La Coalizione sociale, una risposta alla fine del movimento operaio

Mon, 23/03/2015 - 18:33
di
Salvatore Cannavò

Difficile prevedere se la proposta di Coalizione sociale avanzata dalla Fiom di Maurizio Landini possa costituire un successo. Quello che appare chiaro è che costituisce una finestra di opportunità. Per ricominciare dal lato degli interessi del mondo del lavoro e non lavoro, dal lato di coloro che non sono rappresentati, di coloro che vengono costantemente calpestati, sconfitti, spesso umiliati. Questa proposta, però, acquista maggior senso se integra un assunto, al momento non ancora presente nel dibattito: la fine del movimento operaio così come si è sviluppato lungo il ‘900.

‎Parlare‭ ‬di fine del movimento operaio non significa negare l‭’‬esistenza di interessi di classe o non vedere la presenza di lotte e di resistenze, di vertenzialità anche aspre. E’ di pochi mesi fa, ad esempio, la resistenza degli operai di Terni in difesa del posto di lavoro. Analoghe lotte avvengono in ogni parte del Paese anche se per bucare la coltre dell’invisibilità mediatica devono trasformarsi in questione di ordine pubblico. Ma anche la vicenda di Terni, o quella di Piombino o le lotte di altri comparti sindacali, non eliminano l’essenziale: è venuta meno la costruzione politica, culturale e sociale che ha permesso, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, l’affermazione di una soggettività politica non riconducibile solo ai partiti della sinistra. Soggettività alimentata dall’esistenza dell’Urss, dalla forza dei partiti comunisti e dei partiti socialdemocratici, dalla crescita esponenziale dei sindacati, almeno in Europa, che ha consentito di cambiare profondamente i rapporti di forza tra le classi sociali.

Ma, appunto, una forza molto ampia che ha riguardato una porzione significativa di società con riferimenti ideologici, culturali prima che politici, molto solidi. Sono quegli stessi presupposti – solidarietà, comunanza di interessi nel lavoro salariato, solidarietà generazionale – che ormai si sfarinano. La sconfitta del movimento comunista, con lo spartiacque decisivo dell’89, la socialdemocrazia che si trasforma in una variante del capitale, gli errori di chi avrebbe dovuto costituire un’alternativa alla dissoluzione (si pensi a Rifondazione in Italia), costituiscono le premesse di una crisi che non poteva che riguardare anche i sindacati, divisi, privi di una dimensione sovranazionale, vittime dei propri errori e delle proprie colpe – in primis il distacco dalle reali condizioni di lavoro – e che vengono travolti da un’offensiva politica che, a sua volta, è alimentata dalla crisi economica.

L’analogia con l’800

La sconfitta di quel movimento è stata profonda, più di quanto si creda o si voglia ammettere. E si nutre di un’altra crisi profonda, quella della democrazia parlamentare e rappresentativa divelta da una logica dell’economia che in nome della produttività, della competizione e della ricerca del massimo profitto, ha bisogno di velocizzare le decisioni e di aggirare il dibattito. Matteo Renzi è frutto di questa necessità così come il bisogno di uomini forti, di nuovi populismi e di, sempre agognati, capri espiatori collettivi.

La fase attuale assomiglia così alla seconda metà dell’800, agli albori del movimento operaio perché il problema di fondo non è ricostruire solo le forme rappresentative sconfitte – ad esempio, una fantomatica sinistra – ma gli ingredienti essenziali che formano un nuovo movimento del lavoro e del non lavoro (il nome “operaio” può infatti dirsi superato).
Si tratta di ricominciare e quindi di rifarsi alla metodologia che portò alla formazione del vecchio movimento operaio. Ricostruire la solidarietà, a partire dal Mutuo soccorso non come surrogato del welfare in crisi ma come filo di sutura delle fratture sociali; ricostruire una dimensione vertenziale, non come conflitto rappresentato o mediatico ma come piccole vittorie da accumulare; ricostruire una dimensione internazionale per stare all’altezza della globalizzazione del nostro tempo.

La mappa del “chi siamo”

Questa operazione paziente – non si esaurirà, infatti, né con qualche manifestazione né con l’idea, astratta, di una lista elettorale – ha bisogno innanzitutto di operare una radiografia dei soggetti potenziali. Una mappa del “chi siamo” per avere la capacità di sintetizzare linguaggi e comunicazione. Se parliamo di fine del movimento operaio ci è chiaro, allo stesso tempo, che le figure del lavoro salariato, quello che una volta si definiva proletariato, non fanno che aumentare e moltiplicarsi nelle loro differenze. Questa morfologia non si riconosce perché l’attuale processo produttivo e l’attuale conformazione del capitale ha impedito che un un contratto a termine si riconoscesse in un co.co.co e questo, a maggior ragione, in un contratto a tempo indeterminato. Le partite Iva, sempre più “false”, esondano dalla loro natura originaria e diventano settori di “classe” senza accorgersene e quando se ne accorgono non trovano sponda nelle attuali strutture sindacali. Le identità, poi, si sdoppiano o triplicano a seconda dei contesti. Un posto di lavoro salvato diventa un successo per un-una lavoratore-lavoratrice e, magari, uno spreco per un-una cittadino-a. Chi lavora diventa rapidamente consumatore e utente e non si riconosce più come lavoratore. Tanto meno riconosce, o fa fatica a riconoscere, un immigrato o un’immigrata come una parte di sé.Un posto di lavoro può essere opposto alla tutela dell’ambiente la contraddizione può attraversare non solo intere comunità ma anche generazioni, famiglie.
L’idea che ricucire tutto questo, dotandosi di aghi e fili nuovi, non sia di competenza del sindacato è semplicemente una rinuncia al proprio ruolo o una subordinazione alla politica dominante. Questa sutura non solo è di pertinenza sindacale ma costituisce forse l’unica possibilità per ciò che resta del sindacato di darsi un ruolo e una missione storica.

