A proposito di Flat tax e dintorni

Mon, 19/02/2018 - 11:02
di
Marco Bertorello e Danilo Corradi*

Sono anni che tutti gli schieramenti politici di un certo rilievo dichiarano l'obiettivo, e spesso dichiarano anche di averlo già raggiunto, della riduzione della pressione fiscale. Abbassare le imposte indistintamente è diventato un Totem indiscutibile, un bene in sé. Tanto che nell'attuale campagna elettorale si è affermato a destra il tema della Flat tax, cioè un'aliquota unica a prescindere dal reddito, tendenzialmente molto contenuta. La Lega, primo partito ad averla sostenuta, ipotizza un'aliquota addirittura del 15%, mentre una più moderata Forza Italia parla del 21%. Gli avversari rispondono denunciando l'impraticabilità di tali provvedimenti, ma al contempo rivendicano la propria capacità nell'esser riusciti a ridurre il carico fiscale. Il tema, come ormai spesso accade, trasborda i tradizionali confini politici. È in uscita persino un libro dell'ex parlamentare di Centro-sinistra e qualificato economista Nicola Rossi: Flat Tax. Aliquota unica e minimo vitale per un fisco semplice ed equo.

La Flat Tax, e la più generale riduzione della pressione fiscale, richiama, però, una molteplicità di questioni piuttosto irrisolte. Non solo mette al centro la presunta efficacia di pulsioni del mercato, ma in qualche modo prefigura, o implica, una cura dimagrante dello Stato. Tra i tanti provvedimenti di supporto a tale ipotesi vi è spesso il richiamo alla spending review, come se quelle già ideate non fossero finite immancabilmente in un nulla di fatto. Da anni i governi si contendono la medaglietta al petto della riduzione delle imposte (se avviene poi è piuttosto impercettibile, l'Istat per l'ultimo anno ha certificato pochi decimali di punto in meno), ma nessuno riesce a ridurre il bilancio dello Stato, finendo per dare vita a un aumento del tanto temuto debito pubblico. Tutto ciò avviene unicamente perché i partiti sono clientelari e corrotti oppure esistono anche ragioni più profonde?

Per avere il senso delle proporzioni bisogna focalizzare l'ordine di grandezza di ciò che lo Stato muove in termini economici. In numeri assoluti nel 2016 (ultimo anno di cui disponiamo di dati completi) il Pil italiano è stato pari a 1.672 mila milioni di euro. Sempre nel 2016 il Ministero dell'Economia rende noto che le entrate complessive sono state pari a circa 559 mila milioni, pari al 33% del Pil, e le uscite invece sono state pari a 603 mila milioni, cioè al 36% del Pil. Quest'ultime tutte improduttive? Molte di queste spese rappresentano una grandezza significativa nei rispettivi comparti. Quelle per il personale ammontano a 112 mila milioni, cioè il 6,7% del Pil (l'azienda di gran lunga con il maggior numero di occupati), quelle per acquisto di beni 96 mila milioni, cioè 5,7% Pil, i trasferimenti ad altri soggetti (prevalentemente famiglie, imprese e interessi passivi) quasi 272 mila milioni, cioè 16% del Pil. Voci che complessivamente sono andate aumentando negli ultimi anni. Nel solo triennio 2015-2017 sono passate da 595 a 619 mila milioni, con un incremento del 4%. A tutto ciò vanno aggiunte entrate e spese degli enti locali. L'ultima relazione finanziaria della Corte dei conti con riferimento al 2015 sostiene che le amministrazioni locali sono riuscite a «neutralizzare la significativa contrazione di trasferimenti» operata dallo Stato, aumentando il proprio grado di autonomia finanziaria. Ne consegue che sono aumentate le imposte locali a fronte di un relativo contenimento del taglio ai servizi forniti. A conferma l'Istat ammette che per i soli Comuni le entrate nel 2015 sono aumentate del 4%, raggiungendo gli 86 mila milioni. Le entrate fiscali locali (Regioni, Province e comuni), secondo la Cgia di Mestre, costituiscono oltre il 20% delle imposte complessive. Anche in questo caso alle entrate corrispondono spese non riconducibili banalmente a sprechi. Aziende e partecipate con funzioni pubbliche, assistenza sociale, manutenzione, stipendi per i dipendenti.

