Un Paese in trasformazione – report da piazza Tahrir occupata a Baghdad

Thu, 19/12/2019 - 12:55
di
Ansar Jasim, Schluwa Sama*

Piazza Tahrir è l'epicentro del movimento che nelle ultime settimane ha richiesto a gran voce le dimissioni del governo e del primo ministro, mettendo in discussione l'intero sistema politico iracheno. Pubblichiamo un interessante report dal centro della mobilitazione, che approfondisce alcune questioni come l'autorganizzazione del movimento, la solidarietà tra gruppi e classi sociali diverse, la partecipazione delle donne, il disincanto verso la politica istituzionale, la richiesta di democrazia e giustizia sociale.

Per raggiungere piazza Tahrir, l’area centrale della protesta a Baghdad, percorriamo fino alla fine via Sa’adoun. È qui che il governo ha chiuso le strade con barriere in muratura, non un fenomeno strano a Baghdad. Scivoliamo negli interstizi del muro ed incontriamo un poliziotto disarmato. Qualche metro più avanti, troviamo il servizio d’ordine autorganizzato dei manifestanti. Controllano le nostre borse in cerca di armi o coltelli. Questo è il primo tipo di autorganizzazione che incontriamo a Tahrir. Appartengono al “comitato di sicurezza” e sono donne e uomini sparpagliati per tutta piazza Tahrir occupata (liberata). Nonostante l’atmosfera rivoluzionaria, ci sono anche provocatori che cercano di mescolarsi ai manifestanti.

Le attiviste che ci stanno perquisendo hanno fatto questo turno negli ultimi tre giorni e sono felici di essere le prime a dare il benvenuto ai manifestanti e ai sostenitori. Lasciando la zona dei controlli, ci avviamo lungo un tunnel costruito negli anni ’70 sotto piazza Tahrir, modificandone la forma. Oggi, il tunnel è stato trasformato in una galleria d’arte dagli artisti che fanno parte della rivoluzione in corso. Ogni giorno nuove performance artistiche hanno luogo in questo tunnel lungo almeno 100 metri, dando forma ed espressione alle rivendicazioni rivoluzionarie: dal ruolo delle donne a quello degli autisti Tuktuk divenuti simbolo della classe operaia, insieme a dipinti raffiguranti la storia Assiro-Sumera d’Iraq come elemento unificante. Rappresentato sulle pareti del tunnel, troviamo anche l’edificio di 14 piani occupato, il “Turkish restaurant”, che è diventato il simbolo dell’alto grado di autorganizzazione raggiunto dai manifestanti. C’è anche Nasb Al-Hurriya, “il monumento alla libertà”, che racconta la storia dell’oppressione degli iracheni durante il periodo feudale e coloniale, fino alla liberazione del 1958. Il tunnel, come tutti i posti occupati, è decorato di fiori. Di notte, è illuminato da candele in memoria dei caduti per la rivoluzione.

L’autorganizzazione è centrale. I manifestanti hanno organizzato anche il traffico stradale: ci sono due strade per gli autisti di Tuktuk e una strada pedonale. Nella piazza della liberazione troviamo dozzine di tende dove persone da differenti quartieri, attivisti di sinistra, delegazioni da varie città e regioni, sindacati di insegnanti, dottori e avvocati trovano spazio per organizzarsi. I partiti politici non sono visibili. Nelle tende troviamo equipaggiamento medico, caschi e acqua. Qui, le persone cucinano insieme, discutono e diffondono notizie dalla stazione radio locale. Nelle tende che si trovano nel parco dietro al monumento, vi sono mostre molto diverse tra loro. Una, curata da un fumettista, è accanto a quella su una moschea nonostante non ci sia quasi alcuna presenza di istituzioni religiose in piazza Tahrir.

Nel parco dietro al monumento troviamo anche dei negozi, che sono stati chiusi per anni e la spazzatura si era accumulata ovunque. I manifestanti hanno aggiustato i cavi della corrente, ripristinato le condutture dell’acqua e dipinto arte politica sulle pareti. Qui, incontriamo persone che non sono di Baghdad ma vengono da altre città, venuti in solidarietà coi manifestanti; dormono nei negozi, per ora. Non hanno molto, stanno qui per “Takatuf” con la piazza, un termine usato molto di frequente che significa solidarietà ad un livello paritario, spalla a spalla.

