Riflessioni Degeneri 3. Il capitalismo indifferente

Sun, 02/03/2014 - 17:50
di
Cinzia Arruzza

Una delle posizioni più diffuse tra teorici marxisti consiste nel considerare l’oppressione di genere come non necessaria dal punto di vista del capitale. Questo non vuol dire che il capitalismo non faccia uso o non approfitti delle ineguaglianze di genere prodotte da precedenti configurazioni sociali. Tuttavia, si tratterebbe di un rapporto meramente opportunistico e contingente. Nei fatti, il capitalismo non ha nessuna necessità di servirsi specificatamente dell’oppressione di genere, e infatti sotto il capitalismo le donne hanno raggiunto un livello di libertà e di emancipazione senza precedenti in altre epoche storiche. Insomma, liberazione delle donne e capitalismo non hanno un rapporto antagonistico.

Questa posizione gode di un tale favore tra teorici marxisti appartenenti alle scuole più disparate, che vale la pena analizzarla a partire da un articolo di una delle più intelligenti e interessanti teoriche marxiste degli ultimi decenni, Ellen Meiksins Wood, insieme a Robert Brenner la massima esponente di quello che viene generalmente chiamato in maniera un po’ pleonastica ‘marxismo politico’ (vale a dire quella tendenza antideterminista all’interno del marxismo che privilegia la lotta di classe rispetto alla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione come chiave esplicativa della transizione da un modo di produzione a quello successivo). Nel suo articolo intitolato Capitalism and Human Emancipation: Race, Gender, and Democracy (in The Socialist Feminist Project, ed. by Nancy Holmstrom, 2002), Meiksins Wood prende le mosse dalla considerazione della differenza fondamentale tra il capitalismo e i modi di produzione precedenti. Il capitalismo non è intrinsecamente legato a identità, ineguaglianze e differenze extra-economiche, giuridiche o politiche. Al contrario, l’estorsione del plusvalore ha luogo in una relazione tra individui formalmente liberi e uguali e non presuppone differenze di status giuridico o politico. Dunque il capitalismo non è strutturalmente incline alla creazione di ineguaglianze di genere, e anzi ha una tendenza naturale a mettere in discussione tali differenze e a diluire le identità di genere e razza. Inoltre lo sviluppo capitalistico ha creato le condizioni sociali per una critica e una pressione sociale contro queste ineguaglianze che non ha precedenti in altre epoche storiche (si pensi, ad esempio, che in tutta la letteratura greco-romana, sia filosofica che storica, posizioni abolizioniste sono pressoché inesistenti, nonostante il massiccio uso di schiavi a scopi produttivi).
Allo stesso tempo, il capitalismo tende a utilizzare in maniera opportunistica differenze già esistenti e frutto di eredità culturali precedenti. Ad esempio, tende a usare differenze di genere e razza al fine di creare gerarchie tra settori più o meno svantaggiati della classe, facendo al contempo passare tali ineguaglianze e gerarchie come conseguenze di differenze naturalizzate, e coprendone in questo modo la reale natura di gerarchie e ineguaglianze prodotte dalla logica stessa della competizione capitalista. Ovviamente, non si tratta di un piano cosciente seguito dal capitale, ma del convergere di una serie di pratiche sociali e politiche dovute al fatto che ineguaglianze di genere e razza sono di fatto vantaggiose dal punto di vista dei singoli capitalisti. In conclusione, il capitalismo usa e strumentalizza l’oppressione di genere, ma potrebbe benissimo sopravvivere senza. Senza sfruttamento di classe, invece, non potrebbe esistere.

C’è da notare che la cornice dell’articolo di Meiksins Wood è data da una serie di domande iniziali, tutte di natura politica e ruotanti attorno alla questione di quali tipi di beni extra-economici possano essere ottenuti in una società capitalista e quali invece no (ad esempio, la preservazione ecologica del pianeta). Il punto di partenza è la constatazione di uno spostamento d’attenzione delle lotte sociali dal terreno economico a quello dei beni extra-economici (emancipazione di genere, razziale, pace, salute ecologica, cittadinanza...). Ed è qui che veniamo alla nota dolente. Se ho citato la cornice dell’articolo di Meiksins Wood non è per fare le pulci al suo testo, ma piuttosto perché l’articolo, da un lato si basa su un’implicita separazione netta – e alquanto discutibile – tra struttura logica del capitale e sua dimensione storica, dall’altro, in realtà, dopo aver posto questa distinzione, finisce per confondere i piani, riproducendo una confusione classica che purtroppo accomuna molti dei teorici marxisti che sottoscriverebbero le tesi dell’articolo.
Mi spiego meglio. Una volta che si accetti una netta distinzione tra struttura logica del capitale e dimensione storica, l’idea che l’estorsione del plusvalore abbia luogo in una relazione tra individui formalmente liberi e uguali e non presupponga differenze di status giuridico o politico e che il capitalismo sia intrinsecamente indifferente a differenze di status politico o giuridico può essere vera solo a un livello di astrazione piuttosto elevato, e cioè se si guarda alla struttura logica. Dal punto di vista storico, la canzone cambia e cambia radicalmente. Per ragioni di chiarezza e di sintesi andrò per punti:

