Panorama dopo le elezioni catalane

Mon, 08/01/2018 - 11:22
di
Josep Maria Antentas (da Viento Sur)*

1. Il 21D ha disegnato un paesaggio di insolita mobilitazione elettorale, con un’affluenza storica del 79,04% (secondo i risultati ufficiali, dopo il riconteggio dei voti dall’estero). I rapporti di forza tra i due grandi blocchi in lizza sono relativamente simili a quelli del 27S del 2015: 2.079.340 (47,49%) e 79 deputati indipendentisti vs. 1.902.061 (43,49%) e 57 deputati per i sostenitori dell’Articolo 155. E, nel mezzo, un piccolo e autoproclamato terzo spazio, quello di Catalunya en Comú-Podem: 326.360 (7,45%) e 8 deputati. In entrambi i blocchi, l’egemonia è nelle mani di un partito conservatore: Ciudadanos, in maniera chiara dentro il blocco costituzionalista, davanti a un PP affondato e a un PSC che, nonostante un piccolo incremento, non riesce ad uscire dal suo ruolo periferico nella politica catalana; e Junts per Catalunya nel blocco indipendentista, per quanto in forma molto più precaria e quasi in pareggio con ERC. Come al solito, le forze indipendentiste hanno ottenuto più voti nella parte interna della Catalogna, nei centri urbani piccoli, di dimensioni medie e nel centro delle grandi città, e hanno ottenuto meno sostegno nel grosso dell'area metropolitana di Barcellona e di Tarragona (in particolare nei quartieri tradizionalmente operai) e in altre enclavi (post)industriali. Tuttavia, ottiene leggermente meno voti rispetto al 2015 in alcuni dei suoi feudi tradizionali (probabilmente allora iper-mobilitati) e aumenta leggermente, in particolare grazie a ERC, nei nuclei urbani e nei quartieri dove tradizionalmente è più debole e le adesioni si situano al di sotto della media nazionale.

2. Partendo da una sconfitta inflitta quando era arrivato al suo momento culminante, l'indipendentismo è riuscito a mantenere mobilitata la sua confusa base sociale, ottenendo il massimo numero di voti possibili all’oggi, simile al numero di “Sì” del 1 ottobre (2.044.038), e leggermente superiore a quello delle elezioni del 27S del 2015 (1.966.508, 47 8%) e al voto Sì-Sì nella consulta cittadina non vincolante del 9N del 2014: 1.897.274 (per quanto a quel tempo il senso era differente e il confronto non è esatto). La forza dell'indipendentismo è nella sua consistenza e nella sua endurance, ma la sua debolezza sta nella stagnazione prolungata e strutturale dal 2014. Ciò non toglie il dato evidente, ossia che ha ottenuto più voti rispetto al blocco rivale. Nonostante la cattiva gestione del 1 ottobre da parte del governo e il carattere anti-climax della proclamazione della Repubblica del 27 ottobre, il popolo indipendentista è stato fedele in massa alle proprie organizzazioni politiche e sociali di riferimento. Ha mantenuto la tensione elettorale davanti alla sfida da parte dello Stato e non ha canalizzato la propria angoscia verso un voto di castigo a favore della CUP. L'offensiva repressiva dello Stato ha provocato una reazione difensiva nelle fila della base indipendentista, per quanto probabilmente con meno speranze e meno chiarezza del periodo precedente. Ma riflette, a un livello più di fondo, una caratteristica costitutiva del movimento emerso 5 anni fa, con l'eccezione dei giorni decisivi tra il 20 settembre e il 3 ottobre: la sua marcata logica istituzionale, in particolare dopo le elezioni del 27S 2015, la sua poca capacità di rompere e l'inquadramento disciplinato della ANC (e di Òmnium).

