Baghdad, l’attacco Usa e le piazze irachene

Thu, 09/01/2020 - 17:38
di
Ismaeel Dawood, Piero Maestri*

L'attacco statunitense in Iraq rischia di oscurare la mobilitazione popolare che da mesi mette in discussione il regime politico nato dopo l'invasione voluta da Bush del 2003.

L’attacco statunitense, voluto direttamente da Donald Trump che ha ucciso il generale iraniano Suleymani rischia di cambiare radicalmente lo scenario di tutta la regione. E su questo torneremo.

Le conseguenze si faranno sentire certamente anche in Iraq, paese in cui l’Iran ha un ruolo decisivo e del quale il generale Suleymani aveva un controllo diretto.

In queste ore sembra che in Iraq molti abbiano manifestato la loro gioia per la morte del generale, mentre nei giorni scorsi sono stati i settori filo-iraniani a scendere nelle strade contro le azioni di Trump.

Tutto ciò rischia di mettere in secondo piano la mobilitazione popolare, pacifica e di massa, che attraversa l’intero paese da tre mesi. Una mobilitazione che mette in discussione il regime politico nato dopo l’invasione statunitense del 2003. Quello che sta avvenendo nelle piazze delle principali città irachene è qualcosa di più di una semplice rivolta contro la corruzione o contro le mancate promesse del sistema politico nel suo insieme. Potrebbe essere in corso una trasformazione culturale e sociale prima ancora che politica.

Di questo abbiamo parlato – prima degli ultimissimi avvenimenti – con Ismaeel Dawood di “Un Ponte per…” e coordinatore della “Iraqi Civil Sciety Solidarity Initiative”. Pensiamo che queste righe siano ancora attuali, sperando che i giochi di guerra non riescano a zittire le manifestazioni e la volontà di chi si trova nelle piazze irachene.

Che cos’è la “Iraqi Civil Society Solidarity Initiative” (Icssi), della quale “Un Ponte per…” è stato allo stesso tempo ideatore e coordinatore in questi ultimi dieci anni. Penso sia utile partire da qui sia per presentarti e presentare la tua attività, ma anche perché è importante sottolineare la vitalità della società irachena da sempre – soprattutto oggi che riempie le piazze di Baghdad e delle principali città irachene.

Icssi è un’iniziativa messa in piedi da associazioni sociali, sindacali e politiche internazionali che si sono riunite nel 2009 a Velletri (in Italia); la domanda da cui sono partite per convocarsi è stata: «dopo la guerra, che ruolo possiamo avere come società civile internazionale di fronte a quello che accade in Iraq?». La maggior parte delle persone e delle associazioni che partecipavano a quell’incontro facevano parte del movimento contro la guerra, e da lì nasceva la riflessione: non siamo riusciti a fermare la guerra, c’è stata l’invasione statunitense dell’Iraq che ha modificato sostanzialmente la situazione e noi cosa facciamo in questo nuovo scenario?

All’incontro c’erano circa 40 rappresentanti della società civile irachena – definita in senso largo, quindi fatta di associazioni di volontariato, di solidarietà sociale, sindacalisti e così via – per capire insieme a loro cosa fare, che tipo di solidarietà costruire.

Da allora, dal 2009, è nata questa piattaforma internazionale con in primo luogo il compito di fare informazione su quello che succede in Iraq, perché di quel paese si parla solo quando ci sono scontri, violenze, guerre, terrorismo, mentre mai viene raccontata la società civile, gli sforzi quotidiani di organizzazione e sociali. Non si raccontano i giovani, il loro attivismo e i loro desideri dopo il 2003. Icssi racconta questi aspetti e costruisce spazi di incontro e solidarietà.

Abbiamo organizzato delegazioni internazionali che si sono recate in Iraq, di cui l’ultima a inizio 2019, con l’organizzazione anche di una conferenza a Baghdad. Altre conferenze sono state organizzate in questi anni in Italia, in Francia, a Oslo, ancora a Baghdad, a Bassora, a Irbil. Queste delegazioni servono a conoscere le attività della società civile irachena, vedere come lavorano.

Mettiamo in campo anche altre forme di solidarietà. Quando c’è bisogno attiviamo i nostri contatti per fare dell’advocacy. Per esempio, ultimamente sono stati rapiti due attivisti presenti nelle piazze: noi tramite Icssi abbiamo scritto a organizzazioni internazionali, al Relatore speciale dell’Onu per i diritti umani, chiesto conto al governo iracheno e per fortuna sono stati entrambi rilasciati.

