Perché la Brexit non fa più paura

Mon, 22/08/2016 - 16:29
di
Marco Bertorello (da il manifesto)

Brexit avrebbe dovuto essere un nuovo detonatore di crisi per l’Europa e forse per l’intera economia, almeno così era considerata e temuta durante la campagna referendaria. Ora, a poco meno di due mesi, l’inatteso responso popolare sembra non essere così destabilizzante. Cosa sta accadendo per normalizzare il quadro su scala internazionale nonostante Brexit? La risposta risiede nell’estensione del "Qe globale", cioè tutto ciò che va nella direzione di politiche ultra accomodanti sul lato dell’offerta di moneta.

Il Qe della Bce, i continui rimandi della Fed sull’aumento dei tassi, l’azione radicale della banca giapponese, i tassi negativi, o quasi, a tutte le latitudini e, infine, il ritorno in campo della banca centrale britannica, con l’abbassamento dei tassi e l’annuncio di una ripartenza del proprio Qe. Insomma a partire dal Regno Unito si fronteggiano i rischi del Brexit con il protagonismo della banca centrale. Così il mostro verrebbe ricondotto nella gabbia, facendo tornare a sonni tranquilli gli establishment globali. Quel che non si diceva ai tempi del referendum, e non si dice tuttora, è che i timori sono sempre prevalentemente di natura finanziaria. Questa è la sfera che preoccupa maggiormente. Ciò che in definitiva non costituisce un particolare dilemma sono i problemi che risiedono in quella che si potrebbe definire economia della realtà (diversa da quell’economia reale che ormai vive in simbiosi con quella finanziaria), quella cioè che coinvolge profondamente la gran parte della popolazione e che conduce progressivamente verso l’impoverimento crescenti strati sociali. Sul versante finanziario, dunque, i rischi sembrano già stati metabolizzati dai maitre a penser degli apparati dominanti. L’economia della realtà sembra non impensierire nessuno. Non si parla più del rischio disoccupazione o dell’aumento dell’inflazione in Gran Bretagna oppure delle ricadute negli scambi internazionali. Ma la crisi, quella reale, non molla la presa, i dati restano al di sotto delle attese, permane uno stato di stallo proprio sui fondamentali.

Il secondo trimestre del 2016 consegna un’Europa con crescita anemica, Francia e Italia non crescono neppure, i debiti pubblici continuano ad aumentare, seppur meno che nel recente passato, e la deflazione attanaglia molte economie continentali. Non va meglio nel resto del mondo. Stagnazione in Giappone, difficoltà in gran parte degli emergenti. Il Fmi prevede una riduzione della crescita globale. Il paradosso è costituito, poi, dal fatto che la parziale crescita negli Usa, dove aumentano Pil e occupati, seppur non il tasso di occupazione, manda nel panico le borse. La ripresa negli Usa, seppur al di sotto delle necessità, consentirebbe di procedere verso la normalizzazione della politica monetaria, non fosse altro che per avere una riserva di manovra in occasione di future crisi o difficoltà. Perciò, nonostante quest’anno fossero stati previsti ben quattro rialzi dei tassi d’interesse, recentemente è stato annunciato soltanto il primo, forse per settembre. Il solo annuncio della Fed ha fatto scendere, negli ultimi giorni, la borsa americana e a ruota tutte le altre, mettendo nuovamente in luce le difficoltà del settore bancario europeo e in particolare di quello italiano, ma soprattutto l’instabilità dell’intero settore finanziario. Un aumento del dollaro significherebbe anche un aumento del costo dei debiti dei paesi emergenti che tanto si sono indebitati in tempi di Qe globale, contribuendo così a rallentare ulteriormente le prospettive mondiali. Alla Brexit segue repentinamente il problema (sic!) della crescita americana.

Una fase, dunque, in cui i livelli di interdipendenza e di crescita fondata sull’eccesso di debito confermano l’enorme instabilità. Non si può sapere quanto secolare, ma di stagnazione per ora possiamo continuare a parlare.