Il “Turkish restaurant”, costruito dal lato opposto rispetto al monumento alla liberazione, è abbandonato, com’è noto, dai tempi del bombardamento del 2003. Si trova vicino ad uno dei tre ponti occupati, Al-Jumhuriyah-Bridge, che conduce direttamente alla zona verde. L’occupazione del “Turkish restaurant” è rappresentativa del fallimento politico post invasione statunitense del 2003 e della corruzione di una classe politica settaria, che si nasconde nella zona verde. Questo è il sentimento comune tra i manifestanti, che Iqbal, uno degli attivisti, chiama coscienza di massa (wa’i jamahiri). All’inizio delle proteste in ottobre i cecchini si nascondevano nell’edificio, sparando sui manifestanti. È stato poi occupato per prevenire che i militari o le milizie lo utilizzassero ancora. L’occupazione dello stabile incarna l’intera protesta del movimento: l’edificio è stato ora ripulito, l’elettricità e internet connessi. Al di fuori è segnato da slogan politici, richieste dai manifestanti e appelli alle Nazioni Unite.
Su tutti i piani si trovano posti per dormire, tolette ricostruite e turni di sicurezza e pulizia per garantire una permanenza costante all’interno. Per i manifestanti non sono queste le problematiche principali. Alcuni attivisti spiegano: “Siamo riusciti a fare quello che il governo non è riuscito a fare in 15 anni”.
Alla sua terza pubblicazione, il giornale di piazza Tahrir “Tuktuk” scrive: “È questa generazione che costruisce la propria patria”. Tutti gli attivisti con cui parliamo sono convinti che questa sia una rivoluzione sociale: “Stiamo scardinando molte norme sociali, le stiamo reinventando”, spiega una manifestante.

Unità che combattono il popolo

La violenza di Stato ha preso varie forme: cecchini che volontariamente sparano ai manifestanti, gas lacrimogeni sparati ad altezza uomo, forze anti-rivolta, rispetto alle quali i manifestanti hanno ancora dubbi su chi vi fosse esattamente dietro. “Non sono militari, né polizia. Puoi vedere che c’è pure la polizia qui in piazza, disarmata. Ma non sappiamo chi c’è oltre il ponte. Non sappiamo nemmeno se si tratta di forze di Stato o forze paramilitari. Forse è l’Iran a sostenerli”, dice Maha, una studente di 26 anni in odontoiatria. Sostiene le proteste applicando le sue conoscenze mediche in ogni modo possibile, e facendo i turni nelle tende ambulatorio. Fare foto alle tende e al “Turkish restaurant” non è permesso, come anticipato da molte persone, perché in caso di fallimento del movimento gli occupanti corrono il rischio di essere perseguitati.

Ogni tanto ci sono alcuni infiltrati che compaiono in piazza, facendo foto ai manifestanti e minacciandoli. Per Haider questa è una delle ragioni per cui non lascia piazza Tahrir da metà ottobre. Per altri attivisti significa che in piazza Tahrir non possono più tornare. Saba Al Mahdawi, attiva nel team medico, e Mari Mohammed, che ha raccolto i fondi per gli autisti Tuktuk, sono scomparse dal momento in cui hanno lasciato la piazza. Saba è stata recentemente rilasciata, nonostante le circostanze del suo rapimento restino sconosciute.

La sicurezza in Tahrir è contingente e ambivalente. Rapimenti e molestie non sono una preoccupazione dei manifestanti. Spari improvvisi invece sì. Per questo l’organizzazione della sicurezza cambia da un momento all’altro. Quello che si può dire è che più persone sono in piazza, più tutti si sentono sicuri, come è stato chiaro martedì 12 novembre. Un gruppo di studenti donne, saltando scuola, stavano manifestando in piazza e questo ha ridotto la tensione accumulatasi la sera prima, quando hanno sparato ad alcuni manifestanti. Quest’ambivalenza e giustapposizione di scenari in piazza Tahrir è una costante. Nel pomeriggio, i manifestanti porteranno una bara tra la folla e dieci minuti dopo danzeranno per celebrare la loro rivoluzione.

