Il cambiamento rivoluzionario che ha strappato il sipario

Mon, 16/06/2014 - 15:54
di
Roberto Ciccarelli e Lidia Cirillo (da micromega)*

«Per dialogare servono anche le orecchie, non basta la bocca. E invece quando ci dicono che dobbiamo dialogare mi sembra più che altro che ci invitino a tacere» ha risposto il drammaturgo-attore Fausto Paravidino all'attore Umberto Orsini che nella conferenza di stagione all'Eliseo di Roma ha lanciato un appello al sindaco di Roma Ignazio Marino per trovare una soluzione al teatro Valle occupato il 14 giugno di tre anni fa.

La scena e il retropalco

Il botta e risposta significativo perché rivela la rottura politica e culturale che l'occupazione del teatro più antico di Roma ha creato anche nel mondo dello spettacolo. Orsini, infatti, non vede, o non è interessato, alla trasformazione materiale del Valle in una nuova istituzione dove la formazione delle maestranze e la creazione di drammaturgie contemporanee sono accompagnate dall’istituzione di un organo di autogoverno dove i lavoratori dello spettacolo cooperano insieme ai cittadini.
Orsini rivendica il «teatro di giro» che al Valle ha portato autori come Carlo Cecchi o Glauco Mauri. Paravidino parla del «contemporaneo», in particolare dei laboratori drammaturgici «rabbia» e «crisi» o della produzione dello spettacolo «Il macello di Giobbe» che presto vedrà la luce al Valle. Il primo vede solo la scena. Il secondo considera anche il retropalco. Non che le due strade siano inconciliabili, ma questa polemica dimostra come il Valle abbia prodotto un conflitto culturale di livello pari all'ambizione politico-giuridica della proposta di fondazione ispirata ai «beni comuni», la cui personalità giuridica non è stata tuttavia riconosciuta dal prefetto di Roma.
Fino ad oggi l'amministrazione comunale non è stata all'altezza di un'esperienza che ha messo consapevolmente in crisi la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico a favore della giurisprudenza dei beni comuni e degli usi civici. Le dimissioni da assessore alla cultura di Flavia Barca, che aveva avviato un percorso di ascolto finalizzato alla scrittura di una memoria di giunta, hanno vanificato un primo, timidissimo, tentativo di affrontare la questione.

La lotta di classe

Questo «dialogo tra sordi» è in realtà il primo tempo di un conflitto più ampio che può essere definito come una «lotta di classe». L’espressione è stata usata da Lidia Cirillo, autrice di Lotta di classe sul palcoscenico (Alegre, pp.125, euro 12) che contiene interviste alla rete dei lavoratori dello spettacolo che hanno occupato il Valle, Macao a Milano, L'Asilo Filangieri a Napoli e il Sale a Venezia.
Il concetto di «classe» serve a definire il contenuto della lotta degli artisti che, dopo gli intermittenti francesi, hanno scoperto la loro identità di lavoratori rivendicando il diritto al reddito, al welfare e alla formazione. E tuttavia non stiamo parlando di un raggruppamento lavorativo omogeneo come la classe operaia, ma di una costellazione di operosi attivisti non identificabili nell'esecuzione di una mansione esclusiva.
Al Valle, come negli altri teatri o atelier, ci si sente parte di una forza lavoro intermittente, nomade e precaria composta da milioni di persone. Ciò che differenzia queste esperienze dal «precariato» organizzato è la consapevolezza di possedere una molteplicità di identità professionali e culturali che si esprimono nel lavoro cognitivo e in quello materiale. Chi si riconosce in tale condizione dimostra una «coscienza di classe» e si distingue da chi si percepisce solo come «autore».
Questi comportamenti sono più diffusi di quanto si creda e hanno trovato nei teatri la possibilità di uscire allo scoperto definendo regole, reti e discorsi. Nelle interviste gli attivisti non si considerano avanguardie politiche o artistiche e, come dicono gli attivisti del Sale, non sentono di condurre una battaglia solo sindacale. Vogliono invece creare nuove istituzioni per rispondere ai bisogni di una composizione sociale che gli attivisti di Macao definiscono «quinto stato». Questa «lotta di classe» non è dunque solo economica, ma anche culturale, politica e giuridica. Forte è la consapevolezza che si sta lottando per qualcosa che la nostra generazione non riuscirà forse a vedere. In compenso, precisano gli attivisti napoletani dell'Asilo, oggi è possibile sperimentare i primi risultati di una trasformazione di lungo periodo.