3. Contro ogni pronostico, la battaglia tra ERC e Puigdemont è finita con la vittoria del secondo. I limiti della formazione di Juqueras e Rovira ancora una volta sono risultati evidenti. Senza abbrivio, è la più viva espressione della politica senza artigli dell'indipendentismo ufficiale. Di quella politica intesa non come “un’arte del tempo rotto, della congiuntura, del momento propizio di cui si deve approfittare”, secondo un leninismo alla Bensaïd, ma come il lamento costante dell'occasione persa e la rinuncia a sfruttare al massimo le possibilità della situazione concreta, a mo' di una politica del non osare come substrato strategico. La rimonta di Puigdemont si spiega con la legittimità della figura presidenziale in esilio. C’è in questo senso una parte di voto congiunturale per il president, che è stato abile nel costruire un dispositivo elettorale parzialmente autonomo rispetto al PDeCAT (e la cui gestione quotidiana sicuramente provocherà attriti tra i nuclei di potere della destra catalana) e abbracciare un discorso relativamente epico rispetto ad ERC (per quanto ugualmente timido in termini assoluti) e, con uno studiato tono da maverick inclassificabile, capace di affermare che ciò che era in gioco non fosse tanto la sua personale candidatura quanto la legittimità dell'istituzione stessa che incarnava la giornata del primo ottobre. Piugdemont ha così fuso molto la sua figura con quella dell'istituzione presidenziale e con quella del popolo catalano stesso, perlomeno del popolo indipendentista. Il procés iniziato nel 2012 ha sofferto del iper-presidenzialismo, con un centralismo permanente della leadership presidenziale, prima di Mas e poi di Puigdemont, sempre trasformata nella chiave di volta di tutta l'architettura strategica. E ciò è stato decisivo il 21D. Ma quello dell'indipendentismo è stato un iper-presidenzialismo particolare, più legato all'istituzione che alla persona (nonostante i successivi ridicoli tentativi di celebrazione e di culto della personalità dei suoi inquilini). Artur Mas lo può testimoniare. E Puigdemont ovviamente conosce la questione direttamente.

4. Il successo dell’operazione Puigdemont è un'ulteriore prova del comprovato istinto di conservazione della destra catalanista che, nonostante abbia ottenuto i suoi peggiori risultati della storia, resiste senza perdere l'egemonia nel campo nazionalista catalano, utilizzando i suoi legami istituzionali e sociali forgiati attraverso decadi al potere per giocare con vantaggio rispetto agli avversari nello stesso campo indipendentista. L'abilità di sopravvivenza e la debolezza strutturale vanno mano nella mano per una destra a cui il modello neoliberista impedisce di consolidare una base sociale solida e che può essere solo parzialmente galvanizzata con la proposta della creazione di uno Stato autonomo, ma a costo di uno scontro con lo Stato ogni volta più complesso da gestire.
La destra catalanista era arrivata al potere nel novembre del 2010 con un progetto ultra liberista di governo dei migliori che era entrato rapidamente in un netto calo di popolarità e legittimità. Il processo indipendentista avviato nel 2012 le ha fornito un sistema e una narrativa a cui aggrapparsi, un’epica che le mancava e una ragion d'essere che aveva perso. Ma sempre con due contraddizioni insolubili interconnesse: il contrasto tra il discorso strategico formulato dal movimento di un’indipendenza facile e indolore e le difficoltà reali del compito; la tensione tra il progetto reale del movimento (l'indipendenza) e quella del governo catalano (utilizzare l'indipendentismo per riuscire a rinegoziare la relazione tra Spagna e Catalogna). Entrambe le contraddizioni presenti nel progetto, sommate alla crisi economica e all'eredità anti-establishment del 15M, hanno impedito alla destra catalanista di solidificare la base sociale del suo nuovo progetto e cristallizzare un nuovo blocco sociale. Qui affondano le radici della sua debolezza.