Ancora, in questi giorni abbiamo inviato una lettera aperta con un appello urgente di protesta al governo iracheno, firmata da 29 importanti personalità internazionali (da Noam Chomsky a Phillys Bennis a Luisa Morgantini) in solidarietà con le richieste della protesta.

Tramite la nostra pagina facebook ogni giorno raccontiamo cosa succede nelle piazze con aggiornamenti continui. “Un Ponte per…” è stato animatore di tutto questo.

Veniamo allora a quello che avviene da oltre 80 giorni nelle principali città irachene e in particolare a Baghdad, in piazza Tahrir. Che composizione sociale mostrano quelle piazze, chi le convoca e che iniziative si realizzano?

Questo movimento di protesta e di rivolta è nato lo scorso 1° ottobre e copre tutto il centro e il sud dell’Iraq, 11 province (governatorati) su 18, comprese quelle del Kurdistan iracheno. È un movimento che rappresenta un continuum delle rivolte susseguitesi dal 2003 in Iraq per la mancanza di lavoro, contro la corruzione, per la mancanza di servizi e contro il regime politico installato nel paese dal 2003. Proteste ci sono state nel 2010, nel 2011, nel 2015, nel 2018… ma questa è una protesta diversa.

La protesta è principalmente guidata da giovani, ragazzi e ragazze, soprattutto laureati e studenti universitari e delle superiori. Per la prima volta nella storia irachena, almeno dopo il 2003, c’è un enorme sciopero permanente degli studenti che prosegue da 8 settimane. La maggior parte delle scuole e delle università sono chiuse da allora.

Non ci sono leader politici, non ci sono partiti e bandiere di partito o di unioni studentesche legate ai partiti. Si trovano nelle piazze studenti laici e religiosi, ma tutta la protesta è critica nei confronti dell’esperienza dei partiti religiosi. È una mobilitazione laica e lo si vede dal ruolo delle studentesse e delle giovani donne.

Negli anni precedenti ci sono sempre state forme di organizzazione basate su comitati di coordinamento (tansiqyat), ma anche questa forma è stata superata in questa occasione: i ragazzi sono andati oltre i comitati che funzionavano localmente negli anni precedenti perché hanno cominciato a organizzarsi soprattutto diffondendo e scambiando le informazioni sulle molteplici attività di protesta attraverso i social media – più che altro Telegram, dato che Whatsapp è fortemente controllata dal governo iracheno e dagli altri governi della regione (Iran, Turchia). È quindi direttamente attraverso Telegram che vengono diffusi appuntamenti locali e nazionali, soprattutto studenteschi.

In questo caso fin dal venerdì si moltiplicano gli appelli per le iniziative della domenica successiva (domenica è il primo giorno lavorativo della settimana in Iraq); in una lotta molto faticosa e anche costosa in vite umane (il governo ha parlato di 480 morti ma se ne stimano almeno 600), studenti e studentesse si sentono responsabili di fronte a questi sacrifici e nel mantenere lo sciopero fino a quando le richieste non saranno accolte. Sono le ragazze e i ragazzi a organizzare le attività nelle piazze.

Molti di noi sono stati impegnati fin dal 1991 contro l’embargo voluto dagli Usa e dalle principali potenze internazionali che il popolo iracheno ha pagato duramente. I ragazzi di piazza Tahrir e delle altre piazze irachene sono nati tutti dopo quella data, poco prima dell’invasione del 2003; sono ragazzi che hanno vissuto sempre in un paese in guerra. Secondo te questo spiega la loro mancanza di paura nelle manifestazioni – la loro disponibilità allo scontro, a mettere in gioco i loro corpi e le loro vite, pur in un movimento fortemente pacifico e sicuramente non aggressivo?

Effettivamente questi ragazzi sono nati in un Iraq diverso da quello degli anni Ottanta e Novanta, non hanno conosciuto la paura della dittatura come le generazioni precedenti. In più questa generazione è sempre stata accusata di essere leggera, di non essere capace di cambiare niente, perché passerebbero la loro giornata davanti al cellulare, perché non farebbero altro che giochi elettronici.

