Come Ri-costruire? Domande verso il CommuniaFest

Thu, 10/09/2015 - 09:49
di
Thomas Müntzer

“Alle soglie di un mondo in parte inedito, dove il nuovo cavalca sul vecchio, meglio riconoscere ciò che si ignora e rendersi disponibili alle esperienze a venire che teorizzare l’impotenza minimizzando gli ostacoli da superare”
Daniel Bensaïd

Siamo nel tempo della necessaria ri-costruzione: di una forma dell'organizzazione collettiva; di una pratica della trasformazione sociale e politica; di una teoria della rivoluzione.
Ri-costruzione che non può essere ricostruzione di quanto è esistito negli ultimi 150 anni, di un modello già scritto e pronto di teoria, pratica e organizzazione, ma costruzione nuova, partendo da una sperimentazione di pratiche, relazioni, vertenze e conflitti. Sperimentazione perché il contesto attuale è davvero inedito, mescola condizioni già vissute in altri momenti storici con la specificità data dalla profonda sconfitta del vecchio movimento operaio e delle sue organizzazioni politiche e sociali, dalla trasformazione del sistema delle comunicazioni, dalla globalizzazione economica e dall'innovazione tecnologica.
Un quadro che si può vedere con chiarezza in materia di condizioni di lavoro e di relazioni tra capitale e lavori, dove condizioni già vissute nell'Ottocento (agli albori del movimento operaio) – in particolare per quanto riguarda la subordinazione dei lavoratori alle dinamiche del capitale – si sposa con una più diffusa precarizzazione delle condizioni di lavoro e di vita senza la prospettiva di una “crescita” che possa far pensare a un miglioramento individuale.
Per questo, servono idee e pratiche. Serve una moderna teoria e avamposti organizzati in cui sperimentare. La teoria va intesa come un nucleo di idee fondamentali che caratterizzino il progetto politico e che in gran parte risiedono nella storia migliore del movimento operaio dietro di noi. Solo che non basta semplicemente "setacciare" quella storia salvaguardandone le pepite migliori. Il problema è che, per ricomporre quello che si decompone, servono esperienze comuni di ri-alfabetizzazione, ricostruire le condizioni adeguate per ri-leggere la storia e, soprattutto, per iniziare a scrivere le pagine ancora non scritte.
Per iniziare a farlo abbiamo costruito un network tra esperienze sociali diverse ma con la stessa volontà di ricerca. Ricerca che presuppone alcune semplici ma cruciali domande, a cui in questi due anni abbiamo iniziato a sperimentare nella pratica alcune risposte, ma che in questo CommuniaFest vogliamo provare ad affrontare più chiaramente.

