Il Caporalato degrada il Soggetto ad Oggetto

Thu, 19/05/2016 - 18:54
di
Chiara Marangio - Ass. Meticcia Lecce

Riflessioni postume alla giornata “I MURI RIBALTATI DIVENTANO PONTI” presso BREAD&ROSES – Spazio di Mutuo Soccorso di Bari, in cui il confronto, il racconto collettivo, la condivisione delle pratiche e delle esperienze emotive hanno dato ennesima prova di un’Umanità che sa esistere nel suo significato più alto, ugualitario, forte, incommensurabile.

“Questo è un luogo di produzione di felicità”.
Alessandro Ventura, Pro/Fuga - Foggia.

Quando parliamo di caporalato ci riferiamo esclusivamente alla prevaricazione dei diritti del lavoro o a qualcosa di più complesso?
Il senso delle parole muta a seconda dei contesti spazio-temporali e, come ogni accadimento mondano, assume carattere dinamico e dunque variabile.
Partire dal senso che la parola Caporalato assume oggi equivale probabilmente a rendere comprensibile la condizione delle vittime e, allo stesso tempo, pensabile l’alternativa per il suo superamento mediante i diverso processi di lotta.
In una società frammentata in ogni suo piano costitutivo, che smembra le professioni e i saperi e separa i corpi dalle menti, a risultare destrutturata è prima di tutto la dimensione umana nella sua totalità, nel suo farsi vita ed agire, nel suo diritto ad esistere, ad Essere.
La generalità di tale constatazione trova specificazione nella condizione di chi subisce il caporalato come processo di svilimento del diritto, di abbrutimento di tutte le dimensioni di vita, di soggiogamento graduale, ripetuto, frequente, cumulativo fino all’induzione all’immobilità e alla paralisi.
Per le forme con cui il caporalato si esprime, per i meccanismi da cui dipende e che mette in atto, esso sembra oggi assimilabile a ciò che viene definita Violenza Organizzata.
Difatti, non originando da un’azione di impulso e di manifesta istintuale aggressività, la Violenza Organizzata si sostanzia in generale di un Sistema di Azioni e di Omissioni che lo rendono efficace ed efficiente, diffuso e replicabile.
Come i totalitarismi, come i grandi gruppi criminali, il caporalato agisce sull’individuo e/o su un gruppo di individui – in tal caso connotabili come lavoratori – controllando, costringendo latentemente e manifestamente, isolando, impedendo la volontà di pensare, agire, autodeterminarsi. Insomma, desoggettivando.
Si genera così un campo di brutalizzazione, di riduzione ad una condizione primitiva dell’esistenza, in cui la dipendenza è assoluta, per assenza di beni materiali, di strumenti di difesa, per impossibilità di un’azione progressiva e generativa che è elemento essenziale dello stato vitale.
Spogliato d’identità personale, sociale, culturale, giuridica, l’uomo non esiste più: resta corpo da lavoro, tabula rasa, meccanismo usa-getta del mercato, gioco del sistema cannibale e bulimico, che mangia e vomita in una continua tensione verso l’ accumulazione, la pienezza, la saturazione.
I corpi martoriati, i campi-ghetto, gli inferni a pochi passi dall’opulenza apparente della città sono attualmente le tessere del nuovo manicomio a cielo aperto: non vi è bisogno di mura alte né di grate né di strumenti di contenzione; sono sufficienti l’assenza o l’inconsistenza delle leggi, l’incombenza imperativa della logica del profitto e del consumo, la catena liquida e tentacolare delle sentinelle criminali che fanno da ponte con gli imprenditori locali e con i diktat delle multinazionali, in un andamento crescente e quasi non più controllabile.
Pertanto, non è più possibile definire il caporalato come fenomeno circoscrivibile localmente.
La componente micro del caporalato si intreccia con quella macroeconomica mondiale, perpetuandosi continuamente mediante la frammentazione delle responsabilità e delle impunità, attraverso la condanna delle cosiddette mele marce (termine spesso utilizzato per addebitare il reato a pochi soggetti, sviare l’attenzione e assolvere interi sistemi da gravi responsabilità) che, per proposito e per strategia, nascondono il meccanismo complesso e complessivo delle filiere della grande distribuzione organizzata, producendo uomini invalidi fisicamente, psicologicamente, giuridicamente.
