Molenbeek: la città di tutti e le bombe del dio denaro

Tue, 03/05/2016 - 16:54
di
Gregorio Carboni Maestri

In Belgio sono figlio dell'immigrazione: i miei nonni materni vi sono venuti nel 1946 per lavorare nelle miniere. E, negli anni Novanta del post-muro di Berlino e del neoliberismo vittorioso, ho studiato in una delle scuole della nuova immigrazione, quelle che i belgi chiamano scuole spazzatura.
In quel liceo, l’Athénée Royal André Vesale, ero quasi l'unico non magrebino e, già allora, ho potuto osservare il covarsi di qualcosa di grave per il futuro, tra generazioni perse, piene di rabbia, senza speranza.
Ora, a Bruxelles, abito nel comune dell'immigrazione per eccellenza, Molenbeek, nella famosa rue des Quatre Vents, la via di Abdeslam, a poche case da dove era nascosto.
Se novembre, dopo gli attentati parigini, è stato un mese molto complicato, per noi di Molenbeek la settimana della cattura di Abdeslam è stata un inferno: sparatorie, scoppi, giovani che buttavano pietre sulla polizia, tensione. Prima, durante, dopo.

Un quartiere già non facile e da decenni abbandonato dall'élite belga: povertà, degrado, tristezza. I “bobo” qui non mettono piede. I “bobo”, come li chiamano qui, sono la piccola borghesia giovane e fresca, bianca, che affolla i caffè e i bar hipster, così “toccati” dalle atrocità di Parigi, ma così poco sfiorati dalla segregazione di cui sono vittime migliaia di giovani, loro compatrioti, di origini magrebine.
Una generazione la cui ideologia mescola un generico progressismo all'acqua di rose all'egocentrismo più profondo, che vede la possibilità di cambiamento solo attraverso il consumo di prodotti bio ed equo, una sinistra-caviale, che s'inserisce in una dinamica capitalistica, tutta musica indie, in cui l'essere multiculturale si limita al consumare cous cous la sera con gli amici, nei ristoranti decorati a lampade marocchine e foto di bambini africani sui muri, ma che evita con nonchalance qualsiasi militanza o critica anticapitalistica.

Questa piccola borghesia intravede Molenbeek, nel miglior dei casi, attraverso il suo naviglio, il canale che da fine Ottocento separa il centro del potere (Bruxelles), borghese, nobile, opulente, dai quartieri “piccola Birmingham” o “piccola Manchester”, occupati prima da una classe operaia oppressa, ora da un'immigrazione silente.
Una contraddizione palesata dall'architettura e che si avverte ancora oggi: su una riva palazzine lussuose, decorate con eclettica confusione, sull'altra architetture essenziali, semplici, tecniche e fabbriche. Fabbriche che hanno chiuso poco a poco, con un picco negli anni Settanta, lasciando uno strascico di immigrati portati dal capitalismo belga, sopratutto dal Marocco, per abbassare il costo del lavoro della classe operaia belga (già composta in gran parte da una precedente immigrazione, soprattutto italiana).

Molte di queste fabbriche sono tuttora a Molenbeek, abbandonate, crollanti, occupate ogni tanto da giovani spensierati dei quartieri bene per rave e feste notturne underground. Un canale, quello che separa Bruxelles da Molenbeek, sempre più fagocitato da una violenta speculazione edilizia e da una gentrificazione che espelle, giorno dopo giorno, gli occupanti più poveri.
In questo processo arriva non ultima, pochi giorni fa, l'inaugurazione di un nuovo museo, il Mima, sulle arti cosiddette minori e di strada; graffiti, artisti non convenzionali, la cui arte è stata sin qui repressa dalla cultura ufficiale, oggi recuperati e assorbiti nel grande mercato dell'arte globale. Un centro culturale che, in modo cool, partecipa, in modo involontario o forse no, a tale fenomeno di “pulizia etnica”, e senza che nulla vi sia detto sulla situazione di Molenbeek.

Per le strade di Molenbeek si vede soprattutto la seconda e terza generazione degli immigrati. Giovani che non si sentono belgi, non perché non vogliano esserlo, ma perché nessuno li vuole, nessuno li ha voluti né li ha fatti sentire parte del paese, della collettività. Generazioni perse, per sempre, confinate tra “scuole-spazzatura”, assenza di speranza, disoccupazione di massa.
E in tutto ciò sinistra e sindacati sono assenti, inesistenti su questi temi e su questi territori. Non vi è dunque nessuna coesione sociale vera, una delle tante conseguenze di un mondo del lavoro distrutto e umiliato durante più di trenta anni di politiche del grande capitale belga. Una disoccupazione di massa controllata, si fa per dire, dai cuscini della protezione sociale, welfare che viene tagliato senza pietà a tutte le famiglie di Molenbeek i cui figli siano soltanto sospettati di aver preso parte allo Stato Islamico.

Dopo la cattura di Abdeslam la tensione non ha cessato di crescere, mescolandosi progressivamente al quotidiano e per più di un giorno non sono potuto tornare a casa. Poi la felicità isterica della popolazione per la cattura simbolica del "ricercato (arabo) numero uno" e, come c'era da aspettarselo, la risposta con l'attentato in aeroporto.
Della bomba a Zaventem ho saputo al risveglio. La mia alienazione ormai avanzata mi ha comunque spinto ad andare al lavoro, malgrado l’accaduto. Un po' in ritardo ho preso la metropolitana, con destinazione Maelbeek, la fermata che preferisco a Bruxelles perché tutta bianca, con dipinti di visi fatti a mano su piastrelle simil-portoghesi e la scritta Maelbeek, fatta a mano.
Da lì ogni giorno prendo il bus per piazza Flagey, dove lavoro. All'improvviso si ferma la metro, ci fanno scendere ed evacuare la stazione, a poche fermate da Maelbeek, ormai esplosa. Ci dicono di esplosioni in varie stazioni (informazione poi smentita). C’è panico, ma in silenzio, ognuno per sé, dio denaro per tutti. Nessuno si parla, nessuno si aiuta, siamo tutti fuori, per strada, smarriti.