1. Partiamo da un dato di fatto: una formazione sociale capitalista senza oppressione di genere a oggi non è mai esistita. Che il capitalismo, in questo processo, si sia limitato a utilizzare diseguaglianze preesistenti è discutibile: il colonialismo e l’imperialismo hanno contribuito in maniera rilevante a introdurre gerarchie di genere in società in cui queste non esistevano o erano più sfumate; il processo di accumulazione capitalista si è accompagnato a un’espropriazione significativa delle donne dalle forme di proprietà a cui avevano accesso e dalle professioni che avevano ancora il diritto di esercitare nell’alto medioevo (si veda a questo proposito il libro di Silvia Federici, Il grande calibano); l’alternanza di processi di femminilizzazione e defemminilizzazione del lavoro contribuiscono a riconfigurare continuamente i rapporti familiari, creando nuove forme di oppressione basate sul genere; la reificazione delle identità sessuali avvenuta a partire dalla fine del diciannovesimo secolo ha contribuito a rafforzare una matrice eteronormativa dalle conseguenze ulteriormente oppressive per le donne, e non solo. Si potrebbe continuare la lista. La constatazione che solo nel capitalismo le donne hanno potuto ottenere libertà formali e diritti politici prima inimmaginabili, proprio perché il capitalismo ha creato le condizioni sociali per questo processo di emancipazione non solo non cambia il dato di fatto, ma non è nemmeno un’argomentazione valida. Si potrebbe, infatti, dire esattamente la stessa cosa per la classe lavoratrice nel suo complesso: solo all’interno del capitalismo si sono create le condizioni per un’emancipazione politica di massa dei ceti subalterni, cioè perché la classe divenisse un soggetto politico in grado di strappare conquiste democratiche significative. E quindi? Questo dimostra forse che il capitalismo potrebbe tranquillamente fare a meno dello sfruttamento? Non credo proprio. Sarebbe quindi il caso di lasciar perdere il riferimento a cosa le donne hanno ottenuto o no: se le donne hanno ottenuto qualcosa è perché hanno lottato e perché con il capitalismo si sono create le condizioni sociali perché nascessero i grandi movimenti sociali e politici moderni. Ma questo vale, né più né meno, anche per la classe lavoratrice.

2. Andrebbe fatta una distinzione tra ciò che è funzionale al capitalismo e ciò che ne è necessaria conseguenza. I due concetti non sono identici. Può darsi che a un elevato livello d’astrazione sia molto difficile dimostrare che l’oppressione di genere sia necessaria al funzionamento del capitalismo. È vero che la concorrenza capitalista crea continuamente differenze e ineguaglianze, ma queste ineguaglianze, a livello puramente astratto, non devono necessariamente essere ineguaglianze di genere. Da questo punto di vista, se si fa un esperimento mentale e si pensa a un capitalismo ‘puro’, analizzato solo dal punto di vista dei suoi meccanismi essenziali, può darsi che Meiksins Wood abbia ragione. Questo, tuttavia, non dimostra che nel suo funzionamento concreto il capitalismo non abbia come conseguenza necessaria e ‘naturale’ la costante riproduzione, in forme spesso diverse, dell’oppressione di genere. Su questo dirò di più nella quarta Riflessione degenere, sul concetto di riproduzione sociale.

3. Infine, torniamo alla questione della distinzione tra piano analitico e piano storico. Ciò che è possibile su un piano meramente analitico e astratto e ciò che è storicamente possibile sono due cose completamente diverse. Il capitalismo esiste sempre in concrete formazioni sociali dotate di una loro storia specifica. Come ho già detto prima, queste formazioni sociali sono sempre state caratterizzate da una presenza persistente e pervicace dell’oppressione di genere. Ora, mettiamo che a un livello meramente astratto possiamo immaginare che le gerarchie nella divisione del lavoro siano riempite attraverso altre forme di diseguaglianza (alti e bassi? Vecchi e giovani? Magri e grassi? Coloro che parlano lingue indoeuropee vs. tutti gli altri?). Mettiamo pure che gravidanze e parti potrebbero essere interamente meccanizzati, che l’intera sfera delle relazioni emotive potrebbe essere mercificata ed espletata attraverso servizi a pagamento, insomma mettiamo tutto questo. Si tratta di una visione credibile sul piano storico? L’oppressione di genere può essere sostituita così facilmente da altre forme di gerarchia che abbiano la stessa presa, appaiano altrettato ‘naturali’, siano altrettanto radicate nella psiche e nei processi di formazione soggettiva? Qualche dubbio qui è più che legittimo.

In conclusione, la domanda se una piena emancipazione e liberazione delle donne possa essere raggiunta all’interno del modo di produzione capitalista deve trovare una risposta non sul piano del più alto livello di astrazione nella considerazione del capitale, ma al contrario sul piano dell’analisi storica. Qui risiede l’errore non solo di Meiksins Wood, ma anche di molti marxisti tanto legati all’idea della gerarchia tra sfruttamento e oppressioni secondarie. Se vogliamo porci delle domande di natura politica e provare a dare delle risposte, dobbiamo farlo all’interno di una concezione storica di cosa sia e cosa sia stato il capitalismo. Questo è uno dei punti di partenza di un femminismo marxista per il quale la nozione di riproduzione sociale riveste un ruolo centrale.