I bombardieri riluttanti

Sun, 24/08/2014 - 14:36
di
Piero Maestri

Ancora una volta aerei statunitensi bombardano il territorio dell'Iraq, questa volta con l'assenso del governo in carica in Iraq (oltre che con quello della Russia e dell'Iran che ritengono anche loro obiettivo colpire l'Isis), in assenza di una forte mobilitazione contro la guerra a livello mondiale, in un contesto di estrema frammentazione dei soggetti in campo, che rendono la situazione più complessa di quanto fosse nel 1991 e nel 2003.
Questa complessità è in primo luogo il prodotto delle politiche statunitensi e occidentali e dell'ideologia neocons. Politiche che avevano come obiettivo la costruzione di un "nuovo medioriente" a dominanza israelo-statunitense, stabilizzato e direttamente guidato da governi alleati o comunque pronti ad una collaborazione politica, militare ed economica con gli Usa e i loro interessi.
Un progetto uscito sconfitto dalle avventure militari mediorientali, mentre ancora è impantanato nell'Afghanistan da loro considerato estremo limite orientale del «grande medioriente».
Il risultato che si è prodotto - oltre alle numerose vittime civili e la distruzione di intere regioni dell'Iraq - è quello di un medioriente ancora più frammentato, nel quale crescono soggetti reazionari di vario tipo e genere.
Una regione nella quale la presenza di basi e infrastrutture militari statunitensi è più ampia di quella di 25 anni fa, ma che è diventato un complesso campo di forze dove ogni soggetto - statale e non - ha una propria agenda e cerca di stabilire rapporti di forza a sé favorevoli.

Gli Stati uniti sono stati spesso considerati fautori di un disegno di «destabilizzazione» e di frammentazione degli stati costruiti sulle mappe degli accordi Sykes-Picot. L'impressione che si percepisce dopo 25 anni di guerra in medioriente sembra essere esattamente il contrario: le amministrazioni statunitensi, in particolare quella di Obama, temono il crollo delle infrastrutture degli stati esistenti e la destabilizzazione conseguente a queste crisi.
La politica di fondo degli Usa, fin dalle rivolte arabe, non è stata e non è quella di "soffiare sul fuoco", quanto quella di trovare il mezzo volta per volta migliore per una stabilizzazione - anche cambiando gli assetti esistenti: quando i vecchi regimi (compreso quello del dittatore libico Gheddafi - che fino a quel momento svolgeva un ruolo utile alla politiche di controllo delle migrazioni e di stabilizzazione del mercato finanziario globale - in particolare per l'Europa) non sono stati più in grado di garantire l'equilibrio regionale (o interno), allora l'amministrazione Obama ha sostenuto un cambiamento di cui non era stata protagonista né supporto diretto.
Nelle diverse situazioni, hanno scelto la via che meglio poteva garantire una stabilizzazione che permettesse di continuare a tutelare i propri interessi nella regione più ampia: quando è stato necessario hanno appoggiato la repressione più feroce (è il caso del Bahrein, dove hanno permesso e sostenuto l'intervento militare delle monarchie del Golfo contro i manifestanti per la libertà) o più soft (come in Algeria o Marocco, paesi nei quali i governi in carica sono riusciti a combinare aperture apparenti con una chiusure di fatto ad ogni cambiamento).
In Siria hanno pensato di poter condizionare la rivolta che stava crescendo nelle strade, e che stava già subendo una feroce repressione da parte del regime di Assad, per condizionare il regime e costringere il suo padrino iraniano ad un dialogo più serrato sul tema del nucleare e della tutela degli interessi statunitensi e occidentali nella regione.
Una strategia che non prevedeva un coinvolgimento diretto - né con un intervento militare mai davvero programmato, né con un sostegno efficace all'Esercito siriano libero, da poco sorto, di cui non si fidavano sufficientemente e del quale non avevano fiducia rispetto alle sue capacità militari.