5. Per 5 anni, Convergencia aveva perso sostegno in favore di ERC, più credibile, da un lato, rispetto all’indipendenza e meno associata, dall'altro, al vecchio regime, al neoliberismo e alla corruzione. È il primo aspetto quello in cui adesso si è prodotto un cambio, per via delle titubanze di ERC in questa campagna elettorale, della riformulazione del dibattito in termini di legittimità presidenziale e continuità istituzionale, e della relativa autonomizzazione di Puigdemont. Ma la lista di Junts per Catalunya ha in realtà un’importante componente di fuga in avanti iniziale risalente al 2012 con la svolta indipendentista. Un salto mortale in cima a un altro salto mortale. La destra ex-Convergencia si muove ancora tra la rifondazione non culminata e il suo proprio schema Ponzi strategico. Junts per Catalunya in nessun caso si può considerare un progetto finito e dipende totalmente dalle vicissitudini della leadership personale di Puigdemont, che lotterà per non rimanere una figura simbolica stretta tra l'esilio e il carcere. Il suo successo elettorale non implica che la destra catalana sia riuscita, infine, a rinnovarsi in modo soddisfacente dopo il lancio fallimentare del PDeCAT nel luglio del 2016. Ma ora si trova in condizioni migliori per farlo.

6. La vittoria di Ciudadanos, 1.109.732 (25,37%), è frutto in larga misura della concentrazione del voto spagnolista di destra ai danni del PP e ha poi beneficiato dell’aumento dell’affluenza, captando gran parte del voto precedentemente astensionista di profilo popolare. E' stato favorito da una logica di voto utile e strategico anti-indipendentista che si attiva in chiave identitaria, ottenendo buoni risultati tanto in zone di alto reddito quanto nei quartieri operai delle grandi città. È tanto un voto identitario, quanto un voto di ordine e paura. La sua ascesa esprime una doppia dinamica di fondo: una combinazione infernale tra logica identitaria nazionale escludente e distruzione politico-culturale della classe lavoratrice. Ma una parte importante del suo voto è di tipo congiunturale o, perlomeno, circoscritto a delle elezioni autonomiste, e non si stabilizzerà in altri appuntamenti elettorali come le municipali o le politiche generali. Il successo del partito arancione si basa su un mix, in primo luogo, tra un discorso di rigenerazione democratica e modernizzazione neoliberista che attrae tanto le classi possidenti quanto i settori conservatori della classe lavoratrice, che sposano una mentalità meritocratica e individualista e, in secondo luogo, nell'attivazione di una pulsione identitaria spagnolista anti-indipendentista e che storicamente si è costruita in base a una chiamata alle origini e alla lingua (catalani di origine spagnola e castigliano-parlanti) come fattori di configurazione dell'identità politica personale e collettiva. È grossomodo un progetto à la Macron di modernizzazione neoliberista mainstream che può presentarsi come estranea alla classe politica tradizionale, per quanto l'attivazione identitaria del suo voto e la costruzione identitaria della sua politica ricordino la logica dell'estrema destra europea (ma non riaffermando un'identità nazionale rispetto allo straniero, quanto un’identità nazionale spagnola dominante rispetto a quella catalana, sciolta nella prima).

7. L'indipendentismo ha vinto le elezioni, ma senza nemmeno l'ombra di una tabella di marcia chiara. Una vittoria senza un piano. La gestione del 21D sarà complessa, una volta che l'ipotesi (come narrazione pubblica ufficiale) dell'indipendenza facile e della disconnessione piacevole è stata smentita. Il movimento che è emerso nel 2012 non ha precedenti per quanto riguarda il suo carattere di massa e la sua costanza. Ha ottenuto il massimo numero di voti della propria storia dopo aver sofferto (e forse essersi auto-inferto) una grande sconfitta politica il 27O e dopo aver gestito in maniera pessima l’1-O. Ma la sua strategia di fondo si è esaurita. La politica del prima l'indipendenza e dopo il resto, la politica basata sullo svincolare la questione nazionale da quella sociale, è un paradigma che si è esaurito ed è il responsabile dei danni collaterali al movimento, degli effetti non desiderati dai suoi promotori. Non serve per creare una maggioranza sociale più ampia né a forgiare un progetto che garantisca un cambio economico e sociale, e ha dato adito alla polarizzazione identitaria che spinge in avanti Ciudadanos nei quartieri operai. Ma lo fa in uno scenario di devastazione sociale causato da un neoliberismo la cui implementazione ha contato in buona misura sulla complicità della sinistra e del movimento operaio. La dimenticanza dei quartieri popolari da parte dell'indipendentismo si somma a una lunga tradizione di dimenticanze che inizia con l'istituzionalizzazione del movimento operaio a partire dalla transizione e la svolta verso il social-liberismo, il nazionalismo conservatore pujolista centrato nella classe media e la Catalogna meno urbana, e il catalanismo social-liberista maragalliano che cercava di attirare il sostegno dei settori della classe media ex-sostenitrice di Convergencia, ma in uno scenario di esclusione delle periferie operaie. La nuova sinistra nata dopo il 15M, Podemos e los Comunes, ha basato gran parte del proprio successo sul recupero del consenso dei quartieri popolari, ma lo ha fatto con un modello elettorale-mediatico superficiale che non ha gettato radici profonde e che, pertanto, ha una capacità molto limitata di invertire tendenze storiche di destrutturazione sociale, culturale e politica e si dimostra vulnerabile ai cambi di congiuntura. 