Difficile non leggere in questi numeri un volano per l'intera economia. Solo gli investimenti fissi lordi pubblici sono in diminuzione costante da diversi anni in Italia. Ciò che interviene in un sistema che mantiene ancora residui di progressività nei prelievi fiscali è un'azione di redistribuzione delle risorse, finendo per travasare, seppur sempre meno, quote di ricchezza dall'alto verso il basso e, in misura ancor più ridotta, dalla rendita all'impresa produttiva. Parafrasando gli economisti si potrebbe sostenere che lo Stato, possedendo una maggiore propensione alla spesa del privato, costituisce un importante lubrificatore del sistema economico contemporaneo. La Flat Tax finirebbe per inibire tale funzione statuale. Va aggiunta, inoltre, la crescente efficacia della sfera pubblica sul versante delle politiche monetarie e di sostegno alla finanza. Il Ministero dell'Economia, nella Relazione sul conto consolidato di cassa delle amministrazioni pubbliche aggiornata al 30 settembre 2017, parla di un fabbisogno superiore al corrispondente dell'anno precedente, ove l'andamento del saldo è «influenzato, tra l'altro, dalle erogazioni di carattere straordinario al settore creditizio relative ai provvedimenti di tutela del risparmio».

Un caso che potremo verificare presto è costituito dalla riforma fiscale di Donald Trump, famosa per ridurre corposamente le tasse a ricchi e imprese e che molti osservatori considerano potenzialmente la causa di un'ulteriore dilatazione del debito pubblico statunitense, un debito che al momento costituisce in termini assoluti l'ordine di grandezza più consistente a livello globale (superiore ai 20 mila miliardi di dollari e in costante aumento da anni). La battaglia per la riduzione del carico fiscale è stata storicamente la bandiera del neoliberismo e dell’amministrazione Reagan, ma anche qui i risultati sono stati decisamente lontani dai proclami. Nel 1981 il governo federale tagliò le imposte allo scaglione con i redditi più elevati. Negli anni successivi dovette incrementare altri tributi per “reggere” lo sconto concesso ai più ricchi. Sotto la sua presidenza la spesa pubblica aumentò di oltre il 2% l’anno, trainata dalle spese militari. Crebbero anche i tanto vituperati dipendenti pubblici, mentre il debito federale ebbe un’impennata senza precedenti nella storia statunitense del XX secolo, al netto dei periodi bellici, sia in rapporto al PIL che in termini assoluti, con una crescita superiore ai 2 mila miliardi di dollari tra il 1981 e 1988, come sottolineò Will Bunch nel 2011 sul Washington Post. La teoria del taglio delle tasse divenne la politica del taglio delle tasse ai più ricchi, la teoria della riduzione dello Stato si trasformò nella politica dei meno servizi e di maggiore spesa per le commesse industriali, una politica di redistribuzione al contrario pagata attraverso un’impennata del deficit e del debito pubblico. Alla crescita economica vicina al 3% annuo contribuì maggiormente il taglio delle tasse ai più ricchi o l’incremento della spesa in deficit? Il discorso appare ancora più netto se si guarda alla politica della Thatcher, dove l’abbassamento delle tasse sulle imprese e sugli scaglioni più ricchi fu addirittura accompagnato da un incremento delle tasse sugli scaglioni più bassi e da un incremento delle imposte indirette e dove le entrate fiscali crebbero di circa due punti percentuali sul PIL nel corso degli anni Ottanta, così come crebbe la spesa pubblica.

La riduzione della pressione fiscale, dunque, è possibile, ma deve essere chiaro a che prezzo (rilancio di una crescita economica diffusa o esplosione del debito?) e a vantaggio di quali soggetti. La specificità dell'attuale caso italiano, inoltre, sta nel fatto che le attuali classi dirigenti non possono neppure ridurre le imposte in maniera significativa, poiché è tale la mole consolidata del debito sovrano che risulterebbe insostenibile un'ulteriore impennata di tale passivo.

Insomma appare chiaro come l'impegno pubblico non possa essere considerato meramente una zavorra che grava sul dispiegarsi delle forze di mercato, quanto, soprattutto in questa fase, uno dei suoi principali puntelli. È proprio ora che il mercato si dimostra non autosufficiente che il sistema economico ha bisogno dello Stato. Per tali motivi durante le campagne elettorali e gli scontri ideologici che ne fanno da contorno assistiamo al paradosso in cui tutti annunciano meno Stato e più mercato, ma poi praticano perlomeno più mercato grazie a più Stato. Un dilemma che non sarà risolto a breve, ma che continuerà ben oltre il 4 marzo.

*Fonte articolo: http://temi.repubblica.it/micromega-online/piu-mercato-grazie-a-piu-stat...