Riflessioni degeneri n. 2. Uno, due, o tre sistemi?

Thu, 13/02/2014 - 22:58
di
Cinzia Arruzza

Nel 1970 Christine Delphy scrisse un breve saggio, Il nemico principale, in cui teorizzava l’esistenza di un modo di produzione patriarcale, la sua relazione ma non coincidenza con il modo di produzione capitalista, e la definizione delle casalinghe come una classe in senso economico. Nove anni più tardi, Heidi Hartmann pubblicò l’articolo The Unhappy Marriage of Marxism and Feminism, in cui sosteneva la tesi che patriarcato e capitalismo sono due sistemi autonomi, ma interrelati per ragioni storiche, che le leggi di accumulazione capitalista sono sex-blind, cioè indifferenti al sesso della forza lavoro, e che, se da un lato il capitalismo ha bisogno di creare delle gerarchie nella divisione del lavoro, dall’altro sono il patriarcato e il razzismo a determinare chi deve riempire quelle gerarchie e come. Quest’ipotesi prese il nome di dual systems theory, teoria dei due sistemi. Nel 1990, in Theorizing Patriarchy, Sylvia Walby propose una riformulazione della teoria dei due sistemi, aggiungendone un terzo, quello razziale, e proponendo di considerare il patriarcato un sistema variabile di relazioni sociali composto da sei strutture: il modo patriarcale di produzione, le relazioni patriarcali nel lavoro salariato o remunerato, le relazioni patriarcali nello stato, la violenza maschile, le relazioni patriarcali nella sessualità e le relazioni patriarcali nelle istituzioni culturali. Queste sei strutture si condizionano a vicenda, pur mantenendo una propria autonomia: esse, inoltre, possono essere pubbliche o private. In tempi più recenti, Danièle Kergoat ha proposto una teoria della consustanzialità delle relazioni patriarcali, di classe e razziali: si tratterebbe di tre sistemi di relazioni di sfruttamento e dominio, che si intersecano a vicenda, che hanno la stessa sostanza (sfruttamento e dominio), ma sono al contempo distinguibili, come le tre persone della trinità cristiana.
Questa breve carrellata di autrici e testi è solo un esempio dei diversi modi in cui è stato teorizzato l’intreccio tra sistema patriarcale e sistema capitalista e la loro reciproca distinzione. Ce ne sono altri, ma per ragioni di spazio sono costretta a limitarmi a questi esempi, che sono al contempo tra i più chiari e tra i più sistematici e complessi. Come ho già avuto modo di scrivere, la prima difficoltà in questo dibattito concerne la definizione di patriarcato. Non esiste una definizione univoca, ma piuttosto un insieme di proposte, alcune compatibili tra loro, altre in contraddizione. Non potendo analizzarle tutte, propongo per il momento di lavorare attorno a un concetto di sistema patriarcale inteso come sistema di relazioni, al contempo materiali e culturali, di dominio e di sfruttamento delle donne da parte degli uomini. Un sistema dotato di una sua logica e tuttavia permeabile al cambiamento storico e in continua relazione con il capitalismo.