8. Coniato nel 1968 da Josep Benet, lo slogan un sol poble (un solo popolo) è stato parte costitutiva dell'immaginario politico del catalanismo, riemergendo in continuazione in momenti diversi ma decisivi, tra questi l'ottobre del 2017. Nel suo significato originale aveva un doppio valore, sociale e nazionale, che esprimeva al contempo la volontà di integrazione nazionale dell'emigrazione dal resto dello Stato spagnolo venuto in Catalogna nel quadro di un progetto di integrazione sociale. Ma, terminata la Transizione, l’articolazione tra il livello nazionale e quello sociale si è indebolita per via di un doppio processo combinato: da una parte, l'ascesa del pujolismo la cui visione identitaria della nazione, condita con liberismo economico, ruotava attorno alla classe media e relegava a un ruolo subalterno la classe lavoratrice, che era stata il pilastro dell'anti-franchismo; dall'altro lato, la decomposizione del movimento operaio frutto dell'impatto della ristrutturazione neoliberista e del suo stesso processo di istituzionalizzazione e burocratizzazione. Svuotato dal basso, con una base sociale smembrata, e integrato nello Stato dall'alto, il movimento operaio storico smise di incarnare tanto un progetto di trasformazione sociale quanto un progetto di articolazione dinamica tra identità di classe e identità nazionale. Pertanto, una parte strutturale della classe lavoratrice catalana fu relegata a una posizione periferica tanto nell'aspetto sociale quanto nella questione nazionale, sperimentando un'importante disaffezione nei confronti delle istituzioni catalane, come dimostra la ben nota astensione differenziale nelle elezioni autonomiste, una delle prove superficiali più visibili di questo processo.

9. L'indipendentismo contemporaneo ha ripreso anche l'idea di un sol poble ma con un significato differente da quello originale, senza la sua dimensione di classe. Da grande conoscitore del movimento operaio anti-franchista e dell'evoluzione storica dei quartieri operai, lo segnala in maniera pertinente lo storico Marc Andreu che, tuttavia, trascura la responsabilità della sinistra e gli effetti della sua burocratizzazione e social-liberalizzazione nella mancata sincronizzazione tra il sociale e il nazionale. La mancanza di vincoli tra il progetto nazionale e la questione sociale è ciò che rompe a metà l'idea di un solo popolo, spiana la strada per la sua frattura in chiave identitaria e dà spazio a Ciudadanos. Affinché ci sia un solo popolo nel senso dell'esistenza di un consenso sociale minimo attorno a riferimenti socio-culturali e di una identità collettiva, è necessario che esista anche un solo popolo in termini di uguaglianza e giustizia sociale. Qui affonda le radici il tallone di Achille della strategia fondante dell'indipendentismo. Nel 1845 il politico conservatore britannico Benjamin Disraeli ha pubblicato il suo romanzo Sybil o le due nazioni, sulla situazione miserabile della classe operaia inglese. L'idea delle due nazioni è stata ricorrente nella storia per fare riferimento alla frattura sociale. Riprenderla oggi è utile nel dibattito attuale sulla Catalogna e segnala il legame intimo tra la questione sociale e quella nazionale, necessario per pensare strategicamente a ciò che significa un sol poble se si vuole che questa idea abbia un contenuto emancipatore. Allo stesso tempo, l'idea stessa di un sol poble ha bisogno di essere attualizzata nel quadro delle trasformazioni sociali in Catalogna, la frammentazione sociale, i cambiamenti culturali, il processo di individualizzazione e, in particolare, a fronte dell'impatto della nuova immigrazione proveniente da fuori dallo Stato spagnolo. Un solo popolo plurale? Un popolo di popoli? La volontà di incontrare una base di riferimenti condivisi nel quadro della pluralità e della diversità culturale, in ogni caso. Lavorare in questa direzione implica muoversi oltre i limiti strategici dell'indipendentismo e della politica passiva di coloro che dalle fila della sinistra si sono limitati a segnalarli, senza pero avere alcun piano per intervenire nei processi reali.

