Pomodori fuori mercato

Tue, 24/10/2017 - 19:28
di
Domenico Dalba (da "Comune.info")*

Le finestre e i balconi di Barletta, città dei pittori Giuseppe De Nittis e Paolo Ricci, sono spenti, ma non sprangati, per il caldo della notte. Esplode un pianto incontenibile in una stanza di un primo piano, dove un lattante si dibatte convulsamente. Per strada, solo cani e gatti, randagi, meticci, ciondolano febbrilmente. Digrignano i denti, i musi brontolano minacciosi, zampate inoffensive fendono l’aria, per l’accaparramento del ben di Dio che esonda sul selciato dai cestini stracolmi.

Superata la caserma dei Vigili del fuoco, arriviamo davanti al “Fornaio dei vecchi mulini”, dove gli operai sono freneticamente indaffarati. Biscotti, crostini, focacce, friselle, panini e taralli devono partire al più presto per raggiungere anche i luoghi più remoti. Non possiamo proprio presentarci agli ospiti di oggi con le mani in mano. Compri, da Vincenzo Paolillo, perciò, due buste di ciabatte integrali, abbrunite, cosparse di energizzanti semi di girasole. Pane prodotto con farine pregiate del territorio, ricavate dal grano “saragolla” o “senatore Cappelli”, di grande valore… solidale, etico, salutistico e ecologico, distante mille miglia dal raffinato pattume impastato trucidamente di diserbante proveniente dal freddo Canada, orgoglioso, in questi giorni, assieme alla Ue di aver sottoscritto il Ceta, trattato di libero scambio, che penalizzerà i contadini e consumatori italiani, spagnoli, greci e portoghesi.

Imbocchiamo il nero nastro della SS 16 bis. Dopo oltre un’ora, siamo sulla strada Conversano-Turi, in provincia di Bari, sui primi rilievi della Murgia. Poco dopo, con somma circospezione, ci inoltriamo in uno sconquassato viottolo di campagna, costellato di variegate buche, che fanno sobbalzare la nostra Passat, alquanto vecchiotta, tutta intenta, inutilmente, a schivarle. Profumi di menta, rosmarino e basilico, aleggiano nell’aria. Alle nostre spalle un nugolo di polvere, iridescente, si solleva nell’aria.

Sulla sinistra un trullo in rovina, rudere diroccato, macerie, come le tante prodotte dall’uomo, che mettono addosso solo tristezza. Non la intravedi ancora la “Masseria dei Monelli”, ma lei già ti scruta con i conci della sua scabra roccia, pullulante di fossili marini, sulle cui acque si erano rispecchiati i dinosauri. Attraversa, disinvoltamente, ciangottanti foglie di argentei ulivi dalle minuscole drupe verde smeraldo, ciliegi che in primavera hanno deliziato il palato di esigenti buongustai, con la loro dolcissima polpa rosseggiante. Intono ulivi, mandorli carichi di semi, fichi e succulente pale di insidiosi fichi d’India orlate di bacche.

La masseria dei monelli

La “Masseria dei monelli”, “suggestivo il nome. …. A Gianni piacciono i monelli che coltivano utopie, che hanno il l’ardire di essere se stessi, di manifestare il proprio dissenso e disagio. Coloro che scelgono di dedicare la propria vita alle fasce più deboli della società, del mondo animale e vegetale. Non è un caso se Gianni possiede una conoscenza profonda di tutte le piante spontanee della Puglia che oggi ricevono un attacco spietato da parte del diserbante, il criminale glifosato della potentissima Monsanto. Da anni, Giovanni Signorile mette a disposizione la masseria, a tutti i “monelli”, di ogni età, genere, condizione sociale, colore della pelle. È una strategia, la sua, per combattere con pragmatismo ogni forma di esclusione che la politica e la finanza alimentano di proposito, frantumando in una infinità di monadi il tessuto sociale.