Allora l’azione del caporalato può essere assimilata a ciò che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo definisce Trattamento Inumano e Degradante? È plausibile così come è plausibile la necessità che le esperienze e le scienze sociali, psicologiche, giuridiche e mediche si contaminino vicendevolmente e spingano verso il riconoscimento di una tale realtà.
Se l’aggettivo “Inumano” implica varie modalità di maltrattamento che si caratterizzano per un’intensa ed intenzionale sofferenza, fisica e/o mentale, l’aggettivo “Degradante” qualifica l’azione abusante come umiliante e svilente sull’individuo tanto da compromettere il rispetto per la sua dignità fino all’annichilimento psicologico.
Quest’ultimo aspetto equivale ad una condizione di paura o terrore, di angoscia soverchiante, di senso di inferiorità che mina la resistenza multidimensionale, la capacità del soggetto di adattarsi ad un contesto vitale disfunzionale e continuamente traumatico.
In un sistema di sfruttamento e di schiavizzazione, l’azione del caporalato non è casuale ma sottende un’intenzione, una strategia utile al profitto: degradare il Soggetto ad Oggetto, privandolo della capacità di utilizzare la propria volontà di diritto e di protezione, il proprio senso di Sé nel mondo.
Risulta pertanto evidente come la dimensione individuale e sociale della persona abbia a che fare con la dimensione giuridica, con il Diritto e la Giustizia, con la sua capacità socioeconomica, con la dimensione di Classe.
A fronte di tale prospettiva infernale che coinvolge maggiormente i migranti, ma non solo, appare ormai indispensabile l’azione programmata ed intersecata di lotte dal basso. Programmare le lotte corrisponde ad agire localmente, sviluppando nei gruppi, nei contesti e attraverso i contesti, processi di consapevolezza e di costruzione collettiva di alternative di lavoro e di vita che, al contempo, consentano di legare insieme e far reagire le esperienze delle vittime e le visioni politiche circa il senso del diritto. Così, la presenza dei migranti assume un valore determinante nello sviluppo di una ridefinizione del diritto stesso, poiché anch’esso è sintesi di aspetti culturali e contestuali di provenienza e, in quanto tale, può rappresentare il Nuovo e l’Interferente alla fissità del sistema precarizzante.
Costruire le lotte ed unirle in una rete rende il processo dinamico, poiché costantemente sollecitato dalle comunanze e dalla differenze dei vari contesti locali: ogni lotta si confronta con le altre, mettendo in discussione periodicamente il suo funzionamento, stimolando la riflessione e la teorizzazione politica, sostenendo e, di rimando, essendo sostenuta nella sua azione, scoraggiando la tendenza al solismo, all’isolamento, all’implosione, alla strutturazione rigida ed autoriferita.
L’unione delle lotte nella pratica e nella sua teorizzazione diventa così spinta costante sulle istituzioni, chiamate alla responsabilità, legittimate dalle stesse azioni conflittuali ad esserci e a rispondere.
Difatti, la lotta dal basso non è disconoscimento dal valore dello Stato, ma proprio il suo contrario: è l’addebitamento alle istituzioni del loro ruolo di essere orientanti e governanti, rappresentative di tutte le fasce sociali e di tutte le istanze politiche.
Dunque, lo sviluppo di alternative di vita e di lavoro implica la dimostrazione della possibilità delle collettività di essere agenti nell’insieme, scoraggiando l’annichilimento e l’isolamento individuale, acquisendo una capacità di interlocuzione conflittuale che si fa costante richiesta di diritto e, di contro, di riconoscimento di ingiustizia e di reato ad essa relativo.
Il caporalato è reato di sistema e non di singoli soggetti, la violenza organizzata è violenza di sistema e non di pochi individui. Pertanto, a contrasto, la lotta non può esimersi dall’essere organizzata in rete, dal basso, con il coinvolgimento dei soggetti lesi, con il sostegno di tutti i soggetti politici, giuridici, sociali e sanitari che condividono una visione tendente ad una trasversale emancipazione umana.
Occorre agire e pensare, agire e raccontare, raccontarsi per riflettere e vedersi, attraverso le parole, nel mondo alternativo che si va generando, nel capovolgimento di posizioni sociali che si va incentivando, attraverso quel passaggio collettivo che va dalla vittima inerme ed impotente alla collettività che resiste, reagisce, agisce in quella dimensione umana in cui la parola “Compagno” ritrova verità nella sua forza e nella sua tenerezza.