10. Un bivio segna il futuro immediato dell'indipendentismo. O aggrapparsi a un paradigma strategico esaurito, che si è scontrato in maniera eclatante con lo Stato, o rifondarsi per mantenere viva la fiamma della rottura. In altre parole: immobilismo strategico, condito con una combinazione paradossale tra l'illusionismo di base e un nuovo vittimismo da sconfitta post 27-O, oppure rifondazione-riformulazione generale? L'immobilismo strategico implicherà entrare in una fase di agonia politica, per quanto dissimulata a breve termine da una logica anti-repressiva difensiva, nella quale l'indipendentismo può finire per trasformarsi in un movimento con un progetto di rottura con lo Stato disconnesso da una tabella di marcia e da un obiettivo a breve termine. Vale a dire, scollegare il suo obiettivo formale dalla sua pratica quotidiana più prosaica e diventare il protagonista di un conflitto strutturale della politica catalana e spagnola, ma senza la pretesa di materializzazione né di soluzione concreta dello stesso. Il 21-D ha vinto un “indipendentismo senza indipendenza”, usando l'espressione del commentatore conservatore Enric Juliana, un indipendentismo che non è riuscito a concretizzare l’indipendenza, ma che formalmente ha ancora il progetto di andare verso l'indipendenza, per quanto attualmente senza un piano convincente, nemmeno da un punto di vista propagandistico (dal punto di vista strategico i suoi limiti sono sempre stati visibili). La questione centrale è se si vedrà costretto a passare a una fase non solo di indipendentismo senza indipendenza, ma anche di indipendentismo senza progetto di indipendenza, e se ciò avverrà in forma traumatica in un clima di sconfitta e di demoralizzazione, mescolato a una dinamica esclusivamente difensiva anti-repressiva, o se invece sarà capace di farlo nel segno di una strategia di lotta viva per aprire una nuova fase. Ciò può avvenire banalmente attraverso la solidificazione di un blocco indipendentista troppo debole per vincere ma troppo forte per essere definitivamente sconfitto, generando così una condizione permanente del conflitto, nel segno di un’instabilità normalizzata e utilizzata dalle direzioni di entrambi i blocchi in lizza per mantenere coesa e mobilitata la propria base sociale. Ma potrebbe avvenire anche attraverso un riorientamento globale della prospettiva e degli obiettivi dell'indipendentismo, in un senso che permetta di superare le sue debolezze di fondo e i suoi aspetti più contraddittori.