Questa generazione ha invece un’energia potente che la muove – che si esprime nello slogan «noi possiamo farcela e non abbiamo paura».

Le manifestazioni di queste settimane ne sono la prova. Ragazzi a mani nude con solo una bandiera dell’Iraq e/o un cellulare si sono buttati negli scontri, alcuni di loro sono stati uccisi, addirittura alcuni hanno filmato la loro morte o quella di loro amici. Si trovano in quell’età in cui si è disposti a dare tutto per una causa che li convince.

In un Iraq nel quale i partiti dicono di parlare a nome delle loro etnie e religioni, questi ragazzi ripetono di non essere sunniti, sciiti ecc, ma di essere iracheni e che quei partiti non li rappresentano.

Per questo non hanno avuto paura di andare davanti ai consolati iraniani dopo aver visto i loro amici, fratelli, conoscenti uccisi dalla polizia, a volte togliendo la bandiera iraniana sulla facciata, a volte cercando di occupare il consolato e in alcuni casi questi stessi consolati sono stati bruciati. E ci sono stati giovani uccisi per questo, a Nayaf o Nassyria. Per questo ripetono «Voi non ci rappresentate», ribadendo la loro identità irachena, non quella settaria.

A proposito di identità irachena. Visti i trascorsi storici tra Iran e Iraq si potrebbe pensare a un semplice sentimento nazionalista, di rigetto della nazionalità iraniana; in realtà leggendo alcuni striscioni in piazza Tahrir sembra di scorgere più un rifiuto dell’influenza e del ruolo del regime iraniano nella politica irachena. In alcuni cartelli si metteva quasi sullo stesso piano il ruolo statunitense e quello iraniamo. Quindi non sembra una forma di nazionalismo quanto una rivendicazione di unità di fronte al ruolo aggressivo iraniano (e di altre potenze regionali o globali).

In questi anni tutto il mondo parla del ruolo iraniano nella regione e in particolare del ruolo del super generale iraniano Suleymani che comanda in Iraq e decide in larga misura la politica irachena.

I ragazzi iracheni in questa protesta vogliono mettere in chiaro che l’Iraq è una nazione indipendente, con una sua storia, una sua identità, una sua capacità autonoma. «Noi non siamo sciiti che possiamo essere governati dall’Iran; non siamo un paese che deve rappresentare gli interessi di Trump e dei suoi amici in medioriente».

Questi ragazzi sentono di essere considerati, soprattuto nel mondo arabo, ma non solamente, come un popolo senza identità, persone governate da iraniani e statunitensi.

Durante la primavera araba si sono raccontate storie eroiche di tunisini, di egiziani e così via. Questo non è avvenuto riguardo gli iracheni. I ragazzi iracheni vengono considerati senza identità, come filo-iraniani o filo-americani. Non esiste l’Iraq, esistono sciiti, sunniti, kurdi. Grazie a questa protesta è cambiato il modo stesso di parlare dell’Iraq, di raccontare l’Iraq e queste stesse generazioni.

Come ti sembra che in Iraq considerino le altre esperienze rivoluzionarie o comunque di protesta nella regione araba? In altre situazioni si sono viste bandiere che richiamavano le esperienze di altri paesi con una solidarietà almeno nominale, anche senza necessariamente contatti diretti, come semplice riconoscimento reciproco. Ti pare che questo esista anche nel caso iracheno?

Ci sono stati esempi soprattutto di solidarietà con l’esperienza libanese, che in qualche modo è quella più vicina da un punto di vista culturale e politico. Sono stati scambiati slogan tra Baghdad e Beirut, le stesse canzoni sono state cantate nelle piazze delle due città.

Minore è stato il richiamo all’esperienza algerina, pure non assente nei riferimenti in Iraq; mentre la rivolta in Sudan è stata più volte richiamata nelle piazze e nelle discussioni perché è quella che ha portato a un risultato almeno apparentemente e per il momento positivo, un frutto del cambiamento.

Importante anche che tanti ragazzi nelle piazze irachene abbiano manifestato solidarietà alle proteste in Iran e di sostegno alle lotte delle piazze iraniane, riconoscendo la differenza tra governo e popolo iraniano.

Si sono sentiti riferimenti anche alle manifestazioni di Hong Kong, ma più come allusione e vicinanza generica che come diretta conoscenza.