Prima di procedere con un’analisi dei problemi sollevati da questo approccio teorico, è il caso di dare una prima definizione di sfruttamento e di operare delle distinzioni. Dal punto di vista delle relazioni di classe, sfruttamento indica un processo o un meccanismo di espropriazione del surplus prodotto da una classe a opera di un’altra classe. Questo può avvenire o attraverso meccanismi automatici, ad esempio con la forma salario o attraverso un’espropriazione violenta del prodotto del lavoro altrui (ad esempio la corvée a cui i servi della gleba erano costretti da parte dei loro signori feudali attraverso autorità e mezzi violenti di coercizione). Lo sfruttamento capitalistico, in senso marxiano, è una forma specifica di sfruttamento, consistente nell’estorsione del plusvalore prodotto dalla lavoratrice o dal lavoratore a opera del capitalista: in generale, per poter parlare di sfruttamento capitalista, bisogna avere a che fare con produzione di merci, lavoro astratto, tempo di lavoro socialmente necessario, valore e forma salario. Anche se si possono dare forme diverse di sfruttamento capitalista che non contemplano la forma salario, ad esempio l’appropriazione del valore prodotto dal lavoro schiavistico all’interno di piantagioni finalizzate alla produzione di merci. Ovviamente, lascio qui del tutto da parte ulteriori ipotesi quali quella della sussunzione reale dell’intera società da parte del capitale, avanzata dalla tradizione operaista e post-operaista: affrontare questo tema, e le sue ricadute in termini di considerazione dei rapporti di genere, richiederà un altro articolo. Detta in soldoni: l’estorsione di plusvalore è per Marx il segreto del capitale, nel senso che è l’origine della ricchezza sociale prodotta e dei suoi meccanismi di distribuzione. Lo sfruttamento nel senso dell’estorsione di plusvalore non è l’unica forma di sfruttamento esistente all’interno di una società capitalista: per semplificare, si può dire che un impiegato in un settore non produttivo in termini di valore è comunque sfruttato nel senso dell’estorsione di pluslavoro. E le condizioni salariali, di vita e di lavoro di una commessa di negozio possono benissimo essere peggiori di quelle di un’operaia di fabbrica. Inoltre, a scanso di equivoci, e a dispetto di dibattiti di tendenza un po’ ecomicista del passato, è importante precisare che dal punto di vista dei processi di soggettivazione politica, la distinzione tra lavoratori produttivi e improduttivi (nel senso della produzione di valore e plusvalore) è pressoché irrilevante. Casomai incidono di più i meccanismi e le forme di organizzazione e di divisione del processo lavorativo.
Torniamo ora alla teoria dei due sistemi e al problema del patriarcato.
Primo problema. Se si definisce il patriarcato come un sistema di sfruttamento, la logica conseguenza è che ci sia una classe sfruttatrice e una sfruttata, o, per rendere meglio e in maniera più precisa l’idea: una classe espropriata e una classe espropriatrice. Da chi sono formate queste classi? Le risposte possono essere: tutte le donne e tutti gli uomini oppure solo alcune donne e alcuni uomini (ad esempio, nel caso di Delphy, le casalinghe e i membri maschi adulti delle loro famiglie). Se si parla di patriarcato come sistema di sfruttamento pubblico, allora si può ipotizzare che lo sfruttatore o appropriatore sia lo stato. Le femministe operaiste hanno invece applicato la nozione di sfruttamento capitalista al lavoro domestico, ma la loro posizione non può essere presa in considerazione nel contesto di quest’articolo, perché a loro avviso il reale espropriatore del lavoro domestico è il capitale, il che vuol dire, per l’appunto, che il patriarcato non è un sistema autonomo di sfruttamento. Ora, nel caso di Delphy, l’ipotesi che le casalinghe siano una classe, e i loro parenti maschi e in particolare i mariti la classe sfruttatrice, è non solo pienamente articolata, ma anche portata alle sue estreme conseguenze. In termini logici, ne consegue che la moglie casalinga di un lavoratore migrante appartiene alla stessa classe dell’ex moglie di Berlusconi, Veronica Lario: entrambe hanno prodotto per anni valori d’uso (in un caso lavoro di cura puro e semplice, nell’altro lavoro di rappresentanza di un determinato status sociale, ad esempio l’organizzazione di cocktail party) all’interno di una relazione di sfruttamento di natura servile, cioè offrendo il loro lavoro in cambio del proprio mantenimento da parte del marito. Nel Nemico principale, Delphy insiste anche che l’appartenenza alla classe patriarcale dovrebbe