Non‭ ‬è un caso se il sindacato sia marginale, vittima delle sue sclerotizzazioni e burocrazie più o meno grandi. Non è un caso, soprattutto, se su una battaglia decisiva come il Jobs Act, sia uscito sconfitto perdendo proprio sul terreno della più larga unità sociale. Attorno al lavoro dipendente classico – tra l’altro il meno colpito dalla riforma – non si è compattato quel largo mondo di precari-e e figure solitarie che da tempo non sanno più cosa sia il sindacato e, spesso, lo vedono come controparte. Il sindacato appare spesso, invece, fermo sul posto anche perché, a lungo, ha fatto della collateralità con i governi di centrosinistra (e, in parte, anche con quelli di centrodestra) l’unica strategia. Abitudine alla concertazione, incapacità a condurre un conflitto autentico, mancanza di radici strutturali nella moderna composizione di classe sono stati i pesi nelle tasche del sindacato che hanno permesso a Renzi di sferrare un colpo di maglio formidabile. Così come l’assenza di una proiezione internazionale è alla base di una residualità nazionale che non ha punti di appoggio nel contrasto alle politiche europee e globali.

La centralità della democrazia

Anche per questi motivi, quello che dovrà potersi realizzare troverà forza e avrà futuro se assumerà la democrazia e l’auto-decisionalità dei soggetti, come coordinate essenziali. Se i soggetti storici del movimento operaio sono in una crisi irreversibile, piccole luci di una stella ormai spenta, anche l’ipotesi di una delega a dirigenti illuminati perde di prospettiva. Il futuro è nelle nostre mani e se un insegnamento viene da movimenti come quello di Podemos (al di là del suo corso reale) è che al tempo della comunicazione orizzontale non si può dare lotta politica efficace senza una democrazia sostanziale. Decisionalità democratica, trasparenza, sobrietà, sono ingredienti propedeutici a qualsiasi tipo di organizzazione. E’ bene saperlo e accettarlo non come concessione allo “spirito del tempo” ma come strumento di nuova politica.
Siamo così al tempo della ricostruzione di un movimento‭ “‬di classe”: tramite la costruzione di strutture basilari di mutuo soccorso,‭ ‬tramite forme elementari di sindacalismo,‭ ‬attraverso processi emblematici e/o simbolici di autogestione,‭ ‬in sperimentazioni “politiche” non comprimibili nella nascita miracolosa di nuovi‭ ‬partiti.‭ I quali hanno perso la vecchia funzione e il vecchio ruolo, per lo meno sul fronte della rappresentanza degli “ultimi”, non perché decisamente superati – un “partito” si darà sempre in natura – ma perché viaggiano ancora sulla luce di una stella spenta. Quella di una sconfitta non solo subita sul campo ma anche nel cuore stesso della propria credibilità. Non sarà sufficiente shakerare i vecchi ingredienti, spesso i vecchi dirigenti, per far nascere una bevanda digeribile. Il percorso è più lungo, più radicale perché agisce nella radice dei comportamenti sociali, nella ricostruzione di un senso di appartenenza a uno schieramento che rivendica diritti. Il Novecento, i suoi errori, le scelte scellerate hanno bruciato gran parte del terreno in cui si muovono questi soggetti e la bonifica avrà bisogno di tempo. E di fiducia. La fiducia fondamentale non può che essere nelle proprie forze e nella capacità di effettuare una connessione stabile, nell’efficacia della coalizione.

L’esperienza esemplare e il sindacato sociale

Una dimensione inedita potrà e dovrà essere quella dell’esperienza esemplare. La fine del vecchio movimento operaio si porta dietro anche la fine dei suoi modelli. Non più il “modello tedesco” in cui si strutturano nazionalmente e in maniera possente,‭ ‬grandi sindacati,‭ ‬grandi partiti,‭ ‬grandi strutture di organizzazione sociale.‭ Oggi è più efficace scommettere su esperienze esemplari che, con la loro realtà materiale, rendano credibile un nuovo racconto. Emergency è una esperienza esemplare così come il recupero dei centri sequestrati alla mafia da parte di Libera. La fabbrica occupata Rimaflow è una esperienza esemplare che allude, chiaramente, a un’altra idea di economia e di solidarietà operaia. L’esempio permette di conferire nuova legittimità a idee che,‭ ‬altrimenti,‭ ‬verrebbero strozzate dalla retorica propagandistica.‭ ‬L’esperienza esemplare del mutuo soccorso, ad esempio, può servire a ricostruire un’idea moderna del sindacato fondata sulle origini,‭ ‬sulla solidarietà di classe,‭ ‬sulla centralità degli iscritti contro gli apparati e l’istituzionalizzazione cui ha portato,‭ ‬appunto,‭ ‬il‭ “‬modello‭ ‬tedesco‭”‬.