11. La strada della riformulazione strategica implica, come già abbiamo segnalato precedentemente in molti articoli, connettere l'agenda indipendentista alle politiche contro l'austerità e difendere un processo costituente compatibile con una soluzione indipendentista e una confederale. Questa doppia svolta è decisiva per i due compiti urgenti che ha l'indipendentismo: allargare la propria base sociale e, allo stesso tempo, articolare un’alleanza in Catalogna con i settori federalisti sostenitori del diritto a decidere e avversari del Regime del 1978 e rompere l'isolamento che soffre in tutto lo Stato, che ha spianato la strada alle misure repressive messe in atto da Rajoy. Ciò si sposa molto male con la leadership di Piugdemont all'interno dell’indipendentismo e con una ANC che da ottobre incarna meglio che qualsiasi altra cosa la crisi strategica dell’indipendentismo, rimanendo incatenata da un lato al paradigma fondante del prima l'indipendenza e dopo il resto, e dall'altro essendosi resa completamente subalterna al governo catalano e al President. In realtà se la ANC vuole l'indipendenza della Catalogna la prima conclusione che dovrebbe trarre sarebbe la necessità di rendersi indipendente dal proprio paradigma iniziale e dallo stesso governo catalano. In altri termini, la strategia indipendentista ha bisogno di indipendenza strategica dai propri limiti e dall'esecutivo catalano. Tuttavia, implementare una strategia di disconnessione dalle proprie ipotesi fondanti e dall’eccessiva istituzionalizzazione governamentale del procés (in particolare dopo il 2015) non risulta affatto facile. E non c'è alcun segnale del fatto che le cose andranno in questa direzione. Però, davanti alla paralisi delle grandi organizzazioni politiche e sociali dell'indipendentismo, porsi questa questione necessaria di orientamento dovrebbe essere il compito principale della sinistra indipendentista raggruppata attorno alla CUP (e ciò implica anche mettere in dubbio la sua stessa strategia) e della sinistra non indipendentista rappresentata da Catalunya en Comú-Podem (la qual cosa implica abbandonare la passività come orientamento permanente). 

12. Al di là della sua capacità concreta di superare i suoi stessi limiti e le sue impasse strategiche, l'indipendentismo si è trasformato in un dato strutturale della società catalana e in un movimento politico sociale duraturo e di massa, che implica un mutamento sostanziale dell'obiettivo tradizionale del catalanismo nelle sue diverse varianti: la riforma della Spagna. Ha radici solide, utilizzando un gergo gramsciano, nella “società civile” e nella “società politica”. Però risente di un triplice problema di fondo: primo, la dialettica tra il sociale e il politico non si è sviluppata in una direzione di crescente subalternità del primo rispetto al secondo, facilitando lo spostamento della direzione politica del procés verso la sfera istituzionale, in uno scenario in cui questa è stata dominata da correnti moderate; secondo, la società civile indipendentista è stata fortemente strutturata dalla ANC (e in misura minore da Ómnium), scheletro reale di un movimento con una costanza e una cadenza ammirevoli, ma sprovvisto di abbrivio e artigli e armato strategicamente con ciò che potremmo chiamare ipotesi immateriali, costitutive di una sorta di idealismo strategico mal preparato per far fronte alla materialità delle relazioni di potere. Solo nel periodo tra il 27-S e il 3-O, nella breve fase elettrizzante del movimento, è emersa una società civile dirompente; terzo, la società civile indipendentista soffre di importanti distorsioni: di classe, oscillando verso il mondo delle classi medie (vecchie e nuove) e impiegati della funzione pubblica; socio-spaziali, gravitando nelle città medie, nei centri delle grandi città e nelle località piccole; e di età, concentrandosi nella gioventù e nei giovani adulti. 