Il sipario strappato

Non conosciamo dove porta questa strada, sappiamo però quando il viaggio è iniziato. Dopo una lunga gestazione che risale ai primi anni della rivoluzione francese, l'artista-attore-tecnico dello spettacolo si sente un cittadino e vuole essere agente di un processo rivoluzionario. Per questo inventa nuove istituzioni e teatri al servizio di un potere comune.
Come ad esempio il teatro proletario dei bambini creato dall'attrice e regista lituana Asja Lacis, una delle protagoniste del teatro politico in Germania e in Unione Sovietica negli anni Venti e Trenta. Casi non isolati che, anzi, hanno continuato a moltiplicarsi dagli anni Cinquanta in poi, quando sono nati i gruppi che hanno rivoluzionato i linguaggi e le prassi del teatro contemporaneo.
Oppure l'Odin Teatret di Eugenio Barba. È un teatro che non ha bisogno di prime sensazionali, talvolta emergono registi condottieri ma che negano il proprio ruolo e rifiutano di combattere sulla scena brillanti battaglie contro i loro fantasmi. Gli stessi attori rifiutano le posture rutilanti e sperimentano quella che Walter Benjamin ha definito un'“atteggiamento operante”.
Il filosofo tedesco adottò questa definizione in un saggio del 1934. Parlò dello scrittore Sergej Tretjakov, che svolse in una comune agricola sovietica un'attività di pedagogia, di comunicazione e di espressione per liberare le energie letterarie del suo presente. Tretjakov non svolgeva un'attività da giornalista o da propagandista, quella che oggi chiameremmo di “animatore culturale”, “formatore” o “militanza”. Egli si è dedicò alla creazione materiale e ideale di un mondo nuovo.

Il mondo nuovo

Questa tensione tra arte e attivismo politico è riemersa al teatro Valle, e in tutte le occupazioni dell'ultimo decennio. Impossibile non vedere la stretta continuità tra questi eventi e il dibattito più che ventennale nelle arti visive, performative, nelle più avanzate riflessioni sugli spazi espositivi o nell'architettura sul tema della rigenerazione del patrimonio immobiliare.
Sul terreno immediatamente politico, questa tensione anima le lotte degli “intermittenti” francesi dalla metà degli anni Novanta. Ancora in questi giorni il movimento è tornato a occupare, a bloccare festival e spettacoli in tutto il paese. Un livello di mobilitazione mai visto in Francia contro un provvedimento con il quale il governo socialista intende precarizzare il settore, così come sta facendo in tutti gli ambiti del lavoro indipendente e non tutelato. Da parte sua il movimento vuole mettere fine alle differenziazioni in base a reddito e contratto per accedere ai diritti sociali.
“Noi combattiamo per tutti” ripetono gli intermittenti francesi e molti si riconoscono nello slogan. Ciò che conta in questi movimenti non è la “classe in sé”, l'idea che i precari lottino per la propria categoria, ma l'idea che la lotta per nuove istituzioni (un teatro, il Welfare, il reddito di base o di cittadinanza) sia utile per tutta la società.
Questo è il senso dell'”atteggiamento operante” riscontrato da Benjamin negli artisti del primo Novecento. I loro eredi non intendono creare un nuovo stile scenico, letterario o artistico. Mai dire mai, è chiaro, ma oggi l'urgenza è tutt'altra.
Gli artisti sono interessanti perché spesso comprendono la necessità della sperimentazione. Senza rete, con coraggio e verità. Mai come oggi questo atteggiamento può tornare utile a chi artista non è. Anche in Italia ci sono molte persone che vogliono creare un mondo nuovo. Quello che già vivono nella loro vita.

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Come vivere nelle difficoltà del presente

di Lidia Cirillo, da "Lotta di classe sul palcoscenico" (Alegre)

Le logiche con cui si sono mosse le occupazioni riflettono questo stato di cose. Nel senso che sono l’espressione di un tentativo intelligente di utilizzare forme di organizzazione e di lotta capaci di aderire alla realtà e nei limiti del possibile di superarla. Da questo punto di vista l’autorganizzazione si dimostra la modalità più adeguata sia al contesto sia alle figure sociali coinvolte ed è l’espressione di fenomeni contraddittori, di cui è difficile dire quale sia quello destinato a prevalere. È certamente la reazione alla carenza di sponde politiche e sindacali e a un venir meno di dinamiche centripete, che costringe ogni lotta a contare prima di tutto su se stessa e a imparare a nuotare per non annegare. Ma non è solo questa la ragione. Un’inedita capacità di autorganizzazione è l’altra faccia della frammentazione e delle sconnessioni del corpo sociale. Si tratta di una capacità non universale e che riguarda alcuni settori e non altri, ma innegabile e conseguenza logica dell’impoverimento dell’ex-piccola borghesia intellettualizzata, delle maggiori quantità di conoscenze di cui si serve il profitto e dell’ampliarsi delle possibilità di comunicazione.
Non c’è alcun bisogno di condividere le tesi sul cognitariato o di idealizzare il web per fare questa semplice constatazione.

Anche l’occupazione è una risposta funzionale alle necessità. Replica pratiche che hanno una lunga storia alle spalle, come ricorda una delle interviste: occupazioni di fabbriche, di terre, di scuole e di università; occupazioni di piazze, di sedi istituzionali, di spazi pubblici e privati abbandonati. Quelle di cui qui si parla si collegano però a una storia più recente perché rappresentano non solo una forma di lotta ma la ricerca di un luogo stabile in cui possano ritrovarsi le figure sociali, la cui attività lavorativa è priva di luoghi di aggregazione. Si può obiettare, come è stato già fatto, che il rischio di dispersione a cui restano comunque esposti rende di fatto queste figure marginali in un conflitto in cui contano gli spostamenti di grandi masse, possibile solo a partire dai luoghi in cui l’organizzazione stessa dell’attività lavorativa produce fenomeni di concentrazione, come le grandi sedi universitarie o determinati luoghi di lavoro.

