Le difficoltà reali e la retorica del cambiamento

Tue, 06/11/2018 - 13:38
di
Marco Bertorello*

Sembra trascorsa un’epoca dai tempi in cui Larry Summers, illustre economista mainstream ed ex segretario del Tesoro statunitense, definì la stagnazione addirittura «secolare».

È bastato qualche anno di modesta crescita per derubricare questa prospettiva dal confronto, confermando quanto sia decisivo creare fiducia per lubrificare i meccanismi dell’attuale mercato totale o, perlomeno, per arginarne i difetti. Oggi però il caso italiano, in qualche misura, rischia di farci tornare a riflettere sul tema per ragioni dirette e indirette. Riguardo alle prime, questa settimana la stima preliminare dell’Istat annuncia che la crescita economica italiana si è fermata nel terzo trimestre di quest’anno, ipotizzando un aumento del Pil per il 2018 che dal 1,2% prospettato scivola verso lo 0,8%.

La Banca d’Italia, invece, stima possibile l’1% per il 2018 e una diminuzione nel 2019. Il rischio, comunque, è quello di tornare a grandezze da prefisso telefonico. Ma questo non è stato il primo dato in controtendenza negativa: già a luglio l’indice della produzione industriale si era attestato a -1,7% rispetto al medesimo mese del 2017.

Un grave segno negativo che non si verificava dall’estate del 2016 e che significa una riduzione delle quantità di beni e servizi prodotti da aziende italiane. A incidere sulle prospettive negative incidono le dinamiche globali che si riflettono inevitabilmente nell’economia italiana.

Ecco allora le ragioni indirette. Da tempo il Fmi ipotizza che né nei paesi avanzati né in quelli emergenti sarà replicabile la crescita antecedente la crisi, tutti ridurranno i ritmi. Le ipotesi sono molteplici, dal nuovo ruolo della tecnologia, alla saturazione dei mercati, passando per l’esaurimento dei guadagni di produttività. L’economista eterodosso Michel Husson parla di «capitalismo senza fiato». Le preoccupazioni non mancano neppure nel pensiero dominante. Nelle ultime settimane l’Economist ha dedicato un paio di copertine per sottolineare quanto sarà dolorosa la prossima recessione oppure quanto sarà pericolosa la rivalità commerciale tra Usa e Cina.

L’illustre rivista britannica sottolinea come solo un anno fa l’economia sembrava avviata verso una crescita sincronizzata a livello planetario, mentre ora la finanza torna a faticare nonostante un sistema bancario più resiliente.

Le previsioni per il 2019 sono di ripiegamento e l’arma delle politiche monetarie delle banche centrali (con i loro bilanci dilatati) rischia di essere spuntata. Insomma c’è una certa preoccupazione per il futuro. Le debolezze del sistema economico a livello sovranazionale complicano quelle nostrane.

Questa preoccupazione sul contesto generale risulta ancor più pesante se rapportata al debito sovrano italiano, uno dei debiti più elevati al mondo che, come un totem, in questi anni è stato giudicato intoccabile, ma al contempo è diventato irrimediabilmente irriducibile, proprio a causa delle politiche fondate sull’austerità. Questa impostazione politica ed economica del debito, condivisa sostanzialmente da tutti i governi, compreso l’attuale, preclude qualsiasi ipotesi di ripartenza.

A un pretestuoso accanimento contro il governo del cosiddetto cambiamento occorrerebbe contrapporre la consapevolezza che l’Italia e le sue croniche debolezze fanno parte a pieno titolo dell’instabilità e fragilità dell’economia dominante. Ce n’è abbastanza per leggere le difficoltà reali dell’economia di mercato e non essere in balia di un artificiale scontro politico tra sostenitori e avversari del governo, un fenomeno che in entrambe le sue espressioni rimuove o banalizza i problemi ben più profondi di cui ci dovremmo preoccupare. Non sarà sufficiente la retorica del cambiamento di facciata, magari a tinte neo-nazionaliste, né il ritorno al vecchio armamentario ideologico che ci ha condotto fin qui per uscire dalla tendenziale stagnazione che caratterizza questa fase.

*Fonte articolo: https://ilmanifesto.it/le-difficolta-reali-e-la-retorica-del-cambiamento/