“Irhal – Bro – Out!”

All’ingresso della piazza i Tuktuk danno il benvenuto alle persone con lo slogan arabo “Irhal” e quello curdo “Bro”, vale a dire “Out/Fuori”. Questi slogan in doppio idioma sono ovunque. Presso una tenda curdo-araba si viene invitati a prendere il tè. Ancora e ancora i manifestanti raccontano della grande solidarietà da parte della comunità Yezidi, che ha inviato soldi e portato cibo e acqua alla piazza. Anche se la loro presenza non è direttamente visibile, esprimono il loro supporto per il cambiamento che potrebbe portare a una nuova identità irachena.

“Questo è un movimento per tutti noi, la propria origine non gioca alcun ruolo qui, siamo tutti oppressi dalla stessa classe politica”, spiega un attivista. Ovunque sono affissi manifesti che bannano ogni genere di linguaggio settario in nome delle persone. Al contrario, le persone costruiscono riferimenti per unire diversi elementi in circoli storici o religiosi, giustapponendo simboli cristiani e musulmani.

Ciò che è anche dominante nella piazza occupata è la scrittura cuneiforme e le figure dell'eredità mesopotamica della regione. I manifestanti non si identificano, come precedentemente, con un’identità esclusivamente arabo-islamica; ma piuttosto ridefiniscono un’identità che celebra le differenze del paese. Ancora e ancora, ci vengono raccontate le diverse identità sociali delle persone presenti.

Da alcuni giorni ormai, anche clan e tribù si stanno unendo alla protesta. Una tribù sunnita da Fallujah, il territorio occidentale iracheno, sfila con un manifesto rappresentante Hussein, una figura religiosa importante per gli sciiti, sul quale è scritto: ‘Veniamo a Baghdad in supporto dei rivoluzionari’. I manifestanti lo considerano un’espressione simbolica contro il settarismo, invece che un simbolo del potere e della rilevanza delle tribù.

Celebrando la “classe logora”

“La classe logora” è come Ahmed, un autista di Tuktuk che ha fondato il sindacato degli autisti di Tuktuk, definisce sé stesso e i suoi colleghi. Il Tuktuk è un veicolo a tre ruote. Questa classe logora è divenuta il simbolo della rivoluzione stessa. Non solo sono rappresentati sui muri, in dipinti di eroiche figure, ma persino canzoni sono state scritte per spiegarne la storia. Nell’area occupata dai dimostranti, i Tuktuk vanno in giro salutati calorosamente dalle persone. Anche il giornale della rivoluzione, che ad oggi riporta notizie di tutte le attività della piazza, si chiama “Tuktuk”.

Gli autisti dei Tuktuk, prima della rivoluzione, erano socialmente marginalizzati e discriminati. Per Ahmed, questo è in parte dovuto al fatto che gli autisti sono in gran parte giovani e minorenni, il cui stile di guida ha portato a diversi incidenti. Allo stesso tempo, essi non hanno avuto alcuna altra scelta se non guidare il Tuktuk, visti gli elevatissimi tassi di disoccupazione e la povertà diffusa. Ahmed lavorava nel settore dell’edilizia. Dopo, ha cercato un altro lavoro ma non ce n’erano. Non ha potuto contare sul collocamento. Ha quindi chiesto un prestito e ha comprato un Tuktuk: “Lavoro 8 ore al giorno, principalmente a Sadr. Guadagno 15 dollari al giorno per mantenere mia moglie, due figli e me stesso. Pago 5 dollari al giorno per la benzina. Arriviamo a mala pena a fine mese”. Se ci fosse un altro modo per garantirsi uno stipendio, Ahmed vorrebbe smettere di guidare il Tuktuk.