1. Con chi?

Come detto, partendo dal presupposto della sconfitta del vecchio movimento operaio, la nostra convinzione è che non si possa ricostruire a partire dai vecchi rimasugli dei partiti della sinistra, e nemmeno dai sindacati tradizionali. Il nostro tentativo in questi due anni è stato di ricostruire a partire da esperienze concrete messe in pratica da soggetti oppressi, che siano esperienze esemplari, ossia in grado di parlare a una condizione sociale più ampia e di tracciare alternative che da sociali diventino programmatiche. Nella nostra pratica concreta abbiamo fatto partire tali esperienze esemplari da quattro soggetti oppressi e sfruttati, che hanno mostrato un alto grado di conflittualità. Non pensiamo però che esistano i soggetti o il soggetto sociale centrale verso cui concentrare la nostra sperimentazione: se mai fosse esistito in passato, oggi la fluidità della nuova composizione di classe è un dato macrocospico, ed esperienze esemplari possono nascere da più soggetti e luoghi sociali. L’elenco che segue segnala solo da dove abbiamo iniziato a sperimentare, individuando un metodo estendibile:
- i/le giovani precari: coloro che subiscono di più gli effetti dell’ultimo ventennio neoliberista e per primi dimostrano una forte carica conflittuale, che parte dall’indignazione per la “fine della grande illusione”, quella di aver creduto alla promessa capitalista, a un futuro che avrebbe premiato il merito e che grazie alle nuove tecnologie avrebbe reso tutti sì più flessibili, ma anche più liberi e felici. Dal 2010 a oggi in contesti diversi (primavere arabe, Occupy Wall street, Indignados… ma anche il movimento dell’onda italiano) è stato questo soggetto a far partire i movimenti più dirompenti sulla base proprio dell’indignazione per una promessa tradita, pur non delineando ancora un’idea di società alternativa. Ma proprio da questi movimenti sono nati anche interessanti e innovative esperienze politiche, come quella di Podemos in Spagna.
- I lavoratori/trici espulsi dal mercato del lavoro in crisi: la violenza della crisi ha reso incerto il futuro anche di chi pensava di avere acquisito un posto di lavoro e si sono moltiplicati gli esuberi e le chiusure aziendali, mentre tutte le politiche pubbliche contro la crisi si sono concentrate nel salvataggio di banche e profitti, portando a percentuali sempre più alte i tassi di disoccupazione nei paesi occidentali. Le esperienze di occupazione e autogestione delle fabbriche, sul modello delle fabbriche recuperate argentine, si è così diffuso anche in Europa mostrando lotte esemplari cariche di un’idea alternativa alla società dello sfruttamento e del profitto, aggredendo in prima persona anche il nodo della produzione, della democrazia, della vivibilità e della distribuzione della ricchezza prodotta all’interno dei luoghi di lavoro.
- I/le migranti: la condizione di vita e di lavoro migrante è sempre più al centro del nostro tempo, e sono i migranti a dare vita a forme conflittuali sempre più radicali, dalle occupazioni abitative, ai conflitti nei più moderni luoghi di sfruttamento (come la logistica) fino alle ribellioni ai confini della fortezza Europa – pur spesso disorganizzate. Lo sfruttamento del lavoro migrante, attraverso il ricatto delle inumane leggi sull’immigrazione, ha permesso di ridurre al minimo il costo del lavoro per le aziende occidentali in crisi, producendo anche fenomeni come quello del caporalato e anticipando le condizioni di lavoro via via generalizzate a tutta la popolazione del paese. Gli stessi migranti sono con sempre più violenza utilizzati dai media e dalle destre più o meno estreme per la ricerca del più classico capro espiatorio verso cui scaricare l’incapacità del capitalismo in crisi di redistribuire un minimo di ricchezza, e hanno anche per questo l’urgenza di recuperare dignità a partire da esperienze di accoglienza autogestita e di autoproduzione a sfruttamento zero.
- Donne e soggetti lgbtiq: L’attacco delle destre e di settori cattolici, sintetizzato dalla cosiddetta lotta al “Gender”, mostra ancora una volta la centralità delle oppressioni di genere, funzionali in una fase di crisi all’ulteriore divisione nelle condizioni materiali dei soggetti sfruttati, nonché alla sostituzione a livello familiare dei servizi tagliati dalle politiche di austerity. Per questo la conflittualità di genere mostra momenti di forza, radicalità, e in alcuni casi notevole capacità di autorganizzazione. E innerva qualsiasi conflitto sociale.

Ognuno di questi soggetti e conflitti di cui anche noi facciamo parte e con cui abbiamo iniziato le nostre sperimentazioni, non può non avere quotidianamente a che fare con un’altra contraddizione che distingue in modo esplosivo il nostro tempo e colpisce trasversalmente i soggetti sociali: quella ambientale. Nessuna alternativa alla società esistente può esistere oggi senza porsi in modo radicale il problema ecologico.

