Catalogna, progetto di Repubblica o Repubblica immaginaria?

Wed, 08/11/2017 - 10:48
di
Josep Maria Antentas*

1. Senza un piano. Questo è il riassunto della strategia del governo catalano dopo la proclamazione della Repubblica Catalana il 27 di ottobre. Ricapitoliamo: il governo catalano era stato eletto nelle elezioni del 27 settembre del 2015 con una tabella di marcia non realistica di “disconnessione” dallo Stato spagnolo, che sarebbe avvenuta attraverso l'approvazione di leggi successive e la creazione di “strutture di Stato”, in un periodo di 18 mesi. Di fronte all'impotenza di questo percorso, soprattutto grazie all'insistenza della CUP, il governo catalano ha assunto nel settembre del 2016 la realizzazione di un referendum sull'indipendenza da realizzarsi a fine 2017. Si auto-emendava così, senza mai riconoscerlo, la tabella di marcia fissata nell'autunno del 2014 quando il governo si rifiutò di tentare di concretizzare il referendum previsto per il 9 di novembre di quell'anno, reso illegale dal Tribunale Costituzionale, e optò per una consultazione cittadina non vincolante, come passo preliminare alla trasformazione delle elezioni autonome del settembre 2015 in elezioni plebiscitarie. Dopo un lungo percorso si tornava alla casella di partenza, il referendum. Man mano che si avvicinava la data, l'esecutivo di Puigdemont procedeva con i preparativi per quanto rimanesse sempre convinto, in fondo, che non avrebbe potuto arrivare fino in fondo e che, in qualche momento del tragitto, il suo cammino sarebbe stato improvvisamente bloccato per l'intervento dello Stato. Si trattava quindi di resistere fino a dove si poteva. E, alla fine, è arrivato molto più lontano di quello che avesse mai immaginato e preparato.

2. Senza alcuna possibile marcia indietro. Il successo logistico dell'1 di ottobre (evitare la persecuzione da parte della Polizia delle urne e delle schede in particolare) è stato qualcosa di reale. Ma il referendum sì è materializzato non grazie alla minuziosa pianificazione del governo e della direzione della Assemblea Nazionale Catalana (ANC), ma grazie alla dinamica di autorganizzazione dal basso che si è data dopo Il golpe repressivo del 20 settembre e che si è accelerata nei giorni precedenti all'appuntamento referendario, con l’occupazione e la difesa dei collegi elettorali. Tanto il governo quanto la ANC si sarebbero accontentati di ottenere l'apertura dei centri di votazione e distribuire urne e schede. Avevano assunto che la polizia spagnola avrebbe impedito la votazione e il loro obiettivo era ottenere la foto di lunghe code di cittadini davanti ai collegi elettorali chiusi con la forza. La vicenda, si sa, è andata in un altro modo. Il referendum ha avuto luogo e l'indignazione per la repressione ha prodotto la giornata di mobilitazione del giorno 3. È incominciata allora una politica di titubanze da parte di un governo catalano che non aveva previsto questo scenario e che non sapeva come affrontare l'escalation dello scontro che si prevedeva nel caso avesse proclamato, in un modo o nell'altro, la Repubblica Catalana e che nemmeno ha mai avuto una strategia di alleanze con i settori non indipendentisti ma di rottura che si erano mobilitati nei giorni 1 e 3. Dopo la brutta messa in scena della “sospensione” della dichiarazione il giorno 10 e un tentativo fallito di convocare elezioni nel caso il governo spagnolo avesse ritirato l'applicazione dell'articolo 155 il giorno 26, l'esecutivo di Puigdemont si è visto costretto a proclamare la Repubblica Catalana senza alcun piano su cosa fare dopo per cercare di far diventare la propria dichiarazione qualcosa di più che simbolico.

3. La responsabilità irresponsabile. Gestire il tempo e lo spazio è fondamentale per qualunque movimento politico e sociale. A partire dal giorno 3, il governo Catalano e la ANC, hanno gestito entrambe le variabili in maniera pessima. Hanno lasciato passare il momento iniziale per addentrarsi in una politica di segretezza e cattiva comunicazione che ha confuso e disorientato non pochi dei suoi seguaci, proclamando infine la Repubblica piuttosto a freddo. E dopo la dichiarazione hanno rinunciato a qualunque gesto istituzionale che trasmettesse una volontà reale di perseguirla e, soprattutto, hanno rinunciato alla mobilitazione di piazza e all’occupazione di spazi simbolici e strategici. A partire dal giorno 27 c'è stato un vuoto di leadership assoluto e un'assenza di direzione. L'esecutivo di Puigdemont ha diffuso un'immagine di rinuncia e mancanza di volontà. Senza dubbio, un manuale strategico in negativo. La storia dei movimenti popolari è piena di situazioni simili in cui dirigenze politiche e sociali moderate sono incapaci di amministrare in maniera coerente il movimento che guidano, appiattendosi nei momenti decisivi, confondendo la propria base e, in ultima analisi, mettendo le ali alla reazione nel nome della prudenza. Possiamo chiamare questa politica la politica della responsabilità irresponsabile.

