I crimini di Asad non vanno in prescrizione

Tue, 15/10/2019 - 17:44
di
Lorenzo Declich*

Di fronte all'aggressione turca nel nord del paese, l'accordo tra le forze democratiche siriane e il ràis di Damasco era prevedibile. Ma non dimenticare i suoi crimini è il minimo che dobbiamo fare.

A qualcuno è sembrato un fatto «inaspettato» o «imprevisto». Qualcun altro lo ha descritto come una «clamorosa svolta». Invece l’accordo delle Sdf (le forze democratiche siriane) con il dittatore Bashar al-Asad era uno degli scenari probabili all’indomani dell’invasione turca del nord e nord-est siriano. Era molto semplice immaginarlo, individuando il principale nemico del Pyd (il Partito dell’unione democratica curdo), delle milizie curde Ypg/Ypj, dei loro omologhi in Turchia, i militanti Pkk, del loro leader Abdullah Öcalan: Recep Tayyip Erdoğan.

Il «nemico turco» è da sempre il motivo principale per cui i curdi di Siria non hanno mai smesso di avere relazioni, formali o informali, con il ràis di Damasco. Un rapporto che nei decenni ha subìto cambiamenti in base agli alti e bassi delle relazioni fra Siria e Turchia e in base ai cambiamenti di strategia di Öcalan. Venendo agli ultimi tempi, è stato Erdoğan a invadere il cantone di Afrin all’inizio del 2018. Invece fin dal 2011 Asad, mentre si dedicava a radere al suolo ampie aree della Siria, lasciando sul terreno centinaia di migliaia di vittime civili inermi e innocenti, mettendo in prigione, torturando e uccidendo decine di migliaia di oppositori politici, producendo milioni di profughi, milioni di sfollati e una generazione di semianalfabeti, si premurava di non attaccare in alcun modo i cantoni curdi che, di conseguenza, rimanevano neutrali.

D’accordo, forse qualcuno non se l’aspettava. Ma anche solo pensare che questo non fosse uno scenario fra quelli immaginati dagli Usa è al limite del demenziale. In questi giorni c’è però chi spiega che Donald Trump «odia leggere»: prova una certa repulsione nel recepire nozioni, idee e concetti per il tramite di un testo scritto, anche solo una paginetta. Può darsi quindi che, non volendo leggere i report del suo staff, quello scenario non l’abbia considerato. O forse glielo hanno spiegato a parole, a figure. La qual cosa non è bastata: meglio il colpo di teatro, meglio il tweet che in un attimo toglie la vita e le speranze.

Nelle parole del comandante in capo delle Sdf, Mazloum Abdi: «Dobbiamo scegliere fra il compromesso e il genocidio, sceglieremo certamente la vita per la nostra gente». Oggi per i curdi di Siria, Asad è il male minore. Per milioni e milioni di altri siriani invece è il male assoluto. Uno dei drammi siriani sta proprio nel fatto che le opposizioni al regime non si sono mai unite. Non sono riuscite, non hanno potuto, non hanno saputo o non hanno voluto guardare altro che il proprio diretto oppressore. E hanno finito per combattersi l’un l’altra, fino a divenire parte di due blocchi di potere opposti. Da una parte, dopo anni di distruzione delle cose e delle persone, troviamo un Esercito Siriano Libero, nato per difendere le manifestazioni pacifiche e i villaggi dalle incursioni delle bande di assassini filo-regime, figurare come fanteria da macello di mercenari e jihadisti al soldo dei turchi. Un’armata che alla fine cambia nome in Esercito Nazionale Siriano pur mantenendo quei colori che in principio avevano davvero rappresentato una rivoluzione. Dall’altra ci sono le Ypg/Ypj, poi Sdf, cui più volte Asad ha proposto di «integrarsi» in qualche forma nelle forze armate asadiane, magari mantenendo i propri colori e una certa autonomia.
Di sicuro le carte in tavola non sono ancora chiare. Non si capisce il livello di coinvolgimento dell’esercito regolare siriano né quello – molto più determinante – dell’alleato russo. Sarà solo un gioco di avamposti? Basterà issare una bandiera della Repubblica Araba Siriana nel punto più alto di una città o di un villaggio per evitare che i turchi la attacchino? O, più probabilmente, i turchi manderanno avanti i mercenari? Non sappiamo se gli organismi amministrativi e di governo messi in piedi in questi anni dal Pyd passeranno o meno nelle mani del ràis di Damasco o se ci sarà il riconoscimento – formale o meno – di un’autonomia. Per ora la cosa certa è che la presenza dei turchi e dell’esercito di Asad nei luoghi del confederalismo democratico interrompe l’ideale continuità territoriale del Kurdistan nel tratto di frontiera con la Turchia. Se la riverniciatura asadiana – perché di questo finora si tratta – funzionerà lo sapremo nelle prossime settimane.

Intanto i tromboni sovranisti, quelli dichiaratamente fascisti e quelli rossobruni, fanno circolare un cartello che ricorda quando Asad disse ai curdi che gli americani li avrebbero traditi. Una profezia facile che oggi diventa un nuovo tassello della propaganda asadiana: cedete al padre e padrone della grande patria siriana, vi proteggerò io, sempre che non decida di sterminarvi. Gli asadiani sono in grande spolvero e fanno riaffiorare tutti i fake e tutti i negazionismi elaborati in questi anni, dall’evergreen di McCain che si incontra con al-Baghdadi, agli attacchi chimici che sarebbero operazioni di false flag turche, ai White Helmet che sarebbero militanti di al-Qaida e/o figuranti che mettono in scena salvataggi finti.