2. Come?

Sperimentare la ricostruzione a partire da questi soggetti e conflitti significa ricercare un rapporto, inedito dal nostro punto di vista, tra dimensione sociale e dimensione politica. Significa reagire alla crisi della politica e in particolare delle strutture provenienti dal vecchio movimento operaio, ricercando un salto qualitativo sul piano politico a partire dal terreno sociale, nei tempi dovuti e possibili. In questo senso stiamo provando a praticare la mescolanza del "sociale" e del "politico" consapevoli che un "politico" prima o poi dovrà darsi e che la sua necessità è più urgente delle effettive possibilità, vista la dimensione della crisi. Uno sbocco serve, serve disegnare un percorso, un progetto. L'immersione nel cosiddetto sociale e la rinuncia a sovrapporgli i simboli e gli schemi che appartengono ad altre forze materiali non ha per noi alternative convincenti. Solo coloro che saranno nel movimento della classe a venire avranno la legittimità di determinarne anche le forme politiche, solo i pezzi disseminati sul tavolo potranno comporre il puzzle della composizione sociale e politica della classe. Ma in quale modo un conflitto sociale diventa politico?

3. In quale luogo?

La precarizzazione dei rapporti di lavoro, le delocalizzazioni, la frammentazione dei processi produttivi e le privatizzazioni degli spazi pubblici hanno reso sempre più difficile per i soggetti sfruttati individuare il luogo dove riconoscersi e autorganizzarsi per produrre conflitto e ottenere diritti. Nella società in cui l’1% si arricchisce a danno del 99%, la riappropriazione di luoghi e spazi diviene quindi una assoluta necessità. Ma in che modo si fa una riappropriazione? Domanda che interroga i rapporti con le istituzioni pubbliche e le modalità di conflitto con i soggetti privati, ma che per noi parla anche della necessità di produrre, attraverso la riappropriazione, conflitto e autorganizzazione. E di cosa ci si deve riappropriare? Noi proviamo a produrre esperienze di riappropriazione di fabbriche, di spazi sociali, di luoghi di creazione e diffusione culturale, e di possibilità di autoproduzione a sfruttamento zero (come quelle contadine, ma anche manifatturiere o cultuali). La nostra ipotesi è di costruire delle Case del Mutuo soccorso come luoghi di incontro di reti sociali che condividono pratiche e mettono a disposizione di tutte/i competenze, risorse, idee e capacità produttive; luoghi della difesa e della solidarietà diretta della nuova composizione di classe; luoghi di costruzione di un nuova sindacalizzazione e di una nuova “intercategorialità” (critica verso la vecchia concezione categoriale e in grado di sperimentare nuove vertenze e “rigidità” di classe). Ma come si rendono le case del mutuo soccorso luoghi non “sussidiari” al welfare, ma strumenti di autodifesa e di partecipazione a un welfare tutto da ri-inventare? E in che modo le autoproduzioni non diventano semplici luoghi di lavoro? Il mutuo soccorso e le autoproduzioni devono essere conflittuali, perché senza un conflitto con i meccanismi di fondo e le istituzioni di questa società non potrà sopravvivere nessuna singola esperienza senza esser travolta dalla realtà.