4. Momento non processista? La proclamazione della Repubblica senza alcun piano strategico per renderla effettiva è, in qualche modo, il culmine politico del processismo istituzionale, cioè, della politica del guadagnare continuamente tempo e di aggirare lo scontro a partire dall'inizio del procés nel 2012. La strada verso l’1 di ottobre, dopo l'adozione del compromesso con la celebrazione di un referendum nel settembre del 2016, è stata una svolta forzata dall'esaurirsi della tabella di marcia processista. L'appuntamento dell’1 ottobre ha finito per favorire uno scontro con lo Stato che di fatto negava l'essenza stessa del processismo, ma che è emerso dal processismo ed è stato gestito dal processismo, seppur sotto la pressione parzialmente eccedente dei non processisti. È stato un momento non processista dentro il processismo, che ha aperto la porta a una fase non processista ma amministrata dal processismo e che è culminata con un fatto non processista, la proclamazione della Repubblica, nella maniera processista, cioè, simbolica e vuota.

5. Ragioni. I limiti mostrati dal governo catalano nel momento della verità si devono trovare nella sua stessa natura, composizione di classe e cultura politica. Il PDeCAT è un partito neoliberista che si è visto spinto verso il cammino indipendentista perché non aveva altra alternativa. Molti dei suoi quadri sono diventati indipendentisti e altri, come Piugdemont, lo sono sempre stati. Ma è un partito dell'ordine e con una base sociale conservatrice, poco amante delle rotture e dei cambiamenti bruschi, pragmatico e gradualista per natura, legato al mondo economico (per quanto i suoi vincoli con il grande capitale si siano incrinati per via della sua deriva indipendentista) e vulnerabile alle pressioni di questo, e che non crede nella mobilitazione popolare. ERC, dal canto suo, incarna alla perfezione la sintesi tra una genuina convinzione indipendentista e una cultura politica poco avvezza alla lotta, gradualista e con una base sociale di classe media progressista che, a parte in alcuni settori legati all'insegnamento, è stata in larga misura estranea alle grandi mobilitazioni sociali per questioni diverse dall’indipendenza nel recente passato e che manca di abbrivio. È proprio in queste settimane decisive che si sono condensati tutti i limiti strategici, di progetto e di base sociale delle forze che formano il governo catalano e che sostengono il processo indipendentista in generale (con l'eccezione della CUP, che rappresenta una sensibilità minoritaria al suo interno). Limiti d'altra parte ben visibili fin dall'inizio che però non avevano ancora attraversato un determinante test di stress strategico.

6. Ambiguità. I fatti di settembre e ottobre hanno evidenziato l'ambiguità del governo catalano rispetto alla mobilitazione popolare. La sua pessima gestione delle aspettative della base sociale del movimento tra i giorni 3 e 27 ottobre non sono nulla più che il riflesso di una concezione della politica avvezza alle manovre istituzionali e a cui manca qualunque cultura della gestione di un movimento di massa. Oltre al governo, dal 20 settembre in poi si è evidenziata con forza l'impasse strategica della stessa ANC (e di Òmnium, per quanto esso giochi un ruolo secondario e in molti aspetti abbia condotto una politica più audace). A partire dal suo avvio nel 2012 il procès ha visto un movimento di massa inaudito, sotto la leadership sociale della ANC. Ma la sua è stata una concezione verticale e controllata del movimento, più favorevole a una cultura della rappresentanza e della delega che all’autorganizzazione. La dinamica di parziale eccedenza (conviene sottolineare che è stata parziale per non esagerare) dei giorni 20 settembre e 13 ottobre è stata imprescindibile per governo e ANC (e Òmnium), ma allo stesso tempo ha fatto loro paura e ha generato apprensione per via della perdita del controllo della situazione. Di fronte al vuoto di leadership mostrato dal governo catalano dopo il 27 ottobre, appare un secondo limite della ANC: la sua subalternità ai partiti indipendentisti maggioritari e la sua incapacità di assumere un ruolo di direzione in maniera indipendente da questi. La sua politica a partire dal 2012 è stata quella di mettere pressione al governo catalano affinché avanzasse, ma senza mai sfidarlo o dargli fastidio. Si piegò in maniera docile alla risposta negativa dell'allora presidente Artur Mas di cercare di realizzare il referendum del 9 novembre 2014 proibito dal Tribunale Costituzionale e accettò la proposta di trasformare le elezioni del 27 settembre del 2015 in un plebiscito e la successiva tabella di marcia non realistica della “disconnessione”. Una tabella di marcia nella quale, inoltre, l'iniziativa è rimasta sempre più nelle mani del governo e in cui la ANC ha giocato sempre più un ruolo di accompagnatrice.

