Riflessioni degeneri n. 2bis. Mica è tutta colpa del capitalismo?

Thu, 13/02/2014 - 23:00
di
Cinzia Arruzza

Nella scorsa riflessione degenere ho scritto che l’idea che nelle società capitalistiche il patriarcato sia un sistema indipendente è quella più diffusa non solo tra le teoriche ma anche tra le attiviste femministe, perché si tratta in fin dei conti dell’interpretazione più intuitiva e immediata dei fenomeni di oppressione e di potere basati sul genere di cui facciamo esperienza quotidianamente. In altre parole, perché si tratta di un’interpretazione che registra la realtà per come questa si manifesta. Per ‘manifestarsi’ non si intende qui mera apparenza o illusione, da contrapporsi a una Realtà con la R maiuscola, ma piuttosto del modo in cui le relazioni di alienazione e dominio prodotte e riprodotte dal e nel capitale vengono esperite in virtù della loro stessa logica. Come scrive Daniel Bensaïd, la critica dell’economia politica è innanzitutto critica del feticismo economico e della sua ideologia che ci condannano a pensare all’ombra del capitale. Insomma, non si tratta di falsa coscienza, ma di una modalità di esperienza determinata dal capitale stesso: la modalità della frammentazione della percezione. Si tratta di un discorso complesso, ma per avere un’idea di cosa intendo per modalità di esperienza determinate dal capitale si può dare un’occhiata al paragrafo sul feticismo della merce del primo libro del Capitale di Marx.
Ora, proprio perché la nostra percezione è frammentata e l’insieme delle relazioni patriarcali viene esperito e percepito (da chi ha maturato una sensibilità di genere) in maniera immediata come rispondente a delle logiche indipendenti e separate da quelle del capitale, la negazione che nelle società capitalistiche il patriarcato sia un sistema indipendente incontra inevitabilmente una serie di obiezioni e dubbi.
L’obiezione più frequente ha a che vedere con la dimensione storica: come si fa a sostenere che il patriarcato non è un sistema indipendente, se l’oppressione delle donne esisteva già da ben prima del capitalismo? Dire che nelle società capitalistiche l’oppressione delle donne e le relazioni di potere sessiste sono una conseguenza necessaria del capitalismo e non hanno più una logica propria e indipendente non equivale a sostenere la tesi assurda che l’oppressione delle donne sia nata con il capitalismo. Ciò che si sostiene, qui, è qualcosa di differente, che ha a che vedere con alcune caratteristiche proprie del capitalismo. Le società in cui il capitalismo ha soppiantato il modo di produzione precedente sono caratterizzate da una profonda e radicale trasformazione della famiglia. Ciò è stato dovuto in primo luogo al processo di espropriazione della terra, o accumulazione primitiva, che ha separato larghe masse di popolazione dai loro mezzi di produzione e di sussistenza (la terra, appunto), provocando da un lato la disgregazione della famiglia patriarcale contadina, dall’altro un processo di urbanizzazione di tali dimensioni da non avere significativi precedenti storici. Come risultato, la famiglia ha cessato di costituire un’unità di produzione e di avere dunque quel ruolo produttivo specifico, e generalmente organizzato attraverso precise relazioni patriarcali, che essa svolgeva nelle precedenti società agrarie. Questo processo è avvenuto in forme e tempi diversi in tutti i paesi in cui il modo di produzione capitalista si è affermato. Con la separazione tra famiglia e luogo di produzione, il rapporto tra produzione e riproduzione (intesa come riproduzione biologica, generazionale e sociale) si è anch’esso radicalmente trasformato. Di questo parlerò più a lungo in una delle prossime riflessioni degeneri. Ed è proprio questa la questione: mentre le relazioni di dominio tra i generi sono rimaste, esse da un lato hanno cessato di costituire un sistema indipendente dotato di una propria logica autonoma, a causa della trasformazione della famiglia da unità di produzione a luogo privato per eccellenza ed esterno a produzione e mercato, dall’altro si sono trasformate significativamente. Una delle trasformazioni, ad esempio, ha a che vedere con l’inedito nesso tra orientamento sessuale, reificato in identità, e genere (si possono vedere a questo proposito gli studi di Foucault in Storia della sessualità, i lavori di Butler, o i più recenti scritti di Kevin Floyd e Rosemary Hennessy). Dunque, se è vero che l’oppressione di genere esisteva da ben prima dell’avvento del capitalismo, questo non vuol dire che le sue forme siano le stesse.
