazione sull'Asia Orientale.

I BRICS hanno provato a giocare insieme nell'arena del mercato globale, senza molto successo. I paesi che compongo il fragile “blocco” non giocano tutti nello stesso campo. La Cina spera di giocare nel campo del più grande, così come la Russia, già membro permanente dle Consiglio di Sicurezza e ufficiale possessore di armi nucleari, ma con molti meno mezzi. Il Brasile, l'India, il Sud Africa possono probabilmente essere qualificati come sotto-imperialismi – un concetto che ci riporta indietro negli anni '70 – e gendarmi regionali, ma con una notevole differenza: beneficiano di una maggiore libertà di esportare capitali che nel passato. Vedi i “grandi giochi” tenuti in Africa con competizioni tra Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, India, Brasile, Sud Africa, Cina ed ecc...

Due conclusioni:
1. La competizione tra potenze capitaliste si è inoltre ravvivata con l'affermazione della Cina in particolare, ma anche della Russia nell'Europa orientale. Ciò con certezza si somma a conflitti tra potenze capitaliste, anche qualitativamente differenti rispetto al periodo precedente. Nel passato, senza mai allinearsi con la diplomazia di Pechino, noi abbiamo difeso la Repubblica Popolare (e la dinamica della rivoluzione) contro l'alleanza imperialista americana e giapponese – eravamo in questo senso nel suo campo. Vedremo (report sull'Asia) quanto la geopolitica regionale sia cambiata, il che implica per noi una differente posizione “anti-campista”.

2. Più in generale, riguardo alla libertà di movimento del capitale, le borghesie (anche subordinate) e le multinazionali del “Sud” possono usare per sé le regole concepite dopo il 1991 dalla tradizionale borghesia internazionale, rendendo la competizione sul mercato globale più complessa che nel passato.

L’espansione capitalistica e la crisi ecologica

La riabilitazione del “blocco” cino-sovietico all’interno del mercato globale ha permesso un’enorme espansione capitalistica sulla quale si basa l’ottimismo delle borghesie imperialiste. Essa è anche alla base di una drammatica accelerazione della crisi ecologica. Non voglio approfondire questo argomento, ma vorrei sottolineare:

1. E’ impossibile in questo contesto porre la questione della riduzione delle emissioni dei gas serra solo nel Nord – essa va anche posta nel Sud.

2. Il pagamento del debito ecologico nel Sud del mondo non deve favorire lo sviluppo capitalistico mondiale e andare a beneficio delle multinazionali nippo-occidentali presenti nel Sud del mondo o di quelle del Sud (come l’industria agroalimentare brasiliana), che non farebbero altro che alimentare ulteriori crisi sociali e ambientali.

3. C’è sempre il bisogno di una solidarietà “Nord-Sud”, per esempio in difesa delle vittime del caos climatico. Tuttavia, più che mai, è una battaglia comune “anti-sistema” che deve essere in agenda nelle relazioni “Nord-Sud” dal punto di vista delle classi popolari: Cioè una battaglia unificata per un’alternativa anticapitalista, un’altra concezione di sviluppo nel “Nord” e nel “Sud” (metto sempre le virgolette perché l’eterogeneità di “Nord” e “Sud” oggi è tale che questi concetti possono essere fuorvianti).

4. Se il punto di partenza è una battaglia socio-ambientale “per cambiare il sistema, non il clima”, essa ha alla base i movimenti sociali piuttosto che specifiche coalizioni sul tema dell’ambiente. Mi sembra dunque che sia necessario discutere ancora una volta l’articolazione tra i due. Se noi non “ecologizziamo” le lotte sociali (seguendo l’esempio di ciò che si può fare in lotte urbane o di contadini), l’espansione numerica delle mobilitazioni “ambientali” rimarrà sul livello superficiale delle cose.

5. Gli effetti del caos climatico sono già percepiti e l’organizzazione delle vittime, la loro difesa e la loro auto-difesa sono anch’essi elementi alla base della battaglia ecologica. Gli pensanti effetti del super-tifone Haiyan nelle Filippine eccedono le previsioni che erano già state annunciate. Il futuro predetto è diventato parte del presente. Questo ha delle conseguenze destabilizzanti che vanno ben oltre le aree direttamente colpite e che causano una catena di tensioni (vedi ad esempio i rifugiati del Bangladesh e i conflitti con l’India riguardo alla questione dei migranti).