precedere e acquisire maggiore rilevanza dell’appartenenza a quella capitalista. Insomma la solidarietà tra Veronica Lario e la moglie casalinga del lavoratore migrante dovrebbe avere la precedenza rispetto alla solidarietà di classe tra la moglie del lavoratore migrante e suo marito o gli altri membri della classe di suo marito (o, e questo rivela più ottimismo che altro, rispetto alla solidarietà di classe tra Veronica Lario e i suoi amici del club del golf). Che poi la pratica politica di Delphy sia stata in contraddizione con le conseguenze logiche della sua teoria, e certamente ben più condivisibile della teoria stessa, non fa altro che renderne più evidenti i limiti analitici. Inoltre, se si definiscono uomini e donne (in una versione o in un’altra) come due classi di sfruttatori e sfruttate, bisogna concludere che ci troviamo di fronte a un antagonismo di classe insanabile, a interessi in contraddizione reciproca. Ma allora dobbiamo negare che gli uomini approfittino o traggano vantaggi dal lavoro non retribuito delle donne? No, anche questo sarebbe un errore, purtroppo commesso da diversi marxisti che hanno spinto verso l’eccesso opposto. È del tutto evidente che avere qualcuno che ti prepari un pasto caldo la sera è un vantaggio ed è meglio che doverti sbattere tra piatti e padelle dopo un giorno di lavoro. E dunque, è abbastanza naturale che gli uomini tendano ad attaccarsi a questo privilegio e a non voler mollare l’osso. Insomma, che ci siano delle relazioni di dominio e delle gerarchie sociali basate sul genere, e che gli uomini, inclusi quelli appartenenti alle classi subalterne, ne traggano dei benefici è innegabile. Tuttavia, questo non comporta automaticamente che ci sia un antagonismo di classe. Si potrebbe avanzare un’altra ipotesi: all’interno delle società capitalistiche, la privatizzazione totale o parziale del lavoro di cura, cioè la sua concentrazione all’interno della famiglia (di qualsiasi natura questa famiglia sia, inclusa la famiglia con un solo genitore, vale a dire la madre), l’assenza di una socializzazione su larga scala del lavoro di cura, attraverso lo stato sociale o altre forme, determina il carico di lavoro che deve essere svolto in forma privata, al di fuori del mercato e al di fuori delle istituzioni. Le relazioni di dominio e oppressione di genere determinano il modo e le proporzioni in cui questo carico di lavoro viene distribuito, dando luogo a una distribuzione ineguale: le donne lavorano di più e gli uomini lavorano di meno. Ma non per questo c’è appropriazione di un surplus. Qual è la contro-prova? Basta fare un piccolo esperimento mentale. L’uomo maschilista di turno in fin dei conti non ci rimetterebbe niente in termini di distribuzione del carico di lavoro, se il lavoro di cura venisse del tutto socializzato invece di essere effettuato da sua moglie. Insomma, in termini strutturali non ha interessi antagonisti e irreconciliabili sul lungo termine. Ovviamente, questo non vuol dire che ne sia consapevole, e può benissimo darsi che sia talmente immerso in una cultura sessista e che abbia sviluppato qualche forma di narcisismo grave basato sull’idea di una presunta superiorità maschile, da opporsi spontaneamente a qualsiasi tentativo di socializzazione del lavoro di cura o di emancipazione di sua moglie. Il capitalista, invece, se socializziamo i mezzi di produzione, qualcosina ci rimette, e non si tratta solo delle sue credenze su come funziona il mondo e della propria percezione di sé, ma del malloppo che aveva allegramente espropriato.
Secondo problema. Chi insiste sul fatto che le relazioni patriarcali costituiscono oggi un sistema indipendente all’interno delle società capitaliste avanzate si trova poi di fronte alla grana di dover spiegare quale ne sia il motore: per quale motivo si riproduce continuamente? Per quale motivo persiste? Se si tratta di un sistema indipendente, la ragione deve essere interna, e non esterna. Il capitalismo, ad esempio, è un modo di produzione e un sistema di relazioni sociali, la cui logica può essere identificata e riconosciuta: secondo Marx, si tratta, del processo di valorizzazione del valore. Ovviamente inviduare il motore nel processo di valorizzazione del valore non vuol dire aver detto tutto quello che c’è da dire sul capitalismo. Sarebbe come dire che è sufficiente spiegare l’anatomia del cuore e la sua funzione, per spiegare l’anatomia del corpo umano. Il capitalismo è molte cose complesse insieme. E tuttavia, comprendere quale sia il cuore e come funzioni mi sembra una necessità analitica fondamentale.