In ogni caso, per ora, la sua posizione come autista del Tuktuk è divenuta importante per la rivoluzione, lo rende fiero del suo lavoro. “Quando la protesta è iniziata, come autisti dei Tuktuk abbiamo partecipato e l’abbiamo supportata. Principalmente abbiamo trasportato i manifestanti feriti. Le persone hanno iniziato a rispettarci e ad amarci”. Questo elevato riconoscimento sociale si è materializzato anche in tante donazioni da parte dei manifestanti stessi, soprattutto da parte di altre classi sociali. “Questa è solidarietà reale: il dottore prende il Tuktuk e l’autista del Tuktuk lo trasporta. Prima era inimmaginabile che un dottore prendesse un passaggio dal Tuktuk”. In ogni caso, questa non è solidarietà unidirezionale da parte delle classi sociali elevate nei confronti degli autisti. “Ci sono persone che semplicemente non hanno i soldi per venire qui dai propri quartieri. Noi li carichiamo gratuitamente per permettere a tutti di prendere parte a quello che accade qui”, spiega Ahmed.

Perché si è sviluppato questo tipo di solidarietà sociale a piazza Tahrir?

Le persone di piazza Tahrir sono unite nell’obiettivo politico di porre fine al sistema politico settario, ma condividono anche la frustrazione causata dal funzionamento del sistema corrotto e ineguale del proprio paese. C’è un sentimento generale che vede il sistema politico settario come non interessato al benessere della popolazione né alla dilagante disoccupazione che colpisce a diversi livelli, dagli autisti dei Tuktuk agli ingegneri.

Al contrario di Ahmed, Nabil sottolinea che effettivamente egli possiede tutte le cose materiali necessarie nella vita: una casa, una macchina e i soldi per sostenere sé stesso e la propria famiglia. Nonostante questo, occupa piazza Tahrir. È un dovere nazionale, dichiara. Nel 2012 Nabil ha lavorato come autista per una delle milizie di stanza a Baghdad. È stato il suo senso di giustizia a portarlo a lasciare quel lavoro per le milizie: “Ho visto come prendono i soldi dalle persone, e molte altre ingiustizie che non riuscivo a sopportare. Non conoscendo molti dei segreti delle milizie ho potuto lasciare il lavoro”. Non essendo totalmente dipendente dai 600 dollari che guadagnava, è stato relativamente facile lasciare il lavoro.

Nella sua tenda, Ahmed spiega che molti commercianti li supportano, dai quali riceve diversi beni e denaro. Per i commercianti, una specifica forma di frustrazione è una tassa illegale, la khawa, che devono pagare alle milizie affinché possano continuare a vendere i propri prodotti senza essere attaccati. Differenti classi sociali stanno soffrendo a causa dello stesso sistema politico, e tutte si incontrano nella piazza della liberazione dove discutono rivendicazioni politiche per porre fine a questo sistema settario. Ahmed descrive l’incontro tra diverse classi sociali come una solidarietà sociale vissuta:

“Vogliamo una vita degna: acqua, elettricità, sicurezza, educazione. Non vogliamo che siano altri a decidere per noi. Qui, nella piazza, anche se non conoscevo tutte queste persone prima, ho la sensazione che sono tutti miei amici. Vi è un’incredibile solidarietà tra i manifestanti, sia a piazza Tahrir che in altre aree in rivolta in Iraq”.

In estate non piove

Un ragazzo ci cammina al fianco, distribuendo volantini che dicono: “Sto uscendo per rivendicare i miei diritti e non ho intenzione di perdere”. Inizialmente eccitati dal volantino, veniamo messi in guardia da alcune persone, che ci spiegano come questi volantini appartengano a Muqtada Al-Sadr. Adil, che vive nella città di Sadr, ci spiega che Sadr sta cercando di costruire una presenza indiretta qui in piazza. Il quartiere di Adil è rinomato per la povertà dei suoi abitanti e per l’influenza di Sadr. In ogni caso, tutto sta cambiando, Sadr sta perdendo popolarità, specialmente tra i proprietari di negozi che gli devono pagare la khawa. Adil spiega che non gli verrà permesso di ottenere alcuna influenza qui in piazza: “Cerca di far circolare slogan e la sua gente si mescola ai manifestanti. Ma lo sappiamo tutti e siamo contrari alla sua presenza perché potrebbe danneggiarci”.