Torniamo a cosa succede nelle piazze. In altre occasioni abbiamo letto, e tu stesso ne hai parlato in un recente incontro a Milano, dell’esperienza delle tende tematiche e delle discussioni in piazza. Ci dici secondo te cosa rappresentano e chi le organizza?

Nelle piazze irachene, in particolare in piazza Tahrir a Baghdad, ogni giorno si vedono centinaia di queste tende, con significati e forme differenti di organizzazione. Esistono tende montate da associazioni o sindacati professionali, nelle quali si affrontano questioni specifiche. Per esempio nella tenda degli avvocati si affrontano questioni legali generali o specifiche di fronte agli arresti o alla scomparsa di attivisti e si può anche chiedere aiuto. Altre si occupano di questioni logistiche e si parla di come tenere la piazza e le strade pultite, come organizzare la raccolta rifiuti – e chi le organizza è riuscito a fare una vera e propria campagna sulla raccolta dei rifiuti.

Un’interessante esperienza è quella ecologista della tenda “Salviamo il Tigri”, che ha organizzato anche una pulizia diretta delle spiagge. Dobbiamo ricordare che piazza Tahrir affaccia da un lato sul fiume Tigri, proprio di fronte – sull’altra sponda – alla zona verde, dove hanno sede i palazzi del potere. Anche dalla sponda di piazza Tahrir per anni è stato impossibile scendere al fiume, per la sporcizia, l’insicurezza, i divieti. I manifestanti hanno inaugurato la “Spiaggia Tahrir”, dopo averla pulita, dove sono state organizzate partite di pallavolo e altre attività sportive e ricreative.

Ci sono tende importanti come quella che gestisce il servizio di aiuto medico-sanitario, anche grazie alla collaborazione degli autisti dei Tuk-tuk, mezzi a tre ruote diffusi ovunque a Baghdad e che hanno funzionato anche per tutta una fase come ambulanze improvvisate e sono diventati un simbolo della rivolta.

Alcune tende sono organizzate da studenti a nome delle loro scuole e università e si tengono discussioni sulle proteste e sulle loro realtà scolastiche.

Ancora, esistono decine di tende di ristorazione – che fanno da mangiare gratuitamente grazie alle donazioni economiche e materiali e che quindi possono sfamare migliaia di persone ogni giorno. Particolare l’esperienza di un cuoco famoso – Abu Aloosh – che ha organizzato una tenda e ogni giorno pubblica uno streaming su facebook su come prepara il cibo.

Altre tende hanno più una natura di coordinamento. Per esempio la tenda “Un altro Iraq è possibile”, organizzata dall'”Iraqi Social forum” dove si tengono discussioni più politiche di prospettiva: come si vorrebbero le prossime elezioni, quali le caratteristiche del prossimo primo ministro, che proposte nascono dalle diverse tende tematiche…

Nel tuo intervento milanese hai voluto sottolineare l’esperienza particolare del Ristorante turco. Si tratta di un edificio occupato dai manifestanti, e se in Italia siamo abituati a occupazioni di edifici pubblici o privati, questa non è un’esperienza così diffusa in medioriente e in Iraq. Perché è importante quella occupazione? Cosa si fa in quel palazzo?

Il palazzo in questione è un edificio di 14 piani inaugurato negli anni Ottanta durante la dittatura di Saddam; era un centro commerciale con un grande parcheggio per le auto e molti negozi. All’ultimo piano – che apriva su un fantastico panorama di Baghdad – si trovava un ristorante turco. Questo edificio veniva utilizzato anche per le comunicazioni durante il governo di Saddam e anche per questo gli Usa lo hanno bombardato nel 1991 (almeno, questa è stata la giustificazione). Rifatto nel 2011 e nuovamente inaugurato come sede del ministero dello sport e della gioventù, è stato ancora cannoneggiato dai carri armati statunitensi durante l’invasione del 2003.

Va ricordato che per un certo periodo all’inizio delle mobilitazioni le milizie hanno utilizzato cecchini esperti per sparare sulle manifestazioni stesse uccidendo diverse persone. Questi cecchini si erano piazzati sui palazzi più alti, tra i quali questo edificio che si trova a fianco del ponte Jumurrya da dove si può controllare tutta piazza Tahrir.