D’altronde, anche l’idea che l’oppressione di genere costituisca un dato universale e transistorico, idea affermata con forza da molte femministe della seconda ondata, andrebbe messa in discussione alla luce di recenti ricerche antropologiche. Di fatto, l’oppressione delle donne non solo non è sempre esistita, ma per di più non esisteva in diverse società non divise in classi, in cui essa è stata introdotta dal colonialismo. Per avere un’idea della centralità del nesso tra rapporti di classe e relazioni di potere tra i generi, si può pensare all’esempio dello schiavismo negli Stati Uniti. Nel bellissimo libro, Women, Race and Class, Angela Davis sottolinea come la distruzione della famiglia e di qualsiasi relazione di parentela tra gli schiavi afroamericani e la forma specifica del lavoro schiavistico avesse portato a un sostanziale superamento dei rapporti di potere di genere tra schiavi e schiave. Questo non vuol dire che le schiave non subissero un’oppressione specifica in quanto donne, al contrario, la subivano eccome, ma ad opera degli schiavisti bianchi, non dei loro compagni di schiavitù. In altri termini, la persistenza e l’articolazione dei rapporti di genere ha un rapporto complesso con le condizioni sociali d’esistenza, i rapporti di classe, e il rapporto tra produzione e riproduzione. Un’idea transistorica e astratta dell’oppressione delle donne non è in grado né di registrare queste importanti articolazioni e differenze né di spiegarle.
Come ho scritto prima, nei paesi in cui il modo di produzione capitalista ha soppiantato il precedente modo di produzione, trasformando radicalmente la famiglia e il suo ruolo, le relazioni di potere tra i generi hanno cessato di costituire un sistema indipendente. Questo ovviamente non vale per paesi in cui la struttura produttiva non si è interamente trasformata in senso capitalista e che rimangono alla periferia dell’economia capitalista globale. In effetti, nel capitalismo globale coesistono società in cui il modo di produzione capitalista si è pienamente sviluppato e società che rimangono in larga parte, per così dire, ‘precapitaliste’. Claude Meillassoux ha insistito a questo proposito sulla persistenza di un modo di produzione domestica in diversi paesi africani, in cui il processo di proletarizzazione (cioè di separazione dei contadini dalla loro terra) è rimasto molto limitato. Qui, però, bisogna intendersi sul significato di ‘precapitalista’. Nei fatti, anche laddove il modo di produzione domestica è rimasto in piedi, esso è sottoposto alla pressione esercitata dall’inserimento del paese nel sistema capitalistico mondiale. Gli effetti del colonialismo, l’imperialismo, la rapina delle risorse naturali da parte dei paesi a capitalismo avanzato, le pressioni oggettive esercitate dall’economia del mercato mondiale, e così via hanno un impatto significativo sulle relazioni sociali e familiari che organizzano la produzione e la distribuzione di beni, spesso esacerbando sfruttamento delle donne e violenza di genere.
Torniamo ora ai paesi a capitalismo avanzato. Un’obiezione classica alla tesi per cui il patriarcato qui non costituisce più un sistema indipendente è che il femminismo marxista che sostiene questa tesi è fondamentalmente riduzionista. In altri termini, tende a ridurre la variegata complessità del sociale a mere leggi economiche, senza tenere in adeguata considerazione l’irriducibilità delle varie relazioni di potere. Ora, quest’obiezione avrebbe senso solo a due condizioni: la prima è che per capitalismo si intenda in termini grettamente economicisti il processo di estorsione del plusvalore e l’insieme di leggi economiche che lo determinano; la seconda è che si concepiscano le relazioni di potere come un risultato meccanico e automatico del processo di estorsione del plusvalore. La verità è che solo il marxismo ortodosso o volgare ha proposto questo tipo di riduzionismo, che non corrisponde né alla ricchezza e complessità del pensiero di Marx, né tantomeno alla straordinaria raffinatezza di buona parte della tradizione teorica marxista. Come ho già scritto nella precedente Riflessione, pensare di spiegare cos’è una società capitalista solo in termini di estorsione del plusvalore nel luogo della produzione è come pensare di spiegare l’anatomia dell’intero corpo umano spiegando solo quella del cuore. Il capitalismo è un insieme contraddittorio, versatile, in continuo movimento e in continua trasformazione di relazioni di sfruttamento, di dominio e di alienazione. Per quanto nel primo libro del Capitale Marx attribuisca un carattere apparentemente automatico alla valorizzazione del valore, un processo nel quale il valore assurge ad autentico soggetto, mentre i capitalisti individuali sono ridotti a suoi emissari, ‘Monsieur le Capital’ in realtà non esiste, se non come categoria logica. E bisogna arrivare al terzo libro del Capitale per rendersene pienamente conto. Il capitalismo non è un moloch, non è un dio nascosto, un burattinaio o una macchina, è un insieme vivente di relazioni sociali, in cui i rapporti di classe pongono vincoli ed esercitano costrizioni che permeano tutte le altre relazioni. Tra queste vi sono anche le relazioni di potere legate al genere, all’orientamento sessuale, alla ‘razza’, alla nazionalità e alla religione, tutte messe al servizio, spesso attraverso processi contraddittori, incoerenti e variabili, dell’accumulazione del capitale e della sua riproduzione.