13. Quale esito? Dopo essere arrivato al suo punto più alto, l'indipendentismo si è infognato strategicamente, lasciando trasparire di colpo tutte le sue debolezze. Incapace di sostenere lo scontro con lo Stato, uno scontro ontologicamente negato dalla sua ipotesi fraudolenta di “disconnessione”, non è riuscito a vincere lo Stato, ma nemmeno è stato sconfitto definitivamente. Stiamo entrando in una fase di normalizzazione di un conflitto senza fine che si trasformerà nell'elemento strutturante della politica catalana e in buona misura di quella spagnola? È ancora impossibile saperlo. Paradossalmente, l'indipendentismo ha agito allo stesso tempo come il principale sfidante del Regime del 1978 e come capro espiatorio che ha facilitato una chiusura istituzionale temporanea dall'alto, tanto difensiva quanto autoritaria e aggressiva, in un modo che in un'altra occasione abbiamo chiamato resistenza offensiva, la cui natura propria continua tuttavia ad alimentare le ragioni di fondo della crisi del regime. La crisi politica e di legittimità permanente come forma di governabilità autoritaria è allo stesso tempo un'espressione di forza (la capacità di gestire la crisi e di approfittare delle sue contraddizioni per riprendersi l'appoggio attivo di una parte della società) e di debolezza (l'impossibilità di stabilizzare un nuovo blocco sociale e una nuova egemonia che generi una normalità non conflittuale). Rajoy e la rete del potere dominante approfittano del rilassamento relativo della situazione economica e dell'esaurimento del ciclo del 15-M per usare la questione catalana come elemento per isolare Podemos e facilitare una chiusura apparente della crisi del regime. Per quanto di successo a breve termine, sembra più un rimedio provvisorio che una soluzione strutturale e potrebbe rivelarsi molto fragile, in particolare se la situazione economica precipiterà di nuovo. Ma al di là della sua attitudine a dare una svolta reazionaria al clima politico e orchestrare una contro-offensiva, al momento il blocco dominante di potere si è rivelato incapace di articolare una “rivoluzione passiva”, in senso gramsciano, che culmini in una autoriforma dall'alto e reintegri/disattivi una parte dell'indipendentismo catalano e la base sociale di Podemos in un nuovo progetto sociale, politico e di Stato. Per prima cosa avrebbe bisogno di una riforma dello Stato che si scontra con il nucleo duro, con il codice sorgente, della Costituzione del 1978 e dell'identità di Spagna. In secondo luogo richiederebbe un nuovo ciclo di espansione economica e di capacità di consumo che armasse una prospettiva di futuro credibile (per metà reale, per metà immaginaria) per le classi medie e per la gioventù. Finché ciò non è possibile, la breccia per il cambio democratico e di rottura continuerà ad essere aperta, nonostante le difficoltà del momento, come anche i rischi di un’involuzione tanto autoritaria quanto reazionaria.

14.  Da un punto di vista favorevole a un cambio sociale emancipatorio, le due notizie peggiori del 21-D sono i cattivi risultati della CUP e di Catalunya en Comú-Podem, due forze la cui mutua esclusione dalle rispettive alleanze già è un primo segnale di infognamento strategico. Contrariamente ai commenti convenzionali dei quotidiani, i risultati elettorali non possono essere l'unica forma di valutazione del successo o della sconfitta del progetto, né dell'orientamento di una forza politica. Essi devono essere messi in relazione con l'influenza politica generale di un partito, con la sua capacità di definire l'agenda politica e condizionare il dibattito pubblico, con la misura in cui agisce o no come un riferimento politico-culturale generale per ampi settori sociali e con le sue possibilità di organizzare e mobilitare intorno alle proprie iniziative politiche. L’elettoralismo analitico è, in questo senso, tanto superficiale quanto l’elettoralismo strategico. La relazione tra il successo elettorale e la giustezza di un orientamento politico di un partito è ulteriormente complessa. Possono darsi perfino situazioni nelle quali un partito ottenga brutti risultati non come conseguenza di una linea politica sbagliata, ma per la difesa ciò che è corretto in una congiuntura complessa. Andare controcorrente può essere in molte occasioni l’unica cosa degna e retrospettivamente coraggiosa. Ma può costare caro a breve termine. D'altra parte, è vero anche l'opposto: adattarsi alle pressioni del contesto può in alcune situazioni salvare la congiuntura, ma al prezzo di gettare le basi per una sconfitta politica ulteriore di larga portata. Il parlamentarismo riformista è un vero maestro in questo. La complessità della relazione tra orientamento politico, progetto e risultati elettorali non può servire, tuttavia, per cadere in una mentalità minoritaria resistenzialista e auto-giustificante quando le cose vanno male. Aspirare a costruire un partito maggioritario deve essere un obiettivo irrinunciabile e, in particolare, comprendere la non-linearità di questo vincolo è una condizione necessaria per non scivolare né sul versante resistenziale autocompiacente né su un risultatismo senza contenuto. E, nel doppio caso che ci riguarda, CUP e Catalunya en Comú Podem, le delusioni del 21-D dovrebbero spingere alla autovalutazione tanto della linea politica seguita quanto del proprio progetto.