4. Da soli o in coalizione?

Tutte queste esperienze sono però di per sé insufficienti, necessitano di mettersi in rete e di inserirsi in più ampi movimenti sociali per praticare il conflitto senza rinchiudersi in improbabili isole felici. Per questo è necessario costruire coalizioni sociali tra esperienze e soggetti diversi, e sperimentare nuove forme di sindacalismo in grado di riunificare nelle pratiche e nei conflitti concreti ciò che il neoliberismo ha diviso. Siamo in una fase più simile all’Ottocento – in cui il movimento operaio ha vissuto la propria “accumulazione originaria” di esperienze e organizzazione, a partire proprio dalle pratiche di mutuo soccorso – che al Novecento – in cui il movimento operaio era dispiegato e si trattava solo di contenderne la direzione tra le varie correnti. Una fase che avrà i suoi tempi, che andrà affrontata con “lenta impazienza”, sapendo bene che gli strumenti e gli schemi ereditati dal Novecento non ci servono più, ma non sapendo ancora che caratteristiche avranno gli strumenti politici a venire. Che vivrà di tentativi ed errori, e che dovrà comunque fare i conti con i tentativi di non sparire di ciò che rimane delle vecchie strutture politiche e sindacali. Nessuna accelerazione politica sarà efficace senza una “accumulazione sociale”, senza azioni che sappiano “fare società”, senza insomma esperienze esemplari in grado di costruire una nuova narrazione e una nuova solidarietà per tutta la moderna composizione di classe. Per questo non ci interessano le ricomposizioni politiche in corso, mentre vogliamo sperimentare le diverse proposte di coalizioni sociali (come quella dello Sciopero sociale, quella del Comitato no expo, quelle dei movimenti ambientali e contadini, o quella più ampia lanciata dalla Fiom), alleanze che – pur con limiti e contraddizioni – partono da pratiche e bisogni concreti e non da presunte identità o appartenenze comuni. E questa è per noi anche un’esigenza internazionale su cui lavorare, con i tentativi di costruire le reti internazionali delle fabbriche recuperate o il coordinamento transanazionale Blockupy, per produrre percorsi e dibattito comune a partire da progetti e obiettivi concreti.

5. Verso dove?

L’autogestione che segue alla riappropriazione è per noi non solo una pratica di democrazia diretta e radicale, a cui devono essere estranei burocratismi e leaderismi, ma anche un progetto politico a cui tendere: senza un progetto di fondo è difficile che tali esperienze possano durare nel tempo o che non si trasformino in qualcos’altro (come dimostrano varie esperienze di cooperative, di privato-sociale, ma anche di Centri sociali, divenuti totalmente a-conflittuali, se non del tutto simili a qualsiasi altro luogo di lavoro). Per essere veramente tale, l’autogestione deve essere “fuori mercato”, ossia saper mettere in discussione i diritti di proprietà del capitale e lo sfruttamento del lavoro, in pratica le forme fondamentali di organizzazione sociale del sistema capitalista. Essere insomma esperienze concrete che alludono a un altro modello di società, e che sappiamo ricostruire una solidarietà di classe. Ma come farlo senza illudersi di produrre un esodo dalla società circostante o di costruire un’isola felice?

6. Senza prendere il potere?

Non può esistere una società libera e democratica “in una sola fabbrica” o “in un solo spazio”, così come non poteva esistere “in un solo Paese”. Il problema politico e del potere (che noi preferiamo usare con la minuscola) è dunque un problema che non ci si può non porre, pur dovendo fare i conti non solo con gli enormi danni prodotti dallo stalinismo, ma anche con i limiti che mostrano i governi progressisti in America Latina o il recente fallimento dell’esperimento greco di Syriza. Proprio l’epilogo del Governo Tsipras mostra quanto sia importante in questa fase ricostruire un blocco sociale in grado di vincolare ai propri interessi di classe le possibili giravolte di un leader o di un partito. In Grecia, soprattutto dopo il referendum, c’era l’opportunità di creare una fase politica nuova che Tsipras non ha voluto o saputo cogliere, ricalcando, come dice Badiou, la tradizione della socialdemocrazia. Noi non vogliamo rinunciare al terreno strettamente politico, sappiamo – come abbiamo visto in Grecia e come vediamo in Spagna – che i risultati elettorali e la natura dei governi possono incidere nelle possibilità di lotta e autorganizzazione dei movimenti. Ma quello che a noi interessa è il poder popular, è il potere inteso come verbo e fondato sull’autorganizzazione dei soggetti, sulla critica alla burocrazia, sulla partecipazione e la rotazione degli incarichi, sulle capacità di autogoverno e di controllo popolare sulle decisioni. Sappiamo che tutto questo non può realizzarsi senza contendere il potere e le sue leve a chi al momento lo detiene. Ma come si contende il potere? E ancora, come si fa a “prendere il potere senza farsi prendere dal Potere”?