In masseria è partito il progetto O.S.A.R.E. in collaborazione con il Centro Salute Mentale BA6 del quartiere San Paolo di Bari. Persone con problematiche psichiche vengono considerate e valorizzate per i loro talenti, facendo ricorso all’ortoterapia. Trovano, in quest’oasi umanizzante, l’ambiente sociale e naturale per esprimere al meglio se stesse, soddisfacendo il bisogno di stare insieme e di immergersi nei colori della terra, di godere dei suoni, dei profumi e di tutte le emozioni sensoriali percepibili. Franco Basaglia avrebbe visto con grande affetto l’iniziativa, ma i sostenitori dei vari i tipi di istituzioni totalizzanti fanno di tutto per contrastare chi vuole abbattere sbarre, barriere, frontiere, confini.

Bambini e ragazzi di scuole elementari e medie sono di casa. Quando arrivano spesso non hanno mai visto una gallina. Qui fanno lezione all’aperto, sdraiati, in piena libertà sull’erba, come comanda il corpo. Persino ad una pecora piace tanto pascolare in libertà, figuriamoci ai virgulti dell’uomo. A volte intervistano lavoratori della terra intenti a fare innesti seminare, zappare, fresare, potare, sarchiare… Studiano sul campo la vita delle formiche, delle api, dei bombi, delle lumache, dei lombrichi delle cicale e delle talpe.

In masseria, inoltre, sono stati organizzati incontri e dibattiti su tematiche di grande rilevanza culturale, sociale e politica, come le cause delle migrazioni, il caporalato, lo sfruttamento dei lavoratori, gli sgomberi, la crescente diseguaglianza, la dispersione scolastica, la riappropriazione di spazi di abbandonati, l’ampliamento della sfera dei diritti.

Arrivano tanti ospiti stranieri nella masseria, nella quale vivono armoniosamente essenze arboree spontanee ed alberi da frutto. Sono animati dal desiderio di conoscere il territorio, di capire le esigenze reali della gente comune, di esporre le loro problematiche, esistenziali, politiche economiche e culturali.

Vi soggiornano anche Palestinesi, provenienti dal Libano, da un campo profughi. Hanno da poco evocato il dramma della loro terra e delle sue genti. In precedenza avevano suonato la cornamusa, strumento tipico delle loro parti e non, come comunemente si crede, del Nord Europa. Avevano ballato con i loro costumi. Ora preparano felafel, polpette speziate e fritte, realizzate con ceci rossi, bianchi e neri.

Anche il Movimento dei Senza Terra ha potuto far conoscere la drammatica realtà politica, economica e sociale del suo Paese con la voce e il coraggio di Riccardo, sindacalista brasiliano.

Salsa a sfruttamento zero

Gianni, da alcuni anni, concede in forma mutualistica, all’associazione Solidaria e a Ortocircuito di Bari, terreni di sua proprietà. Le due realtà comunitarie possono liberamente produrre pomodori incontaminati e di alto valore nutrizionale, trasformandoli, poi, in salsa… a sfruttamento zero.

Quando arriviamo una frastagliata e variopinta nuvola di giovani, febbrilmente intenta a lavorare, distraendosi per un attimo, volge curiosamente la testa nella nostra direzione. Scambiamo saluti e sorrisi. Migranti neri del Burkina Faso, Senegal e Niger, sopravvissuti miracolosamente all’inferno della Libia, arrivati in Italia con un rocambolesco viaggio tra impietosi marosi, lavorano armoniosamente con precari italiani, che hanno concluso con successo gli studi universitari, laureandosi in economia, in diritto, in scienza dell’alimentazione, in materie letterarie ed in altre discipline. Alcuni sono disoccupati o lavorano in agricoltura o accettano lavori saltuari. Sottopagati.

Un consistente numero lavoratori e operaie occupano sedie di recupero oppure sono accoccolati su rustici sgabelli ricavati da teneri fusti di ferula. Alla loro vista ti affiora l’antico proverbio nato dalla rassegnazione dei derelitti delle Murge e condiviso dalla ideologia dei baroni di un tempo: “I frddizz non addventn maie sigg” (I rustici sgabelli di ferula non diventano mai sedie signorili). Metafora di…gli umili non diventeranno mai signori. Sembrava, alcune decine di anni fa, che quell’adagio fosse arrivato al capolinea, che potesse nascere una società più giusta ed equa, invece la condizione di vita e di lavoro della gente di oggi è notevolmente peggiorata, mentre si profila all’orizzonte una catastrofe ecologica di proporzioni inimmaginabili.