7. Colpo ad effetto. La convocazione improvvisa delle elezioni in Catalogna da parte di Rajoy dopo aver sciolto il governo catalano mette nero su bianco i reali rapporti di forza. Più che un dualismo di poteri, ciò che è esistito in Catalogna negli ultimi due mesi è un dualismo di legittimità e nemmeno un dualismo asimmetrico di poteri, per quanto includesse un germe di questo. Con la convocazione delle elezioni Rajoy ha recuperato l'iniziativa, ha mostrato che la legalità dello Stato Spagnolo continua a essere vigente e ha spinto l'indipendentismo su un sentiero difensivo. Questa dimostrazione di forza da parte del governo spagnolo contiene anche, tuttavia, una dimostrazione di relativa debolezza: l'impossibilità di applicare la via dura che consiste nel sospendere l'autonomia catalana per un lungo periodo per smontare i suoi pilastri fondamentali (mezzi di comunicazione, sistema educativo...). Impossibilità per il fatto di essere di difficile gestione e per la pressione da parte delle autorità europee che, probabilmente, hanno messo pressione nella ricerca di un’uscita indolore più consona alla loro ipocrisia ufficiale. Con le elezioni Rajoy ha guadagnato tempo, segnato il ritmo degli eventi ed evitato qualunque situazione di ambiguità su chi controlla la Catalogna, ma questo non significa necessariamente che abbia sconfitto l'indipendentismo in un senso più profondo, dal momento che l'appuntamento elettorale può tornare a dare una maggioranza parlamentare indipendentista.

8. Resistenzialismo offensivo. La polarizzazione reattiva spinta dall’accelerazione del processo indipendentista in settembre-ottobre ha favorito, a breve termine, le forze conservatrici dello Stato Spagnolo, provocando un serrare le fila del blocco pro-Regime e di tutto l'apparato dello Stato, sotto l'egemonia dei settori più conservatori. Il loro progetto di restaurazione è una specie di resistenzialismo offensivo. “Resistenzialismo” perché è incapace di affrontare una riforma dall'alto che integri parzialmente le rivendicazioni di coloro che oggi sono rimasti fuori dalla cornice politica del ‘78 (la base sociale di Podemos e l'indipendentismo Catalano) e che generi un'altra distribuzione del potere politico e istituzionale e un’integrazione economica e sociale del grosso delle classi medie e dei lavoratori qualificati e della gioventù qualificata precarizzata. “Offensivo” perché è molto aggressivo e autoritario e accarezza l'idea di approfittare della crisi catalana per centralizzare l’intera struttura dello Stato Spagnolo e per isolare e mettere in minoranza Podemos. Ma la logica stessa di questo resistenzialismo offensivo a medio termine continua a rendere più profonde le ragioni di fondo della crisi della cornice politica creata nel 1978.

