Siria, la rivoluzione che non abbiamo voluto capire

Fri, 06/10/2017 - 15:03
di
Piero Maestri

Quelle/i di voi che in questi anni hanno partecipato a qualche dibattito sulla guerra in Siria, certamente hanno avuto modo di ascoltare alcune domande – o meglio, affermazioni fatte con discreta sicurezza – riguardo verità inconfutabili di quella stessa guerra.
E così avrete sentito parlare della famoso foto che ritrarrebbe il senatore Usa McCain a colloquio con il futuro califfo al Baghdadi; oppure vi avranno citato, a memoria, la frase di Hillary Clinton secondo la quale “Isis lo abbiamo creato noi”; e certamente non avrete evitato il racconto delle caratteristiche di laicità, di indipendenza e di economia fuori dalla globalizzazione imperialista del governo di Bashar el Asad – fino ad arrivare, in tempi più recenti, alla sua rivalutazione come “il meno peggio” di fronte ai pericoli islamisti (meglio, fascio-islamisti).

Il nuovo libro di Lorenzo Declich - Siria, la rivoluzione rimossa, Edizioni Alegre – ha la capacità non tanto e non solo di ricostruire da dove nascano queste analisi interessate o vere e proprie bufale – e quindi smentirle – quanto quello di collocare l'interra vicenda del tentativo rivoluzionario in Siria nelle sue corrette dimensioni sociali, politiche e regionali.
Una capacità che proviene dalla sua scelta partigiana: non un esercizio di presunta neutralità, ma la volontà di ricostruire il senso, le ragioni, i comportamenti delle donne e degli uomini siriane/i che hanno provato a sovvertire quello che fino a quel momento sembrava impossibile.
Come scrive Gerolamo De Michele nella sua bella prefazione (che parte tra l'altro proprio della famosa foto di Mc Cain e il presunto a Baghdadi) “«Riattizzare nel passato la scintilla della speranza» è un dono prezioso che possiede quello storico – che si assume, come fa Lorenzo Declich in questo e altri suoi lavori, il compito di spazzolare contropelo la storia – che è consapevole del fatto che la cancellazione del passato è ben più che una possibilità: questo dono rende quello storico antagonista al corteo trionfale dei dominatori.”

Il punto di partenza, che è allo stesso tempo il senso profondo di tutta la ricerca di Declich, è la domanda – che dovremmo porci tutte/i noi di fronte a quanto avvenuto in Siria dal 2011 (e anche prima) – che intitola un capitolo dell'introduzione: “rivoluzione si, rivoluzione no, quale rivoluzione”.
Perché molto inchiostro è stato utilizzato per spiegarci che quella siriana non è stata una rivoluzione; che questa non è possibile senza un organizzazione rivoluzionaria che la guidi; che in Siria ci sarebbe stata semplicemente una rivolta, nemmeno troppo spontanea e sostanzialmente su base confessionale, che ha riguardato solo una minoranza della popolazione siriana..... e così via.
Il merito di questo libro è quello di raccontare quale invece sia stata l'organizzazione popolare delle rivolte, che rendono possibile parlare di rivoluzione.
Perché in Siria, in un contesto segnato quasi immediatamente dalla feroce repressione del regime di Bashar el Asad, le proteste e le mobilitazioni nelle diverse città iniziate nel febbraio/marzo del 2011 hanno dovuto inventarsi spazi di autorganizzazione, esperimenti di istituzioni alternative, generosi e importanti relazioni dal basso che potessero sostenere la rivolta e allo stesso tempo provare a costruire relazioni nuove, democratiche e non basate su divisioni confessionali. Una “ridefinizione del possibile”, secondo le parole di Bodour Hassan.

“... occorre sottolineare che di fronte alla repressione, e alla manifesta assenza di una reale volontà di dialogo, il dissenso in Siria prima di tutto si organizza, si allarga e si struttura: la rivolta diventa rivoluzione” (pag. 199).

Come ha scritto Omar Aziz, citato a pagina 200 (e al quale l'autore ha dedicato con il Collettivo Idrisi il bel libro Prima che parli il fucile, edizioni Mesogea), “Nel corso della fase passata le continue manifestazioni hanno spezzato il dominio assoluto che il potere esercita sullo spazio. Il controllo del potere sulla geografia ha iniziato ora a essere relativo, la sua portata varia da una zona all’altra, da un giorno all’altro e persino da un’ora a un’altra. Nel corso della fase precedente i siriani hanno cambiato il cammino delle loro comunità così come hanno cambiato il loro stesso essere. Hanno così fatto mostra di un coraggio senza precedenti e di un’attitudine a cooperare nelle condizioni più difficili. [...]”