Mentre questa spazzatura torna a circolare, da qualche mese – e più insistentemente da qualche giorno – si parla di epurazioni di personaggi chiave del regime, detentori delle chiavi di diversi comparti economici e legati da legami di parentela con Asad. Questo genere di repulisti non è cosa nuova nel regime di Bashar. Già nel 2012, quando in un attentato furono eliminati personaggi politici molto in vista, si parlò di «inside job». Più in generale, l’arrivo al potere di Bashar nel 2000 segnò l’inizio di una stagione in cui vecchie figure dell’economia e della politica andarono in pensione insieme ai vecchi paradigmi economici: il dittatore doveva presentarsi al mondo nella nuova veste di un «liberista temperato» e aveva bisogno di facce nuove. Ma non sappiamo – la cortina del potere informale in Siria è spesso impenetrabile – cosa tutto ciò significhi in termini di cambio di politica, se questa sia la conseguenza di qualcosa di già avvenuto o la spia di qualcosa di là da venire, se sia indice di debolezza o di forza. Di certo l’invasione turca rivolta il tavolo ed è possibile che anche nello specifico dei pochi uomini di fiducia del capobanda di Damasco – cioè nelle stanze più nascoste del regime – qualcosa si sia inceppato. Non bisogna dimenticare, lo si è già accennato, che la forza militare reale di Asad è estremamente ridotta e, soprattutto, è subordinata alle scelte politiche di Russia e Iran.

Negli ultimi giorni i media hanno restituito l’immagine di un mondo pressoché unanime nel condannare la Turchia per l’invasione della Siria del nord e nord-est. Giornalisti e commentatori di tutte le estrazioni e provenienze hanno lanciato strali contro il sultano, sottolineato il tradimento di Trump, commiserato «i curdi» – unici veri oppositori sul terreno dello Stato Islamico. È un unanimismo che, come quello che portò mezzo mondo a intestarsi la battaglia contro lo Stato Islamico, nasconde posizioni e interessi molto diversi fra loro. A suo tempo il coro anti-Stato Islamico sembrava stonare a ogni nota, la Russia entrava in guerra (settembre 2015) per combattere contro il mostro nero ma nei fatti bombardava dove quel mostro non c’era, si litigava alle porte di Mosul per la presenza di carri armati di quei turchi che a parole stavano nella coalizione ma nei fatti davano aiuto ai terroristi. Oggi le stonature sono diverse, da una parte c’è lo stesso Trump che dopo aver determinato la situazione odierna «tuona» – e il suo tuono risuona meno di un peto producendo però un tanfo infinitamente maggiore – contro l’azione turca. Dall’altra ci sono Asad e Putin – alla finestra per ora gli iraniani – che condannano la Turchia ma sono fra coloro che dall’invasione guadagnano di più sia in termini territoriali che di prestigio. Il «terzetto di Astana» – Russia, Turchia e Iran – non si è affatto sciolto: i leader di quei paesi comunicano fra loro e in una certa misura stanno al gioco delle parti.

In tutto ciò la comunità internazionale, dopo aver chiesto la censura dei turchi, la fine dei rapporti con la Turchia, le sanzioni o perlomeno la cessazione della vendita di armi a quel paese, non si è ancora resa conto del fatto che inveisce contro una sola delle fonti genocidarie: abbiamo una Siria in cui Asad e il suo burattinaio, Vladimir Putin, si prendono senza sparare un colpo quella che fino a ieri era stata la terra del confederalismo democratico. Il fatto, oltre a dare nuovo impulso alla propaganda che dipinge l’oftalmologo alawita come il protettore della patria siriana e delle sue minoranze e l’ex spia del Kgb come l’unico vero stabilizzatore del Medio Oriente, permetterà ai due di tornare a martoriare indisturbati i tre milioni di sfollati siriani intrappolati nella provincia di Idlib. È dello scorso 13 ottobre l’ennesimo reportage sui crimini asadiani e russi: 583 attacchi contro personale medico dal 2011, 266 da quando la Russia è entrata nel conflitto, settembre 2015. Dal 2011 si contano almeno 916 operatori sanitari uccisi: attaccare gli ospedali per questi soggetti è una strategia consolidata e l’apprendista genocida, Erdoğan, ha ancora un bel po’ di strada da fare se vuole primeggiare in questa gara infame. Certo, entrambi chiamano le vittime «terroristi», senza fare distinzione tra civili inermi e uomini in armi. Ma su questo, almeno su questo, l’opinione pubblica ha imparato a fare la tara. È pleonastico, a questo punto, spendere ulteriori ragionamenti attorno al vero intestatario di questo capolavoro: Donald Trump. Necessario, invece, è ribadire il seguente concetto: oggi i curdi siriani vengono portati dagli eventi ad allearsi con Asad, ma non per questo Asad è diventato buono. Non dimenticare i suoi crimini è il minimo che possiamo fare.

*Lorenzo Declich è un esperto di mondo islamico contemporaneo. Traduttore dall’Arabo di saggi e romanzi, è autore tra l’altro di Islam in 20 parole (Laterza, 2016), Giulio Regeni, le verità ignorate (Alegre, 2016) e Siria, la rivoluzione rimossa (Alegre, 2017).

Fonte: https://jacobinitalia.it/i-crimini-di-asad-non-vanno-in-prescrizione/