15. Il passo indietro della CUP è stato evidente: da 336.375 voti (8,2 %) e 10 deputati nel 2015 a 193.352 (4,45%) e 4 deputati adesso. Ha perso, in favore di ERC, soprattutto nell'area metropolitana di Barcellona, molti dei voti prestati che aveva ottenuto allora da parte di elettori che non volevano votare a Junts pel Sí, ma sembra anche aver sofferto fughe verso Junts per Catalunya nella parte interna della Catalogna. Per molti elettori ha pesato più il voto utile per le candidature istituzionali, in particolare ERC, che non un giudizio critico su come il governo catalano ha gestito l’1-O. I risultati deboli nella gran parte delle grandi città mostrano i limiti della CUP come dispositivo politico-organizzativo. Al di là di una questione di orientamento, il 21-D lascia intravedere problemi più strutturali del suo progetto che, nonostante tutto, è di una forza senza paragoni nel campo dell'anticapitalismo europeo. Superarli implicherebbe considerare l'unità popolare come un progetto strategico ampio che trascenda la sigla Unitat Popular e che richiede alleanze e interlocuzione con altre realtà della sinistra politica e sociale che, oltretutto, non si situano necessariamente all'interno dell'indipendentismo. Questo implica, allo stesso tempo, giocare dentro e fuori dal procés e non esclusivamente al suo interno, in un contesto in cui ridefinire le premesse fondanti dello stesso è una questione imprescindibile.

16. Il risultato di Catalunya en Comú Podem, 326.360 (7,45%) è anch’esso stato deludente, situandosi più in basso del precedente, la coalizione fallita tra Podemos, ICV e EuiA, Catalunya Sì que es Pot (CSQP), che ottenne 367.613 (8,94%). Stretta nella polarizzazione elettorale, non è riuscita a farsi spazio e, plausibilmente, ha perso voti rispetto alle elezioni generali del 2015 e 2016 verso un lato e verso l'altro, in favore di ERC (e CUP) e del PSC (e Ciutadans). La questione di fondo non è tanto l'orientamento che ha adottato durante la campagna elettorale, ma tutta la politica precedente a partire dalla sua irruzione nella politica catalana il 20D del 2015 in avanti, nella quale ha abbracciato una passività strategica tatticista, aspettando il rapido collasso dell’indipendentismo, invece di cercare di incidere in maniera attiva nella congiuntura, formulando una proposta costituente e anti-austerità per la Catalogna, che tentasse di far convergere la pulsione ereditata dal 15-M e quella del movimento indipendentista. Ma oltre al suo orientamento sul dibattito indipendentista, è il futuro di tutto il processo dei Comunes ad essere in gioco. Una volta perso l’abbrivio delle due vittorie nelle elezioni generali (20-D 2015 e 26-G 2016) e senza l'impulso militante del lancio di Barcelona en Comú dell'estate 2014, Catalunya en Comú è stata protagonista di una nascita fallita nell'aprile del 2017. Non è decollata né da un punto di vista organizzativo né da un punto di vista politico, si è impelagata in una lite gestita male con Podem ed è rimasta infangata nella strada verso il primo ottobre. Nei suoi pochi mesi di vita si è andata configurando come un partito elettoralista, istituzionalizzato, senza un dibattito interno vivo e carente di radicamento territoriale e sociale e, ancora peggio, senza alcun piano per crearlo. Per questa nuova tappa, il suo gruppo dirigente dovrà decidere se si situa definitivamente nella continuità storico-strategica che va dai Patti della Moncloa (1977) al governo tripartito (2003-2010), oppure se si colloca nella traccia della contestazione costituente del 15-M. Dilemma cristallino, a scatola aperta, che ammette tante sfumature tattiche ma non tollera alcuna ambiguità strategica.

*Fonte articolo: http://vientosur.info/spip.php?article13365
Traduzione di Marta Autore