La coalizione sociale, se approfondita in questa direzione, è un progetto che non potrà non avere impatti sul modello di sindacato fin qui conosciuto. La politicità della proposta, più che sulla forma-partito insiste proprio sulla forma-sindacato, sulla sua caducità e sulla necessità di ripensarne ruolo e azione sociale. Il contrasto capitale-lavoro, infatti, non agisce più solo in sede di prestazione lavorativa, lì dove si dà lo scambio tra salario e ore di lavoro. La contraddizione è generalizzata a livello sociale, lo è ormai da molto tempo. La sfida diventa più complessiva e il sindacato, se vuole giocarla davvero, deve farsi “sociale” nel senso che deve rincorrere quella contraddizione e quello scontro in tutte le sue manifestazioni. E’ conflitto da rappresentare la crescita della disoccupazione, la generalizzazione di forme di lavoro “para” subordinato, la gestione del welfare (si pensi all’iniziativa di associazioni free-lance che il 24 aprile hanno individuato l’Inps come controparte).

Il punto di partenza imposto dalle sconfitte, rende vitali anche le esperienze di mutuo soccorso come luoghi in cui ricostruire fiducia e solidarietà di classe. “Case del mutuo soccorso” in analogia con le Case del popolo in cui si redigevano i primi statuti del mutualismo operaio: oggi è cambiato il tempo e il contesto e il mutualismo incorpora una dose necessaria di 2.0. Ma il meccanismo che sta alla base del mutuo riconoscimento è lo stesso. Così come serve un impegno straordinario nell’adottare una lotta, sostenendo chi è solo-sola in una dimensione particolare offrendo una rete di protezione collettiva. Il sindacato sociale è tutto questo e la coalizione sociale ne germina la nascita, ovviamente a condizione che i soggetti incaricati ne colgano il senso e la sfida.

Reddito, salario, debito

Fin qui la metodologia, e il contesto. Un simile progetto, però, alla fine sarà valutato esclusivamente per i contenuti, per la capacità di coinvolgimento e, anche, per i risultati che conseguirà. Un’ipotesi che si propone di riunire ciò che il capitale divide, di ricomporre settori diversi e di offrire loro una sede per ricostruire senso politico al proprio agire, dovrà dotarsi di un programma minimo che esemplifichi questa ambizione. L’idea di scrivere da capo uno Statuto dei lavoratori e delle lavoratrici acquista un valore politico essenziale se non diventa solo un espediente propagandistico per rispondere al Jobs Act di Matteo Renzi. Un nuovo Statuto deve insistere sulla radiografia del nostro campo avanzando una idea ricompositiva che inizi a riflettere sulla nozione di “subordinazione” del lavoro, di “dipendenza economica” al di là della forma contrattuale. L’estensione dei diritti, certi, indivisibili e universali, è una “offerta” politica che deve consentire il riconoscimento nella stessa cornice di classe per milioni e milioni di soggetti che invece si percepiscono differenti e, spesso, si collocano all’opposto (garantiti contro non garantiti, etc.).

In questo percorso un ruolo importante può averlo la riflessione sul reddito minimo garantito che, superando una diatriba storica, costituisca oggi il pavimento per una edificazione universale di diritti. Uno strumento per fondare non solo il diritto all’esistenza ma anche la libertà del e nel lavoro, fuori dalla ricattabilità e dalla solitudine sociale. Accanto al tema del reddito si pone anche quello del salario minimo legale che, senza erodere le garanzie dei contratti di lavoro, costituisca un argine al “minimo ribasso” del costo del lavoro. Il salario minimo legale e il reddito minimo sono strumenti per consentire, allo stesso modo, di sgranare la categoria del lavoro autonomo, spogliandola di posizioni indebite e costruendo, anche per questa via, una griglia di diritti esigibili anche per questo settore.

In una fase di economia della stagnazione, indicata ormai da molti economisti come la forma stabile della recessione globale, occorre pensare a soluzioni dirompenti sul piano sociale per poter riaprire il dibattito sulle alternative di società. La riduzione dell’orario di lavoro, la riqualificazione ecologica dei territori, la riforma, progressiva, del welfare state, iniziando a riproporre il sistema previdenziale come terreno unificante del lavoro con meccanismi di solidarietà intergenerazionale da ricostituire, costituiscono obiettivi minimi in questa direzione. Così come, sul piano delle risorse, una risposta netta alla questione del debito, vagliandone la parte illeggittima (Audit) e ribellandosi, così, alla logica estenuante del capitale finanziario. La Grecia sta provando a farlo. Segno che la proposta non è indicibile.