L’osservazione, in parte anche giusta, rimuove però un piccolo particolare: le figure in questione sono in gran parte giovani, sia pure in un senso assai lato del termine, e giovani non di rado con alti livelli di abilità e conoscenze. Rappresentano quindi la parte di società in genere più coinvolta nei movimenti e nei conflitti e in grado di indirizzarli verso orizzonti di liberazione, evitando che vengano scagliati contro capri espiatori o contro falsi bersagli. È interessante poi la relazione tra sindacale e politico che si è creata nel corso della vicenda delle occupazioni. Gli abitanti di Macao, dell’Asilo, del Valle e del Sale precisano di lottare per se stessi e si ingegnano davvero in tutti i modi perché la scelta di un mestiere non coincida con l’emarginazione sociale. Il legame stretto con una condizione di esistenza ha garantito finora un potenziale di partecipazione che si conferma ogni volta nelle iniziative migliori.

L’aspetto rivendicativo non si è trasformato in una piattaforma di obiettivi, anche se alcuni circolano nelle discussioni, per esempio il “reddito sociale di cittadinanza” o una formazione che dovrebbe essere riconosciuta, equiparata al resto dell’istruzione e permanente. Ma anche se di questi obiettivi si discute e si elaborano proposte di legge, non c’è stata finora alcuna chiamata alla mobilitazione e il fare si concentra su altro, forse per un realistico scetticismo sugli eventuali interlocutori istituzionali e sulle proprie forze. «Chiedere a chi? Rivendicare da chi?» è un’obiezione fatta più volte nelle discussioni che hanno preparato le interviste. Tuttavia una rivendicazione forte ha finito con l’emergere ed è la più logica, anche perché su questo terreno un margine di trattativa con i poteri locali esiste.

Si tratta della richiesta di un riconoscimento di legittimità delle occupazioni, perché la gestione di un luogo da abitare insieme è appunto condizione indispensabile per continuare a esistere. L’Asilo si è ispirato a una interpretazione estensiva dell’antica istituzione degli usi civici e dell’articolo 43 della Costituzione, che consentono l’uso collettivo di alcuni beni. Con un parziale successo perché la giunta De Magistris ha approvato nel maggio del 2012 una delibera che riconosce il ruolo sperimentale di una comunità di riferimento nella gestione dell’Asilo. Alla fine del 2012 l’amministrazione di centrosinistra ha concesso temporaneamente lo spazio del Sale fino al 2020. In un caso e nell’altro, per ragioni che le interviste spiegano, si tratta di conquiste precarie, che rappresentano comunque l’effetto di una presenza che non è stato possibile ignorare. Macao aveva invece scritto una diffida nei confronti di polizia e magistratura, con l’aiuto di costituzionalisti e in base agli articoli 3, 9 e 43 della Costituzione, che non ha impedito lo sgombero di Torre Galfa, il grattacielo occupato dal 5 al 15 maggio 2012. E il Valle ha creato una fondazione, che non è stata per ora riconosciuta.

Le occupazioni si sono poi assunte compiti politici, in genere non per esigenze ideologiche ma per dare forza maggiore alla lotta. Hanno individuato nella frammentazione un limite, non solo coordinandosi tra loro ma stabilendo relazioni con un gran numero di settori sociali, movimenti, reti anche oltre i confini nazionali. Hanno rivolto critiche puntuali alle logiche che hanno guidato lo sviluppo e l’organizzazione delle città. Si sono rivolti alla gente dei territori circostanti con preoccupazioni e linguaggi che superano sia i soliloqui di molte espressioni dell’antagonismo, sia l’isolamento della sinistra radicale incastrata in forme organizzative, culture e simboli destinati a riprodurre la sconnessione tra progetti di liberazione e resistenze del corpo sociale. Hanno adottato la pratica dell’orizzontalità per l’esigenza di coinvolgere il maggior numero di persone possibile e di non creare divisioni, ma in genere in maniera non acritica. Non si può inoltre che apprezzare l’attenzione delle diverse culture politiche, che nelle occupazioni convivono, a non fare della diversità una ragione di divisione e a confrontarsi prima di tutto sui bisogni di una comune condizione e di una comune lotta.

Non si tratta di idealizzare l’oggetto di una ricerca, come accade talvolta a chi cerca di comprendere le intrinseche ragioni di un fenomeno. I limiti di forza strutturale e numerica, le cicatrici delle vicende politiche del Novecento che impediscono di recuperarne le lezioni e la crisi politica espongono le occupazioni a rischi anche gravi. Gli sgomberi e la dispersione, il ripiegamento corporativo o salti politici mal calcolati che si risolvono quindi in ghettizzazione e in isolamento. Si tratta solo di apprendere una lezione, che ciascuno/a può poi interpretare a modo proprio, perché esistono esperimenti che hanno un obiettivo valore, oltre a quello che gli viene attribuito da chi li pratica.

Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/teatro-valle-un-bene-comune-c...