Il macigno del credito a rischio

Mon, 07/12/2015 - 16:23
di
Marco Bertorello (da il manifesto)*

Gli effetti positivi del Quantitative easing sulla finanza sono evidenti: dalla stabilizzazione dell’euro alla decisa riduzione dei costi sul rifinanziamento dei debiti sovrani, passando per un miglioramento generale delle condizioni del credito. Sul versante dell’economia reale i risvolti sono meno evidenti, come ci confermano i recenti dati su rallentamento del Pil e riduzione del tasso di occupazione. Eppure una delle conseguenze del Qe è proprio la riduzione del valore della moneta unica che, combinata con la riduzione dei prezzi delle materie prime, avrebbe dovuto favorire quella che fino a questa estate era considerata la via maestra della ripresa, cioè le esportazioni.

Oggi invece i modesti risultati sul fronte della crescita sembrerebbero frutto di una stentata ripartenza dei consumi interni. Se esito di un cambiamento strutturale o delle acrobazie realizzate sul fronte della fiducia è tutto da comprendere, certo è che gli investimenti per ora restano al palo, nonostante condizioni di miglior favore proprio nell’offerta di credito. Indice, quest’ultimo, di un problema a monte di domanda di credito causato da modeste aspettative dell’impresa.

L’impegno sul versante finanziario, però, non si esaurisce solo nel Qe, ma, per quanto riguarda l’Italia, coinvolge direttamente gli istituti di credito. Sebbene nel pieno della crisi finanziaria il mondo bancario italiano non sia crollato come quello anglosassone, il macigno del credito a rischio non è mai stato rimosso, e a giugno di quest’anno è giunto alla clamorosa cifra di 361 miliardi, quasi un quarto del Pil nazionale.

Per tale montagna di crediti inesigibili o quasi, da tempo è stata prevista la costituzione di una bad bank nostrana, ma il progetto non è mai decollato a causa delle resistenze presenti a livello europeo, in quanto lo strumento si configurava come un indebito aiuto di Stato. Ma l’appesantimento nei bilanci delle banche resta uno dei principali problemi del segmento del credito italiano.

Per tale motivo il Governo prosegue nel suo impegno. È notizia di questi giorni il cambio di passo del legislatore che sarebbe orientato non più a costituire una bad bank unica, dove far convogliare i crediti in sofferenza, ma diverse newco (società ad hoc) ove ogni istituto riverserebbe i propri crediti deteriorati, lasciando in qualche misura la responsabilità a ogni banca di trovare gli acquirenti dei propri debiti. Queste società agirebbero sotto la garanzia della Cassa depositi e prestiti, la quale riuscirebbe a coprire fino al 70–80% dei crediti veicolati in queste newco e al contempo faciliterebbe l’autorizzazione della Commissione europea.

Insomma, come già per il bail in, di cui ho scritto il mese scorso su questa rubrica, il garante di ultima istanza resta sempre lo Stato. D’altronde, come ha sottolineato Marco Onado, se da un lato è andato riducendosi il flusso in entrata, dall’altro «anche il flusso in uscita è scarso perché stenta ad avviarsi un mercato dei crediti deteriorati». Da qui l’esigenza per qualsiasi operatore privato di ricevere garanzie pubbliche per impegnarsi in un segmento tanto rischioso. Un meccanismo di garanzia pubblica simile è intervenuto la scorsa settimana quando le banche italiane si sono cimentate nel salvataggio di Banca Marche, Etruria, Cassa Ferrara e CariChieti.

La nuova frontiera del sostegno statale al mondo delle banche, dunque, viene solo spostata più avanti. Cioè se il privato fallisce, altri privati provano a intervenire, ma solo se c’è una prospettiva, seppur remota, di guadagno. La precondizione di questo intervento è la consueta garanzia pubblica. Intanto c’è l’aiuto al privato che ha fallito e la garanzia a chi rischia per aiutarlo.