I ragazzi hanno quindi deciso di occupare il palazzo in primo luogo per controllare che non fosse più utilizzato da cecchini e polizia come base contro i manifestanti e mano a mano è diventato un simbolo delle manifestazioni, perché da lì i ragazzi riuscivano a mostrare i loro slogan sia verso la piazza che verso l’altro lato del ponte, quindi la zona verde e i palazzi del governo. In questo modo il palazzo è diventato una piattaforma con tanti slogan, frasi con le quali i manifestanti riportano i loro contenuti politici.

Dicevamo che il palazzo è stato nuovamente bombardato durante l’occupazione del 2003 e da allora è rimasto uno spazio vuoto, simbolo del fallimento anche dei governi successivi, incapaci di attivare una ricostruzione sempre attesa dagli iracheni.

Anche questo retroterra storico è alla base dell’occupazione da parte dei giovani e anche per questo è diventato un importante simbolo e luogo di resistenza. I ragazzi lo hanno ribattezzato Monte Uhud, luogo di una battaglia di resistenza dei musulmani del Profeta Maometto contro le tribù della zona.

I ragazzi hanno deciso di rimanere nel palazzo, autogestendolo. Sono riusciti a pulire, imbiancare, riattivare la corrente e internet, addirittura rispristinare l’ascensore e organizzare turni di vigilanza affinché il palazzo non fosse mai abbandonato, per evitare le possibili minacce della polizia ma anche le potenziali infliltrazioni di milizie e partiti.

Questi hanno infatti più volte mandato uomini non armati per provare a controllare il palazzo e mandare via le persone a loro sgradite – com’è successo in un’altra zona di Baghdad, al Senek, dove c’è stato un massacro perché i manifestanti hanno resistito di fronte a uomini non armati legati a milizie e quando questi si sono trovati accerchiati hanno chiamato miliziani armati che hanno sparato sui manifestanti, uccidendone molti. Perché questo non accada di nuovo vengono fatti controlli su chi entra nel palazzo.

Importante anche sottolineare la strategia comunicativa dei partiti soprattutto islamisti che accusano i manifestanti di fumare, bere alcolici e portare ragazze nel palazzo – per tentare di delegittimarli di fronte a una popolazione tradizionalista. Ma anche un tentativo di minaccia nei confronti delle ragazze che manifestano. All’interno del palazzo i presenti si sono organizzati anche per evitare che le ragazze che vogliono salire al 14° piano siano molestate. In un contesto di presenza di migliaia di giovani, le ragazze in realtà sono molto sicure e non ci sono stati casi evidenti di molestie sessuali, in genere molto diffuse in situazioni analoghe dove si pongono questioni di libertà di espressione per le donne. È stato anche detto che per la prima volta Baghdad è così sicura per le ragazze. E alcune di loro hanno dormito in piazza, sono salite al 14° piano a prendere foto e farsi selfie. Un messaggio davvero importante che viene da piazza Tahrir.

Anche se per il momento non sembra si siano ancora formati gruppi non misti, femminili/femministi, a parte quelli di studentesse di una stessa scuola (che sono separate da quelle maschili).

Tu dicevi per esempio che la tenda “Un altro Iraq è possibile” ha iniziato una discussione sul futuro, su quale Iraq vorrebbero le persone in piazza. Dall’inizio dei tentativi rivoluzionari definiti primavera araba c’è stata un discussione sulla relativa mancanza di organizzazione o meglio sulla difficoltà di organizzare una voce unitaria, un coordinamento che potesse rappresentare le istanze delle piazze. Che tipo di organizzazione esiste nelle piazze irachene e quale sta nascendo? Che idea di un’altra società sembra nascere?

La maggior parte delle discussioni in piazza e tra i manifestanti iracheni riguarda il periodo di transizione da questo regime a un altro sistema politico. Per esempio quale legge elettorale dovrebbe essere approvata affinché venga data la possibilità di candidature indipendenti dai partiti e quale rappresentanza verrà consentita all’interno del parlamento. Il 24 dicembre è stata approvata tale legge elettorale, ed è stato fatto sotto la pressione dei manifestanti.

Si discute di quale indipendenza debba avere la Commissione elettorale, finora formata dai partiti e quindi rispondente a logiche settarie o spartitorie – mentre la nuova legge prevede una Commissione formata da giudici sorteggiati, quindi che non rispondono agli interessi diretti dei partiti. Si tratta di un cambiamento storico perché supera la base settaria delle precedenti esperienze.