Questa “rivoluzione al rallentatore” è passata da diverse fasi, che ci conducono alla terribile situazione attuale – dopo centinaia di migliaia di morti, scomparse/i, ferite/i, torturate/i; milioni di sfollate/i e città rase al suolo.
Queste fasi sono rappresentate nei titoli stessi dei capitoli: il regime, per provare a smontare la narrazione del “come si stava bene in Siria prima del 2011”; la rivolta, che racconta le tante manifestazioni di dissenso, protesta, dignità che venivano dalle piazze dell'intera Siria; la repressione, scattata fin dalle prime manifestazioni di protesta e che non ha nulla di “irrazionale” (“perché mai il governo siriano dovrebbe colpire il suo stesso popolo?”), mentre è stata praticata con intelligenza e scientificità per alzare il livello di violenza rendendo impossibile qualsiasi soluzione negoziata e facendo terra bruciata (letteralmente) dei territori liberati; la rivoluzione propriamente detta; la guerra, voluta e praticata dal regime ma nella quale si inseriscono molti livelli differenti, regionali e internazionali – le tante guerre per procura e gli interventi diretti di potenze grandi e medie.

Naturalmente il capitolo centrale è dedicato a cosa abbia voluto dire “rivoluzione” nel contesto siriano in questi sei anni, raccontando la nascita, lo sviluppo e i limiti delle strutture di autorganizzazione popolare (i coordinamenti locali), il sorgere di consigli di amministrazione locale, le difficili relazioni con le precedenti reti di dissidenti e opposizione, in patria e all'estero.
Questi organismi vivi, esperienze di partecipazione dal basso, sono stati protagonisti di un dibattito anche sulla scelta di armarsi da parte delle opposizioni, all'inizio per autodifesa e protezione. E sono state le prime vittime della repressione e poi della militarizzazione del conflitto.
Particolarmente interessante e importante il contributo ad una comunicazione dal basso e alla costruzione di mezzi di informazione alternativi – che non sempre sono sfuggiti alla tentazione dell'esagerazione nel dare le notizie e nemmeno nella diffusione di falsi (bene descritti e contestualizzati da Declich) – che sono stati uno strumento fondamentale di attivismo e di attivazione di una generazione nuova, fino a quel momento tenuta ai margini della politica e della mobilitazione sociale.

Naturalmente il libro non cerca di fare previsioni sulla situazione nei prossimi mesi e anni e rifugge giustamente da complesse analisi geo-strategiche, per concentrare la sua attenzione sulla popolazione siriana e sulle conseguenza che su di essa sta producendo questa guerra.
Interessante però la parte che descrive l'idea e la pratica della “ricostruzione nella distruzione”, con la quale il regime di Bashar el Asad e i suoi alleati e protettori stanno pianificando e praticando una vera e propria “guerra ai poveri”: Andando ancora più a fondo troviamo un appiglio legislativo già in ruolo dal settembre del 2012: il “decreto 66”, emanato allo scopo di «riqualificare aree dove si trovano alloggi non autorizzati e insediamenti informali», cioè quelle periferie destrutturate nelle quali... va a concentrarsi l’immigrazione interna. Una vera e propria “guerra ai poveri”... contro i quali si abbatte la pratica genocida dei bombardamenti indiscriminati...”.
Una politica che viene sostanziata dagli spostamenti di popolazione – in particolare in seguito agli “accordi di tregua” sponsorizzati dalle potenze in gioco nel paese – e che ha come obiettivo la difesa di una “Siria utile” dove il regime e il potere mafioso della famiglia Asad possa continuare a sopravvivere, per quanto subordinato alle esigenze politico militare di Russia e Iran.

Il libro non vuole e non potrebbe spingersi a dare indicazioni sul “che fare” di fronte ad una guerra che continua, e continua a colpire la popolazione civile, alla ricostruzione del potere del regime, all'occupazione politica, economica e militare di Russia e Iran (con qualche altra presenza di potenze regionali e Usa).
Ma è profondo e necessario lo sforzo di ricostruire la memoria e la realtà di un tentativo rivoluzionario che ancora lascia in campo centinaia di organizzazioni della società civile (pag. 314) e che può e deve spingerci a ripensare la nostra solidarietà e partecipazione internazionalista (se questa parola ha ancora un senso per qualcuna/o).

In questo senso ci permettiamo solamente di aggiungere due considerazioni.
In primo luogo questo testo ci consegna la possibilità e la necessità di una ricerca militante sulle forme dell'autorganizzazione popolare che possano rendere sostenibile una rivoluzione e costituire una reale alternativa – pur in un contesto di feroce repressione e militarizzazione. Una ricerca che non ha finalità accademiche, ma di relazione e vicinanza con questa rivoluzione, vicinanza che è stata quasi completamente assente in questi anni.
In secondo luogo, ed è conseguente al primo, dobbiamo fare tutti gli sforzi di cui siamo capaci per aiutare, supportare e sostenere queste realtà ancora esistenti, e insieme alla mobilitazione per la pace e la libertà del popolo siriano saper riconoscere in queste realtà il futuro di una Siria libera. Perché le cause e le ragioni che hanno portato alle rivolte e poi al tentativo rivoluzionario del 2011 sono ancora tutte presenti e e lo saranno nel prossimo futuro.