I pomodori, prelevati da cassette di plastica, vengono selezionati. Quelli sani e maturi finiscono in una grande vasca nera riempita a metà di acqua, assieme ad altri a cui, con un coltello seghettato, si asportano le parti ammalorate, che ritorneranno alla terra. Dopo un ripetuto ed accurato lavaggio, eseguito facendo vorticare nell’acqua una grande schiumarola, vengono accolti da enormi pentoloni, alimentati dal fuoco di sottostanti fornelli, le cui fiamme anneriscono di lingue frastagliate le lucenti superfici argentee dei contenitori.

Regna l’entusiasmo, il rispetto dei propri tempi e di quello degli altri. Ciascuno dà con passione quanto le proprie energie gli consentono. Nessuno intende primeggiare o ha da lamentarsi della condotta altrui. La conversazione si snoda amabilmente, senza rallentare il ritmo di lavoro. Nell’amabile colloquiare intervengono senza accavallarsi, Maria, Graziana, Marilisa, Omar, Federico, Giuseppe, membri della comunità “Solidaria”. Parlano con amarezza e trepidazione di lavoro che manca… delle esperienze di precariato, che vivono ogni giorno sulla loro pelle, delle pesanti condizioni di vita, delle mille forme di sfruttamento che subiscono, dei colletti bianchi, profumatamente pagati e riveriti, che sovraintendono alla produzione, distribuzione, politica e finanza, salassando l’economia dei singoli operatori e della collettività. Non intravedono prospettive per il loro futuro, personale e professionale. È difficile nelle loro condizioni metter su famiglia. Dei giovanissimi solo Gianni De Giglio al momento deve badare a due bambine, e sono tanti i sacrifici e le insicurezze per arrivare alla fine del mese, nonostante il dottorato in economia e diritto. Vincenzo, laureato in biotecnologia alimentare sbarca il lunario, dedicandosi all’agricoltura nei campi di famiglia. La cultura maturata all’Università gli è di aiuto nell’approcciarsi con maggiore consapevolezza e senso di responsabilità ai lavori della terra.

Giuseppina e Paola

C’è tra i presenti chi riferisce il caso di Giuseppina Spagnoletti, giovane bracciante, morta mentre raccoglieva pomodori. Era arrivata alle prime luci dell’alba nei campi di Ginosa. Quando il sole non aveva ancora raggiunto lo zenit, si accasciò al suolo. I medici non potettero far altro che registrarne l’avvenuto decesso. Non si conoscono con certezza le cause della morte, però, sembra che alla base del decesso ci siano un’aritmia cardiaca, la fatica e l’eccessivo caldo. Era costretta, a lavorare sodo, per mantenere i figli e il marito, disoccupato.

Sorte analoga era capitata a metà luglio del 2015 a Paola Clemente, bracciante agricola di San Giorgio Jonico, andata a morire nelle campagne di Andria, alle prese con l’acinellatura a temperature insopportabili. Veniva sfruttata e sottopagata. A distanza di due anni sono state arrestate sei persone, per reati di truffa ai danni dello Stato, illecita intermediazione e sfruttamento del lavoro. Chissà se la magistratura riuscirà mai a stabilire il nesso di causa ed effetto tra le pessime condizioni di lavoro e la morte.

Giuseppe, il più giovane della combriccola, sopravvive con saltuari lavoretti malpagati. Dopo la terza media ha dovuto darsi pane, correndo il rischio di finire stritolato negli ingranaggi della criminalità. La madre, ammalata di cancro non può aiutarlo, e tanto meno il padre, disoccupato. Grazie a un amico ha conosciuto “Solidaria” nella quale si sente a suo agio. Con voce calda ti confessa: “Hanno accolto me, vagabondo ed alla deriva, come uno di loro. Un’opportunità che mi ha salvato e fatto apprezzare l’aiuto, leale e solidale”.

Omar invece viene dal Burkina Faso, dove sono rimasti la madre e i fratelli. Nel suo paese il 46 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà ed altissimo è il tasso di disoccupazione. Spadroneggia l’Aids. In Italia, è riuscito a sopravvivere con lavori nei campi: 15/20 euro al giorno per oltre dieci ore di lavoro. La sua storia, remota e presente, come anche quella degli altri migranti della comunità, avrebbe bisogno di libri interi per essere raccontata compiutamente. E ti metterebbe addosso una grande rabbia per le vessazioni di ogni tipo che hanno dovuto subire arrivando in Libia.