9. Futuri divergenti. La principale complessità della politica catalana è che il 15M e le sue evoluzioni, da un lato, e il processo indipendentista, dall'altro, hanno tracciato delle aspettative divergenti, per quanto senza dubbio con alcune zone di contatto. Questa divergenza di orizzonti esprime, in un senso più ampio, la complessità del collegamento tra la questione sociale e quella nazionale nella politica e nella società catalane; a un livello più concreto, si materializza in una mancanza di alleanza tra indipendentisti e federalisti difensori del diritto all'autodeterminazione, in uno scenario in cui la non normalizzazione dell'esercizio del suddetto diritto potrebbe fornire un terreno di azione comune. Il limite politico fondamentale del movimento indipendentista è stato quello di scollegare l'obiettivo di uno Stato proprio da quello di una politica concreta anti-austerità e di rigenerazione democratica. Ossessionati dal non perdere la destra catalana lungo il cammino, ai promotori del movimento indipendentista è mancata, fin dal principio, un’analisi solida della struttura sociale catalana, dei settori che qualunque progetto di cambiamento sociale necessita coinvolgere e di come rivolgersi alla base sociale della sinistra non indipendentista, oltre al pensare che prima o poi si sarebbero convinti o adattati. Una Repubblica Catalana compatibile con una scelta finale indipendentista o confederale, un processo costituente catalano e un piano di salvataggio cittadino immediato sarebbero stati i tre elementi sulla base di cui tentare di risolvere la serie di contraddizioni intrecciate che nascono dalla divergenza di prospettive tra ciò che fu il 15M e ciò che è stato il processo indipendentista. Altrettanto grave è stata la sorprendente scarsa attenzione strategica che i principali attori della politica catalana le hanno dedicato durante questi 5 anni. Cercare di affrontarla avrebbe implicato stare allo stesso tempo dentro e fuori dal procès, compito senza dubbio complesso e che la sinistra avrebbe dovuto abbracciare come proprio.

10. Biforcazioni nella sinistra. Dentro l'indipendentismo la CUP, senza dubbio, ha rappresentato un progetto che andava molto più in là dell'indipendentismo “puro e semplice” e ha difeso un programma che non solo legava la questione nazionale con quella sociale e affrontava le mancanze dell'indipendentismo ufficiale, ma che proponeva anche un'opzione apertamente anticapitalista e di rottura, in controtendenza con la crescente istituzionalizzazione della maggioranza delle “forze del cambio” emerse nel 2014 e 2015. Tuttavia è rimasta eccessivamente intrappolata nel suo onesto e sincero ruolo di garante del fatto che il processo indipendentista arrivasse fino alla fine e non ha avuto una politica offensiva di spostamento a sinistra, verso la propria base sociale che stava fuori dal processo indipendentista. Dal canto suo, la sinistra esterna all’indipendentismo come Catalunya en Comù ha portato avanti una politica attendista e passiva. Ha segnalato molti problemi reali della proposta indipendentista istituzionale, tra questi, la vacuità dell'idea dell'”Indipendenza” come panacea, la difficoltà di materializzazione del progetto indipendentista, la polarizzazione identitaria che poteva generare, e il silenzio su altre questioni e conflitti sotto la sempre presente cappa del dibattito nazionale. Ma la sua mancanza di impegno reale nel processo le ha impedito di intervenire proprio su queste questioni. La sua politica rappresenta una sorta di paradosso della passività, secondo il quale le contraddizioni e aspetti negativi di una situazione che giustificano una politica passiva non fanno che aumentarla. Questa spirale infernale della passività ha un aspetto di profezia che si auto-avvera e in una certa maniera rispecchia una sorta di nostalgia strategica per una realtà inesistente in cui non esisterebbero nè il processo indipendentista né la questione nazionale.

11. Scenari. Il cammino verso il giorno 21 dicembre è ancora difficile da prevedere. L'incarcerazione dei membri del governo catalano che non sono a Bruxelles mostra che le elezioni non si celebreranno, nel bene e nel male, in un contesto normalizzato. Questa è esattamente la chiave della situazione. Impedire che la dinamica Imposta da Rajoy si trasformi in normalità accettata con rassegnazione. Il colpo contro il governo catalano arriva dopo un enorme vuoto di leadership e di crisi di direzione. Il messaggio registrato da Bruxelles il 2 novembre da parte del presidente Puigdemont che criticava le detenzioni, condensa l'incapacità mostrata in questi giorni da parte del governo: alla logica condanna dell’offensiva repressiva è seguita una generica chiamata alla mobilitazione, ma senza alcuna proposta concreta né definizione di alcun tipo di orizzonte. Alle prime reazioni dopo gli arresti (concentramenti di fronte al Parlamento e in piazze centrali di vari municipi) sembra che seguirà una convocazione di sciopero per il giorno 8 e una grande manifestazione per il giorno 11. Ancora è presto per capire la portata che tutto questo avrà, ma con mezzo governo arrestato e l'altra metà senza alcuna iniziativa politica, tanto ANC e Òmnium, quanto le forze politiche indipendentiste e quelle contrarie alla repressione dello Stato, devono assumere un ruolo di leadership e stabilire un'agenda chiara di mobilitazione segnata da una prospettiva strategica che diano loro un senso. I preparativi elettorali non aiutano a concentrarsi su questo. Se dall'alto esiste un'agenda definita, la dinamica dal basso, spinta dai Comitati di Difesa della Repubblica (CDR) potrebbe tornare ad essere importante. I CDR possono giocare, come hanno fatto tra il 20 settembre e il 3 di ottobre, un ruolo di superamento parziale delle strutture ufficiali. Tuttavia non sembra che abbiano la forza per sviluppare un’agenda propria di lotta dal basso, se dall'alto non arrivano segnali che spingono in questa direzione ma, al contrario, si mostrano sintomi di paralisi e confusione.