Laddove le relazioni patriarcali svolgono un ruolo diretto nell’organizzazione delle relazioni di produzione (chi produce, come, chi appropria cosa, come, com’è organizzata la riproduzione delle condizioni della produzione, e così via), individuare il motore del sistema patriarcale è relativamente semplice. È il caso di società agrarie, ad esempio, in cui la famiglia patriarcale è direttamente un’unità di produzione. Non è più così semplice nelle società capitaliste, dove le relazioni patriarcali non organizzano direttamente la produzione, per quanto svolgano un ruolo nella divisione del lavoro, e la famiglia è stata relegata alla sfera privata e della riproduzione. A questo punto, o si fa come Delphy e molte materialiste femministe e si individua nel patriarcato contemporaneo un modo di produzione specifico o quantomeno un insieme di relazioni di sfruttamento, ma così si ricade nel primo problema che ho appena esaminato, oppure rimangono poche opzioni a disposizione. Un’ipotesi che è stata avanzata in passato è che il patriarcato sia un sistema ideologico indipendente, il motore dunque risiederebbe nel processo di produzione di significati e interpretazioni del mondo. Ma qui si va incontro ad altri problemi: se l’ideologia è il modo in cui interpretiamo le nostre condizioni di esistenza e la nostra relazione rispetto ad esse, un qualche nesso tra ideologia e condizioni sociali di esistenza dovrebbe esserci. Certo, non automatico, non meccanico, e non solo unidirezionale. E tuttavia una qualche relazione deve esserci, altrimenti il rischio è di avere una nozione feticista e antistorica della cultura e dell’ideologia: che il sistema patriarcale inteso come sistema ideologico si riproduca costantemente da sé, e a dispetto delle straordinarie modificazioni nella vita e nelle relazioni sociali introdotte dal capitalismo negli ultimi due secoli, mi sembra poco convincente. Un’altra ipotesi è che il motore sia psicologico, ma anche in questo caso si rischia di finire in una concezione feticista e antistorica della psiche umana.
Ultimo problema. Ammettendo che patriarcato, relazioni razziali e capitalismo siano tre sistemi indipendenti, ma che si intrecciano reciprocamente e si rafforzano l’un l’altro, anche in questo caso si ripropone il problema di quale sia per così dire il principio organizzatore, la logica di questa santa alleanza. Nei testi di Kergoat, ad esempio, la definizione di questo rapporto in termini di consustanzialità rimane un’immagine descrittiva, che non riesce a spiegare molto e le cause dell’intreccio tra questi tre sistemi di sfruttamento e dominio rimangono per l’appunto un mistero... come nel caso delle tre persone della trinità.
Nonostante questi problemi, le teorie dei due sistemi o dei tre sistemi, nelle loro varie forme, rimangono il presupposto implicito di molta teoria femminista recente. Il motivo è a mio avviso il fatto che si tratta della forma di spiegazione più intuitiva e immediata. In altre parole, è una forma di spiegazione che registra la realtà per come si manifesta. È del tutto evidente che le relazioni sociali contengono relazioni di dominio e gerarchia su base di genere e razziale che permeano l’intera società e la vita quotidiana. La spiegazione più immediata è che queste relazioni corrispondano tutte a sistemi specifici, perché così si manifestano. Tuttavia, le spiegazioni più intuitive non sono necessariamente quelle più corrette.
Per quanto il cuore delle teorie dei due o tre sistemi non sia convincente, ciò non vuol dire che non ci sia nulla da imparare dal femminismo materialista. Al contrario, nei testi di Delphy e di altre femministe materialiste sono contenute intuizioni e proposte di fondamentale importanza, dalla problematizzazione del nostro concetto di sesso, all’estrema attenzione all’intreccio tra dimensione razziale e dimensione di genere. Nel dibattito italiano, alcune teoriche femministe che si richiamano al femminismo materialista francese hanno scritto cose di notevolissimo interesse ad esempio su donne e immigrazione e hanno portato avanti un progetto teorico decisamente più avanzato rispetto al femminismo differenzialista. Queste riflessioni dunque vanno prese come un tentativo di discussione tra compagne di strada, che condividono molto in comune, nonostante alcune differenze.