La posizione di Ahmed su Sadr è simile: “Queste proteste sono anche contro di lui perché ‘tutti loro, significa tutti loro’, e lui è uno di quei leader corrotti. Il tentativo di diffondere le sue idee non ha avuto successo. Ora tra i manifestanti c’è una consapevolezza maggiore del suo ruolo distruttivo”.

I manifestanti di piazza Tahrir non solo condannano Sadr come presenza distruttiva dello spirito delle proteste, ma hanno anche ribaltato i suoi tentativi di appropriarsi della narrativa rivoluzionaria, come possiamo osservare sotto al ponte di piazza Tahrir. Camminando lungo il sottopassaggio, dove veniamo salutati da giovani manifestanti di Nasiriya, siamo rimasti sbigottiti dai graffiti e dai loro messaggi politici. Uno di questi cita: “Piove in estate”. Ma non c’è pioggia nelle estati di Baghdad. Proprio a fianco di esso, un altro graffito cita “Alice a Baghdad”, riferendosi al Paese delle Meraviglie. Ridendo con noi dei graffiti, mentre facciamo qualche foto, uno dei manifestanti ci dice: “Dovreste mettere un hashtag #Sadr su entrambi – starebbe meglio a tutt’e due i graffiti”. Questo è il modo in cui i manifestanti ribaltano e mascherano la narrativa che Sadr usa come sostegno alla rivoluzione.

Suonare musica per celebrare la mia rivoluzione

A piazza Tahrir troviamo molti cartelli e segnali che vietano ogni tipo di molestia sulle donne. Conversando con alcune attiviste, viene sottolineato come, finora, non si è verificata alcuna molestia. “Questo è un cambiamento fondamentale”, spiega Iqbal. Di solito, le donne non avrebbero potuto camminare da queste parti di notte. Ora è diverso. Prima, avrebbero scelto anche di manifestare separatamente dagli uomini. Oggi manifestano insieme. Li unisce l’obiettivo comune di far cadere l’intero sistema politico. È questo il motivo per cui si rispettano. Significa anche che Iqbal non permette a nessuno di dirle come dovrebbe manifestare o meno. Ci spiega che alcune persone più conservatrici volevano proibirle di suonare la sua musica a causa dei martiri. “Ma mi sento sicura con la mia musica, qui, ed è importante per me poter celebrare la mia rivoluzione. Sono qui per reclamare i miei diritti”. Ogni giorno, dopo il lavoro, va a fare il turno, come lei stessa lo definisce, a piazza Tahrir. È un dovere, wajib. È anche il luogo dove può andare a farsi medicare una ferita alla gamba.

Musawa o uguaglianza, per Iqbal, significa anche socialismo, che per lei è uno dei principali obiettivi della rivoluzione. “Certamente, vogliamo il socialismo. Tutti lo chiedono. Forse non tutti lo chiamano con questo nome ma a chiunque si chieda vuole giustizia. Perché in questo paese, con tutte le sue riserve petrolifere, ci sono così tante persone povere? Ci sono alcune persone che improvvisamente hanno una casa, una macchina, e altre invece che hanno lavorato o studiato sodo, ma tornano a casa con nulla. Perché? Questo sistema clientelare deve finire.”

Tale sistema clientelare è espresso anche dal sistema parlamentare, dove i diversi membri del parlamento rappresentano unicamente i propri gruppi ristretti (settari). Le donne in parlamento fanno parte di questo sistema. Per Iqbal, queste sono donne elitarie, con privilegi diversi in quanto parlamentari, come la pensione per la vita, e non condividono gli stessi interessi della maggioranza delle donne in Iraq. “Questo non ha niente a che fare col femminismo”, esclama.

Non ci sono organizzazioni dichiaratamente femministe in piazza Tahrir. Allo stesso tempo, le donne sono ovunque. Sono in prima linea nel confronto col governo. Presso uno dei ponti occupati, una donna ci supera con in testa una maschera antigas e casco integrale, avvolto in una bandiera irachena. Chiede al suo collega le ultime notizie e gli da il cambio per il turno. Il suo lavoro? Raccogliere i candelotti di gas lacrimogeno in modo che non colpiscano piazza Tahrir. Donne come lei rendono possibile l’occupazione permanente.