12. Prospettive elettorali. È difficile disegnare i contorni del possibile risultato elettorale, per quanto potrebbe non portare a differenze molto significative da ciò che si era ottenuto nelle precedenti del 2015. L'indipendentismo ha guadagnato, senza dubbio, appoggio per via della repressione del referendum del primo ottobre. Ma gli zig-zag del governo catalano tra l’1 e il 27 ottobre e la sua paralisi dopo di quella data hanno confuso parte della sua base sociale. Al contrario, il blocco spagnolista è riuscito per la prima volta in 5 anni ad emergere come una forza sociale di un certo peso nelle piazze e con la convocazione delle elezioni del 21 dicembre ha trovato un obiettivo per il quale combattere. Più che per le simpatie verso un'opzione o l'altra, la chiave del risultato sarà nella capacità di mobilitazione delle parti. Questo è il punto debole delle forze indipendentiste. È per questo che la campagna per il 21 dicembre deve mettersi in relazione con l'esistenza o meno di una dinamica rilevante di mobilitazione extra-elettorale.

13. Unilateralità e fraternità. La contrapposizione tra una via unilaterale (accumulare forze per la rottura a partire dalla Catalogna) e l'opzione di costruire una maggioranza politica di cambiamento nel quadro complesso dello Stato è stata uno dei grandi vicoli ciechi della politica catalana in termini strategici (e a partire da lì della politica spagnola tutta). In realtà, unilateralità e fraternità dovrebbero essere viste come elementi complementari. Senza un movimento indipendentista e/o semplicemente in favore di un referendum unilaterale, non ci sarebbe alcuna forza politica spagnola che difenderebbe il diritto all'autodeterminazione della Catalogna e l'ipotesi di un referendum concordato. Unidos Podemos appoggia questa opzione come risposta a una realtà formulata a partire dalla Catalogna. E, dall'altro lato, uno schema di rottura unilaterale come quello che propone l'indipendentismo, incurante di ciò che succede fuori dalla Catalogna, è molto poco audace, dal momento che dimentica che soltanto in uno scenario di crisi politica globale dello Stato l'indipendentismo catalano può avere successo. Più che una contrapposizione strategica tra due impostazioni antitetiche, la sfida è trovare un punto di fuga strategico., basato su una complessa dialettica centro-periferia. Cosa che implica in qualche modo legare, senza mescolarli, il progetto indipendentista e quello di rottura del Regime in tutto lo Stato. In uno scenario in cui il climax indipendentista in Catalogna viene usato da parte del PP e di tutto l'apparato dello Stato per serrare le fila in chiave reazionaria, questa è una questione decisiva. Cercare alleanze e guadagnare simpatie fuori dalla Catalogna è, se non il principale, una delle grandi sfide dell'indipendentismo catalano e di coloro che pur non essendo indipendentisti accompagnano il movimento nella sua sfida democratica allo Stato. E ciò si può fare solo in tre modi; legare esplicitamente la difesa del progetto di Repubblica Catalana a un desiderio di futura Repubblica Spagnola sorella; non svincolare la scommessa per l'indipendenza da un possibile futuro confederale; e, nell'immediato, legare la rivendicazione indipendentista alla difesa di misure politiche anti-austerità che trovino le simpatie delle classi popolari spagnole. Proposte che, oggi come oggi, sono totalmente al di fuori dell'agenda strategica della direzione politica dell'indipendentismo.