Altre discussioni riguardano la figura e le caratteristiche che dovrebbe avere il primo ministro per il periodo transitorio, che potrebbe governare per un anno. Discussioni che si sono concentrate in primo luogo su cosa non dovrebbe essere – perché dal 2003 la maggior parte dei politici provenivano dall’opposizione a Saddam in esilio, cresciute all’estero e con doppio passaporto (il primo ministro ha un passaporto francese, il presidente un passaporto britannico). In sé non sarebbe un problema se in questi 16 anni non avessero utilizzato questo loro privilegio per continuare a portare avanti un sistema corrotto. Per questo è stato proposto che nessuno con doppio passaporto si possa presentare o comunque avere un ruolo politico di primo piano, così come non possa avercelo chi è stato primo ministro, ministro o avuto cariche importanti. I partiti da settimane provano a nominare persone che non rispettano questi criteri e le piazze li bocciano – siamo parlando di 6/7 persone proposte e rifiutate dalle piazze.

Elementi molto chiari riguardo il futuro sono quelli di rispettare l’identità comune irachena, non settaria e la separazione tra stato e religione.

All’interno di queste discussioni, ti sembra anche che sia all’orizzonte una nuova forma organizzativa che possa rappresentare la piazza?

Per il momento non è in formazione un’alternativa politica che nasce da questa piazza. C’è molta paura anche perché nel 2018 la coalizione Saairun, formata dai sadristi di Muqtada el Sadr e i comunisti, nata proprio come “rappresentanza” delle proteste, ha nel giro di solo un anno fallito miseramente – nel senso che pur essendo il primo partito sul piano elettorale, per formare un governo hanno deciso di allearsi con il blocco delle milizie sciite con cui hanno scelto Adil Abdul Mahdi come primo ministro. Si erano dati un anno per cambiare ma questo non è avvenuto. Abdul Mahdi ha invece protetto tutti i capi politici e i personaggi corrotti di ogni partito. Per questo c’è molta paura di infilare questo grande movimento in una sola strada politica.

Alla fine i comunisti (due eletti) sono usciti dal Parlamento e Muqtada el Sadr, che rappresenta molti giovani vicini alla protesta, ha cercato di entrare nelle piazze direttamente. Ma i ragazzi in piazza non hanno permesso che i seguaci di Muqtada entrassero con l’effige del loro leader – e ci hanno provato fin dall’inizio. Sono stati cacciati: se venite qui come manifestanti come noi, siete i benvenuti; se venite con la bandiera di partito o l’immagine del vostro leader che è il principale leader iracheno non vi lasciamo entrare. Lui stesso, alla fine, ha rispettato questa scelta – visto che non riuscivano a fare altro – e ha chiesto ai suoi seguaci di non portare simboli in piazza, mandando in alcuni casi addirittura le milizie a proteggere i manifestanti.

Per concludere, ovviamente in maniera provvisoria visto che le proteste continuano e la situazione rimane in movimento: come iracheno e attivista della società civile cosa ti ha colpito di questi oltre 80 giorni o comunque ti sembra davvero nuovo?

Mi aspettavo un movimento come quelli precedenti. Invece c’è un salto di qualità anche culturale. In primo luogo una fortissima capacità di organizzazione, autogestione e abilità nel mantenere una protesta in gran parte ordinata e efficace.

In secondo luogo la capacità di mantenere il carattere fortemente nonviolento del movimento anche di fronte alle moltissime provocazioni, al sangue versato, ai lutti. E questo contro attori molto pericolosi, come le milizie, o le potenti tribù ashira entrate con le loro armi, i cecchini, l’essere dipinti pericolosi terroristi come Daesh.

Terzo elemento, il ruolo protagonista delle donne. E questo è un grandissimo cambiamento culturale, un evento storico.

Sono tre elementi storicamente nuovi, importanti per il popolo iracheno e tutto il Mashrek, che potranno cambiare la storia dell’Iraq in profondità, come la rivoluzione francese ha fatto in Europa.

*Piero Maestri, attivista, è stato redattore di Guerra&Pace ed è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre).
Fonte: https://jacobinitalia.it/baghdad-lattacco-usa-e-le-piazze-irachene/