Una volta che i pomodori si sono spappolati nell’acqua bollente, la soffice poltiglia finisce in un colabrodo, ricavato da un cestello di lavatrice, perché perda il liquido in eccesso. Ad attendere la massa fumante è la macchina trituratrice, che separa la salsa dagli sfogli. Non resta che la fase dell’imbottigliamento in vasetti di vetro.

Il pane e le rose

Ci spostiamo a “Bread and Roses”. Quando siamo entrati per la prima volta a Bari, nella villa Capriati, il nome di quello spazio di mutuo soccorso evoca a tutti lo sciopero dei lavoratori dell’industria tessile di Lawrence (Massachusetts), per la maggior parte donne. Non si accontentavano solo di esistere, di sopravvivere ma rivendicavano con lo slogan coniato il “diritto alla vita, al sole, alla musica e all’arte”. Questo è il senso del messaggio: “l’operaia deve avere il pane, ma deve anche potersi permettere le rose”.

Bread and Roses è un’osteria popolare autogestita nota per i suoi cibi genuini prodotti da mani, sentimenti e pensieri convintamente refrattari all’uso di pericolosi pesticidi e per le bottiglie sulle cui etichette “Salsa a… sfruttamento zero”. Qui l’autocertificazione partecipata offre ottime garanzie. “Per noi è importante che le piante siano autoctone, perché resistano meglio agli agenti atmosferici e all’attacco di muffe e insetti – racconta Manlio –. La produttività non è l’obiettivo primario, al primo posto mettiamo la genuinità, il sapore e la digeribilità”. Al delimitare il campo di pomodori, provvedono vasconi di plastica bianca dai quali si dipartono neri tubicini adagiati sul terreno che hanno potuto dissetare a fatica, con irrigazione a goccia, le pianticelle. “Qualche anno fa – aggiunge Manlio – il suolo eminentemente roccioso, coperto da una minuscola cotica agraria, è stato sottoposto a superficiali lavori di scasso, non a caso sono ancora tante le pietre disseminate. Poi, è stato lasciato incolto, a maggese, perché recuperasse fertilità, e si sviluppasse humus. Non sono andati minimamente sprecati i rifiuti organici della masseria che hanno provveduto a potenziarne la fecondità”.

Quest’anno la produzione è stata carente, per questo sono stati costretti a rivolgersi per l’approvvigionamento di materia prima alla Cooperativa Sociale “Siloe”, formata da ex tossicodipendenti o ex detenuti guidati da un sacerdote. Anche loro, che operano a Torre a mare, si rifanno ai principi ed ai criteri dell’agroecologia.

Aggiunge Gianni: “C’è stato, un grosso lavoro di programmazione partecipata che ha corresponsabilizzato ciascuno di noi. Siamo tutti uguali, nessuno accampa privilegi, nessuno scompare furtivamente. A nessuno vengono conteggiate le volte in cui si reca al bagno. Tutti lavorano con la massima abnegazione, tenendo presente le motivazioni e i fini che sono alla base dell’operare”.

Mentre parla Gianni conficca stracci di tela iuta tra i vasetti stipati in tre enormi bidoni. Completata l’opera di sterilizzazione, le etichette sono orgogliose di aderire ad un alimento di qualità. Nei giorni seguenti si provvederà alla… vendita. Fuori mercato. L’anno scorso, l’intera produzione, per la forte richiesta, è andata esaurita entro il mese di ottobre.

”Noi di Solidaria siamo una famiglia allargata, una comunità animata da finalità mutualistiche – dice Gianni –, di cui ne beneficiano i soci, e finalità sociali che ricadono sulla collettività. Intendiamo realizzare, partendo dal basso un sistema sociale comunitario che abbia come capisaldi l’agroecologia, la solidarietà, l’assenza di concorrenza, la democrazia diretta partecipativa, l’autodeterminazione, l’abbattimento della disoccupazione, la creatività, il rispetto e la valorizzazione di noi stessi e degli altri”.

È tempo di tornare a casa: ora l’orizzonte ci appare meno tetro. Grazie, ragazzi.

*Fonte articolo: https://comune-info.net/2017/10/quei-pomodori-mercato/