Un primo effetto a cascata del fallimento delle politiche statunitensi è il proliferare in tutta l'area di diverse e spesso contrapposte ambizioni economiche e politiche su scala regionale che riguardano, ad esempio, diversi stati arabi e non solo i classici paesi emergenti (Brics). Da qui, il ruolo crescente di Arabia Saudita o Qatar - divisi anche tra loro -, o della Turchia. La vicenda siriana ha vissuto anche di queste interferenze.
Anche il sorgere dell'Isis, dentro la crisi della rete di al-Qaeda, è uno dei prodotto di questi sfilacciamenti e di questo indebolimento del quadro generale. Altro che «complotto imperialista» . Certo, all'inizio è stato anche finanziato e in qualche modo sostenuto ma, come spesso è accaduto in questi casi, questo soggetto ha assunto un profilo e progetto proprio.
Dentro la crisi della rete di al-Qaeda sono cresciuti nuovi leader e quadri che hanno cercato di affermarsi in un primo tempo come i più affidabili sul piano militare per ottenere finanziamenti vari (in particolare dei paesi del Golfo) e si sono poi resi molto più indipendenti da questi stessi finanziatori (statali o privati) cercando di realizzare in alcune aree "liberate" uno stato accettabile per le fasce sunnite più frustrate - a partire dall'Iraq (dove i sunniti sono stati messi ai margini dal governo di al Maliki e dall'Iran) e dalla Siria, dove la persistente guerra civile e le incapacità dei gruppi ribelli di darsi un coordinamento efficace hanno creato le condizioni per un certo consenso verso Isis.

L'Isis non è il prodotto diretto e conseguente della rivolta siriana, quanto la malattia che si sviluppa su un corpo indebolito dalla guerra civile e dalla repressione del regime. Analogamente, in Iraq, non è l'artefice di una destabilizzazione del paese, quanto un prodotto della frammentazione sociale e delle disastrose performance dei governi di al-Maliki - sostenuti da Usa e Iran.
Si tratta naturalmente di un movimento ultra-reazionario ed estremamente pericoloso per le popolazioni e qualsiasi dinamica positiva possa nascere nel medioriente - e per questo siamo necessariamente dalla parte delle forze che lo stanno combattendo sul terreno (che sono i gruppi kurdi legati al Pkk e al Ypg siriano, ma anche, cosa che speso si dimentica, le milizie dell'Esercito libero siriano e di altri gruppi «ribelli» che da tempo hanno dovuto fare i conti con la presenza di questo soggetto nelle aree liberate).
Nell'insieme - al di là degli enormi danni e delle vittime che produce, prima di tutto nelle popolazioni che vorrebbe «liberare») non sembra che l'Isis nuoti nella regione come un pesce nell'acqua e, malgrado i successi degli ultimi mesi, potrebbe trovarsi in prospettiva con il fiato corto - anche se preoccupa diversi governi dell'area, persino quello turco e quello saudita che hanno assistito alla sua nascita con una certa «benevolenza», e terrorizza le popolazioni delle regioni conquistate o dove comunque è presente.

Di fronte a questa situazione dobbiamo allora plaudire all'intervento dei liberatori statunitensi? Dobbiamo arruolarci con il governo Renzi e le sue ministre di guerra che si sono dimostrate pronte a seguire indicazioni e scelte politico-militari statunitensi?
Al contrario, ci pare evidente che queste scelte siano l'annuncio di una nuova accelerazione delle dinamiche militari. Non solo aumentare ancora una volta il numero di armi in una regione come il medioriente - ai primi posti per il commercio bellico legale e non - non produrrà nulla di buono, ma anche le modalità e le alleanza che si stanno creando non saranno foriere di novità positive.
L'invio di «armi ai kurdi» è molto più una propaganda mediatica che non un fatto che possa avere qualche risultato sul terreno. A parte il balletto tra la consegna formale al governo iracheno perché le trasmetta ai curdi, non è una scelta che segue una logica di alleanze sul terreno con le forze democratiche che stanno combattendo l'Isis (per questo servirebbe in primo luogo riconoscere il contributo del Pkk, e quindi cancellarlo dalla lista dei gruppi terroristici e in secondo luogo avere un altro profilo nella situazione siriana, non di intervento militare, ma di sostegno politico forte ai gruppi di opposizione al regime che si trovano in prima fila anche nel combattere Isis...).
Nessuna “soluzione” potrà avere successo in medioriente senza un riconoscimento dei diritti dei popoli della regione, a partire da quelli palestinesi e dei kurdi. Un riconoscimento che comporterà un ridisegno delle frontiere e degli assetti statali usciti dalla spartizione coloniale e che potrà rappresentare finalmente una soluzione politica in senso democratico ed emancipatorio all'insieme dei popoli mediorientali. Una soluzione considerata oggi utopistica ma che rimane la prospettiva più concreta, senza la quale rimarrà in campo la forza di attrazione dell'Isis e di altri soggetti fondamentalisti, che traggono forza anche dal non riconoscimento di quelle frontiere artificiali.