14. Plebiscitarias again?. L'indipendentismo non ha ancora definito come affronterà le elezioni convocate da Rajoy. C'è la possibilità che le affronti come un nuovo plebiscito sull'indipendenza (come ha fatto con le ultime del 27 settembre del 2015) con l'argomentazione che un’eventuale maggioranza indipendentista in elezioni considerate legittime dai sostenitori del “no”, dallo Stato Spagnolo e dall'Unione Europea, metterebbero il governo di Rajoy in una situazione molto difficile. C'è un elemento di verità in questa argomentazione. Ma, allo stesso tempo, presenta non pochi problemi. Il primo, è che un dibattito intorno a “Indipendenza sì, Indipendenza no” rompe il blocco che si era agglomerato attorno all’1 e al 3 ottobre, che andava oltre l'indipendentismo e che includeva settori di sinistra democratici e di rottura. Alcuni di questi adesso potrebbero votare partiti indipendentisti, come la CUP o ERC, ma altri voteranno per forze che difendono il diritto all'autodeterminazione ma non l'indipendenza, come Catalunya en Comù. Il secondo, è che non è scontato che in una contesa dove si votano partiti e non solo l'indipendenza, l'indipendentismo ottenga con certezza il 50% dei voti (nel 2015 ha ottenuto il 47,7%). E in ogni caso, l’impostazione plebiscitaria lo spingerebbe a lottare per una vittoria minima. Il terzo è che non è chiaro quale sarebbe il passo successivo a una possibile vittoria dell'indipendentismo. Dire che il 21 dicembre servirà per “convalidare” la dichiarazione di indipendenza del 27 ottobre è una forma elegante di rispondere, ma di fatto non propone alcun piano di azione concreto a partire dal giorno dopo.

15. Ipotesi costituente. Senza dubbio il 21 dicembre avrà, che venga presentato così o meno, un aspetto plebiscitario. Ed è normale. Allo stesso tempo possiederà anche un elemento difensivo di base: il rifiuto dell'articolo 155 e l'esigenza di libertà e amnistia per tutti gli arrestati/e e gli indagati/e. La questione centrale risiede in come promuovere anche un progetto in positivo, che includa la dimensione democratica e antirepressiva e un piano di resistenza istituzionale a partire dal 21 dicembre, ma che vada oltre questo e, allo stesso tempo, permetta di tracciare alleanze tra il blocco indipendentista e i settori non indipendentisti sostenitori del diritto a decidere, come Catalunya en Comù. È qui che entra l'ipotesi costituente. In questo senso la cosa più auspicabile è che tutte le forze democratiche che si oppongono al blocco formato da Ciudadanos, PP e PSC possano stabilire qualche tipo di accordo che, oltre all'aspetto di base anti-repressivo, implichi una tabella di marcia costituente per una Repubblica Catalana il cui orizzonte finale possa essere compatibile tanto con l'indipendenza quanto con una proposta federale/confederale. Insomma, unire le forze per la rottura attuale, lasciando aperta la destinazione finale. Il quadro costituente, è necessario riconoscerlo, non è scevro di problemi. Il principale è che richiede un difficile accordo tra il blocco indipendentista e Catalunya en Comù, al momento inesistente. Il secondo problema è che, in assenza di una rottura istituzionale reale, si può diventare retorico e dare adito a iniziative istituzionali e sociali del tutto simboliche. Fragile e incerta, l'ipotesi costituente come punto d'incontro tra federalisti/confederalisti e indipendentisti continua ad essere il grande cammino inesplorato della politica catalana. Affinché abbia senso, ovviamente, è un cammino che deve correre parallelo alla difesa di misure sociali emergenziali e tangibili, che amplino la base sociale delle forze democratiche opposte al blocco reazionario, dentro e fuori dalla Catalogna. Lotta difensiva anti-repressiva e prospettiva comune in positivo sono i pezzi da mettere insieme in questa congiuntura difficile e che difficilmente si possono scindere se si vogliono stabilire alleanze solide.

16. Dilemmi. Battaglia meramente difensiva contro la repressione e l'articolo 155, lotta per un progetto di Repubblica, o autocompiacimento processista in difesa di una Repubblica immaginaria? Contrapposizione di progetti tra indipendentisti e difensori del diritto a decidere o orizzonti di rottura convergenti? Battaglia esclusivamente catalana, subordinazione centralista alla politica nell'ambito statale o articolazione dialettica centro-periferia? Senza dubbio, un triplo dilemma strategico tanto complesso quanto ineludibile. E… tanto irrisolvibile quanto decisivo?

*Josep Maria Antentas è professore di Sociologia dell’Università Autonoma di Barcellona (UAB), e fa parte del Consejo Asesor di Viento Sur. In Italia è stato pubblicato il suo libro "Pianeta indignato" (Alegre, 2012).
Fonte articolo: http://vientosur.info/spip.php?article13161
Traduzione di Marta Autore.