Un mondo di guerre permanenti
La mia supposizione è che non ci stiamo dirigendo verso una Terza Guerra Mondiale sul modello della Prima e della Seconda, perché non c’è un conflitto per la divisione {territoriale} del mondo nello stesso senso in cui c’era in passato. Ma i fattori della guerra sono molto profondi e vari: nuovi conflitti tra potenze, competizione sul mercato globale, accesso alle risorse, disgregazione delle società, nascita di nuovi fascismi che sfuggono al controllo dei propri progenitori, effetti climatici a catena e crisi umanitarie di vasta portata.

Questo significa che oggi siamo entrati in uno stato di mondo di guerre permanenti (al plurale). Ogni guerra va analizzata nelle sue specificità. Tuttavia abbiamo bisogno di “punti di stabilità” per tenere la bussola in una situazione geopolitica davvero complessa: l’indipendenza delle classi contro l’imperialismo, il militarismo, i fascismi e la nascita di movimenti basati su un’identità “anti-solidale” (razzisti, islamofobici e antisemiti, xenofobici, basati sulle caste, fondamentalisti e così via).

In questo contesto, l’eredità “campista” è particolarmente pericolosa. Essa consiste nel prendere le parti di un regime (ad esempio quello di Assad e così via) contro buona parte del popolo o un potere capitalista (nell’Asia Orientale, gli USA in nome della minaccia cinese o della Cina in nome della minaccia statunitense) (Russia o Occidente nel caso dell’Ucraina). Ogni volta che abbandoniamo alcune delle vittime (che si trovano nel lato sbagliato), alimentiamo il nazionalismo aggressivo e santifichiamo i confini ereditati dall’era dei “blocchi”, mentre al contrario dobbiamo cancellarli.

Rimaniamo tributari di questa eredità più di quanto pensiamo. Quando, in Francia, parliamo di Europa, significa di fatto Unione Europea o al massimo un’Europa Occidentale allargata – ed è all’interno di questa cornice che cerchiamo alternative. Ma l’Europa è anche Russia e le alternative vanno pensate in maniera da includere i due lati del confine Russo-Europeo Occidentale (compreso il Mediterraneo). Questa questione è particolarmente importante in Eurasia, perché è l’unico continente che è stato plasmato dal confronto faccia a faccia rivoluzione/controrivoluzione dei “blocchi”.

I limiti della super potenza
Gli Stati Uniti rimangono l’ultima super potenza nel mondo – e tuttavia perdono tutte le guerre in cui sono impegnati, dall’Afghanistan alla Somalia. Questo fatto è sorprendente! Il motivo è probabilmente legato alla mondializzazione neoliberista che impedisce loro di consolidare (in alleanza con le elite locali) i loro temporanei successi militari.
Questo forse è anche una conseguenza della privatizzazione degli eserciti, del fatto che le ditte di mercenari giocano un ruolo sempre maggiore, così come le bande armate “non ufficiali” a servizio di interessi privati (grandi compagnie o famiglie e così via). Lo stato non è più ciò che era prima, decisamente.

Siamo anche nella situazione in cui questa potenza, per quanto sia super, non ha i mezzi per intervenire in maniera casuale in condizione strutturale di instabilità. Ha bisogno di imperialismi secondari in grado di dividere il carico. Ma la costituzione di un imperialismo europeo non è andata a buon fine; Francia e Gran Bretagna attualmente hanno una capacità veramente limitata; il Giappone deve ancora rompere la resistenza civile per compiere la sua completa rimilitarizzazione.
Le guerre dunque rimarranno, con facce differenti. Per questo dovremmo interessarci di nuovo al modo in cui vengono portate avanti, in particolare da parte delle resistenze popolari, per comprendere meglio le condizioni di una battaglia, la realtà di una situazione, i requisiti concreti per la solidarietà e così via.

Chi dice guerre dovrebbe dire movimento contro la guerra. Essendo le guerre molto differenti tra loro, la costituzione di movimenti contro la guerra in sinergia tra loro non è semplice. La situazione in Europa (occidentale) in questo frangente induce al pessimismo, nella misura in cui il “campismo” ha corroso e reso impotenti le principali campagne messe in atto su questo fronte.
Esistono comunque movimenti contro la guerra, in Asia in particolare - e mi pare che in Eurasia, il superamento dei confini ereditati dall’epoca dei “blocchi” possa avvenire proprio su questa questione.