Disincanto dal parlamentarismo

Mentre lo Stato si impegna a fare false concessioni e continuano discussioni in merito alle elezioni anticipate, i manifestanti in piazza denunciano tutto ciò che significa lavorare insieme a quegli stessi partiti politici corrotti. Per molti, specialmente dopo la morte di centinaia di persone, non si torna indietro. Il primo passo è che il governo e il primo ministro si dimettano.

Negli anni passati, i partiti politici e i loro slogan hanno causato una frustrazione diffusa e una depoliticizzazione profonda dell’attuale generazione di manifestanti. “Ora molti giovani stanno imparando come fare politica. Nuove e diverse forme di organizzazione politica stanno nascendo in questa piazza. Persone che sono in grado di creare questo modello di autorganizzazione sono capaci anche di guidare il paese”, dichiara Iqbal.

Maha, che gestisce un giornale femminista, scappata dalla propria famiglia in cerca di un rifugio, è una delle moltissime giovani donne che partecipano all’autorganizzazione di piazza Tahrir. “Dopo il 2003, in quanto sciiti, pensavamo che tutto sarebbe andato bene ora che avevamo molte posizioni importanti all’interno dello Stato. Invece abbiamo scoperto che per noi in quanto persone, sia nella vita quotidiana che come parte della regione, è cambiato davvero poco in meglio. Quello di cui avremmo davvero bisogno è uno Stato laico”.

L’apparente pluralismo partitico successivo al 2003 non ha portato ad alcun pluralismo politico, quanto invece all’intensificazione del sistema clientelare. Spiega Maha, “Prima del 2003 avevamo un dittatore e un sistema monopartitico, dal quale sapevamo che cosa aspettarci. Dopo, abbiamo avuto 329 parlamentari che sono unicamente interessati agli interessi dei propri partiti, guadagnando salari altissimi e pensioni a vita. Il sistema è bloccato in quanto ognuno di questi partiti vede lo Stato e i propri ministri come risorse da sfruttare”. L’opinione di Maha è ampiamente condivisa.

Comprendere questo genere di frustrazione dovuta al sistema instauratosi dopo l’invasione USA rende possibile comprendere una delle principali richieste dei manifestanti: un sistema presidenziale. Pertanto, il presidente dovrebbe essere una persona indipendente e non appartenente a nessun partito politico e quindi salvaguardare i diritti delle persone, principalmente dai membri stessi del parlamento. Al contempo, il presidente dovrebbe avere competenze limitate. Molte persone si sentono tradite dopo le ultime elezioni, quando alcuni membri del parlamento hanno votato per un presidente che è stato rifiutato dalla maggioranza delle persone. È cruciale ricordare che le persone non desiderano riportare indietro l’uomo forte e dominante. Gli attivisti sottolineano che vogliono un meccanismo di elezioni dirette per avere un effettivo impatto sulla politica interna dello Stato:

“Sono stato a votare alle scorse elezioni. Quando Abdelmahdi è stato votato presidente, mi sono sentito come se mi avessero fregato. Non avevo votato per lui. Non mi rappresenta, non rappresenta nessuno. Elezioni dirette significa che le persone sono rappresentate da una di loro”, spiega Ahmad, fondatore del sindacato Tuktuk.

Per lui, la questione del sistema politico non può essere separata da quella socioeconomica, come chiarisce successivamente: “Siamo un paese ricco ma il nostro sistema industriale e agricolo è stato completamente distrutto dagli USA e dall’Iran dopo il 2003”. Il settore petrolifero produce il 65% della benzina consumata ma impiega lavorativamente solo l’1% della popolazione. Praticamente non esiste il settore privato. Alcuni dei manifestanti di piazza Tahrir chiedono il divieto dell’esportazione del petrolio – in quanto questa risorsa è vista come una maledizione per l’Iraq. I manifestanti immaginano e chiedono la trasformazione del sistema politico ed economico in relazione con le persone.

*Fonte articolo: http://internationalviewpoint.org/spip.php?article6311
Traduzione a cura di Federica Maiucci.