I bombardamenti statunitensi permetteranno forse nel breve periodo di respingere l'avanzata di Isis nei territori iracheni, ma non saranno in grado di sconfiggere questa opzione nefasta, perché prodotto di una situazione più complessa.
Tra l’altro, a questo proposito, c’è in campo la possibilità - che viene esplicitamente discussa nelle cancellerie occidentali - di allargare i bombardamenti anche al territorio siriano in accordo con il presidente Assad, che tornerebbe ad essere un interlocutore credibile della «war on terror» nuova formula (si veda in proposito l'articolo della redazione di sirialibano.com).
Così si chiarisce quanto sia forte la tendenza a restituire credito proprio i quel regime che fino ad ora aveva evitato di scontrarsi con Isis e che anche oggi mentre attacca questo gruppo a Raqqa evita di farlo di fronte alla sua avanzata ad Aleppo per danneggiare i gruppi dell'Esl che controllano zone di quella città.

Diverse sono le ragioni di una difficoltà del mondo pacifista e della solidarietà internazionale a mobilitarsi contro queste politiche di guerra statunitensi e italiane - anche se sono state tante le voci critiche, tra le quali vogliamo sottolineare quella di Un Ponte per...., della Rete Disarmo e di Emergency. La complessità della situazione mediorientale ha provocato già negli scorsi anni una minore capacità critica e di intervento delle forze pacifiste, e oggi questa difficoltà si fa ancora sentire - per esempio riguardo la vicenda siriana, per la quale è stata davvero debole e afona la partecipazione delle forze pacifiste ad una solidarietà attiva con le forze democratiche e rivoluzionarie siriane - pur mantenendo una posizione di netta contrarietà a qualsiasi intervento militare di Usa e alleati.

Non ci possiamo però accontentare di denunciare le responsabilità delle sciagurate politiche statunitense e alleate - Italia compresa - che continuano ancora oggi in Palestina con il sostegno all'ennesima aggressione israeliana alla popolazione di Gaza (e della Cisgiordania, attraverso insediamenti e repressione quotidiana...).
Dobbiamo moltiplicare gli sforzi per sostenere la resistenza palestinese e combattere le complicità europee e italiane nelle politiche israeliane.
Dobbiamo sostenere politicamente e concretamente le forze politiche e sociali che si battono contro i gruppi reazionari islamici e contro i regimi altrettanto reazionari.
Purtroppo non lo abbiamo fatto a sufficienza con le rivoluzioni arabe, con le rivolte che tra il 2011 e il 2012 potevano rappresentare una vera svolta nelle dinamiche ossificate e di coazione a ripetere le guerre che oggi sono prevalenti in medioriente (e in parte del nord Africa).
Siamo convinti che la chiave per sconfiggere l'Isis - e con esso i diversi progetti di re-intervento imperialista in quella area che sono legittimati dalla presenza del "Califfato"- si trovi in Siria, nonostante tutte le difficoltà (si veda anche l'intervista a Jean-Pierre Filiu pubblicata su "a l'encontre"). Diventa quindi necessaria la solidarietà con il popolo siriano e le forze laiche, democratiche e rivoluzionarie, appoggiando in particolare gli sforzi di coordinamento tra l'autoamministrazione di alcune zone liberate, i kurdi siriani e turchi e le forze dell’Esercito siriano libero che si battono per mantenere il carattere originario della rivoluzione siriana.
Non siamo così presuntuosi da pensare che la nostra solidarietà politica da sola avrebbe potuto (e possa) fare la differenza di fronte allo scatenarsi della reazione controrivoluzionaria - dall'Egitto alla Siria. Ma siamo ancora convinte/i che questa stessa solidarietà possa rappresentare un peso sulla bilancia dello scontro in atto.

Per sintetizzare, ci troviamo in un caos globale determinato dai danni fatti dall'imperialismo, ma anche dalla crisi delle strategie imperialiste (si veda al proposito l'interessante testo di Michel Husson - sulla nuova configurazione dell'economia globale, dei rapporti tra stati e capitali e delle catene globali del valore), dall'emergere di nuovi attori globali, dalla debolezza degli attori di trasformazione, dalla crisi delle società mediorientali di fronte ai colpi delle guerre di «ricolonizzazione» (come le definiva Michel Warshawski) e all'emergere di forze reazionarie capaci di intercettare consensi in questa stessa crisi. (non dimentichiamo che c'è stata al Qaeda).
In questo quadro scontiamo una situazione di debolezza, la debolezza strutturale nostra, qui in occidente, dove un movimento alternativo, sul piano politico e sociale, non c'è o è comunque sulla difensiva e incapace di riconoscere/riconoscersi nelle lotte di altri paesi - qualsiasi proposta diventa fragile.
Ricostruire il senso e la pratica della solidarietà internazionalista rimane una bussola necessaria per provare a contrastare quella debolezza.