Le macchine non si fermano né per darci un passaggio né chiederci cosa succede, i taxi neanche. Come un perfetto prodotto alienato della società attuale, continuo a pensare che devo arrivare all’università. Riesco a trovare un Uber per miracolo. Chiedo se tra la gente lì ferma qualcuno deve andare verso Flagey, per condividere il taxi, ma non ottengo neanche uno sguardo, un "no grazie". Ognuno per sé, dio denaro per tutti.
Spendo trenta euro e, giunto all'università, continuo la mia vita normalmente. È in corso una conferenza che sto organizzando sulla “de-costruzione della prigione”. Intanto le notizie di morti arrivano. Nel frattempo arriva un compagno da Parigi, Léopold Lambert, che, malgrado le prime notizie sugli attentati, decide di venire lo stesso a Bruxelles per darci un aiuto nel workshop.

L'università viene evacuata, ma i cinquanta studenti, gli insegnanti e i conferenzieri decidono di continuare a lavorare. I temi (prigione, crimine e punibilità, uccisione, i luoghi della giustizia e dell'ingiustizia, ecc.) ci spingono a farlo. Andiamo a lavorare in un bar. Léopold non sa se potrà tornare a Parigi, tutti i treni sono stati soppressi.
La giornata è triste ma intensa. Facciamo ciò che dà più speranza: insieme, con giovani impegnati, ragioniamo sul futuro. A fine giornata la linea ferroviaria per Parigi viene riattivata, con grande soddisfazione degli eurocrati.
Accompagno Léopold alla Gare du Midi, tra polizia, militari e armi. Controlli fatti solo ai giovani neri e agli arabi mentre i bianchi, soprattutto se ben vestiti, passano senza problemi.
In realtà, più che una questione etnica, si tratta di una questione di classe. Partito Leo mi ritrovo solo, in una città blindata, senza trasporti pubblici, senza collettivo, senza solidarietà, senza dialogo tra la gente. Ognuno per sé, dio denaro per tutti. E tanti, tanti militari, più di quelli già impiegati da novembre, come in un paese sotto assedio fascista.

Il workshop è proseguito il giorno dopo, la città ha continuato a vivere nella normalizzazione dell'anormale: controlli per entrare in metro (nelle poche stazioni riaperte, senza che qualsiasi informazione venisse data), vetture sospese, autobus con mezz'ore intere di ritardo. Nessuna soluzione per le lavoratrici e i lavoratori che devono recarsi al lavoro, malgrado tutto il caos.
Sì, perché il leitmotiv è: "la normalità, per vincere il terrorismo" (ergo: continuate a lavorare perché non vogliamo perdere soldi ma, intanto, continuiamo a infliggervi la propaganda del terrore). Ma chi paga le conseguenze di questa normalizzazione forzata? La povera gente, quella che abita a Molenbeek appunto, che si ritrova senza mezzi, che deve camminare un'ora o più per arrivare a casa, quelli senza macchina, che non abitano nei quartieri "bene".

E intanto loro, i padroni della città, eurocrati, burocrati, lobbisti, politici, grandi capitalisti, membri della NATO, la piccola e media borghesia, loro, intasano la città con le loro grosse macchine bavaresi. Ed ecco che Bruxelles si ritrova anche sotto il loro assedio, intasata: tante, tante macchine ovunque, ognuno nella sua piccola meschinità, solo, ognuno per sé, dio denaro per tutti.
E noi a camminare come poveri cristi, ad aspettare per ore autobus già scarsi anche prima degli attentati. Nessuna restrizione per loro, restrizioni per noi. Mezzi gratuiti? No. Mezzi speciali anche di notte? No, coprifuoco. Siamo noi, sempre noi, a rimanere senza niente. Noi, delle "periferie del centro", sempre noi, a pagare con morti in metro, controlli per strada, pagare per le guerre di lorsignori, loro che stanno in comode Bmw.
A noi i disagi e i morti delle loro guerre e dei loro guadagni.

E, nel mentre, una profusione di banalità, sparatoria incessante di cliché, luoghi comuni, propaganda più o meno velata. E, per quanto riguarda i media italiani, la situazione è ancora più drammatica. È in quei giorni che si è toccato con mano l'ormai incolmabile varco che si è creato tra l'Italia e il resto d'Europa in termini d'informazione. Su la Repubblica o il Corriere della Sere ho visto notizie ricavate da facebook, immagini drammatiche con musichette hollywoodiane, sensazionalismo puro, articoli assurdi basati sull'aria fritta, banalizzazione di problemi complessi, confusione, vuoto pneumatico informativo.
Ho anche letto un articolo che erge l'aeroporto di Bruxelles a simbolo della "laicità occidentale", un aeroporto dove arabi e neri sono gli addetti alle pulizie. Non so cosa sia più doloroso, se i morti fisici o la morte dell'intelligenza collettiva a cui assistiamo.

Nei giorni successivi l'università è stata di nuovo chiusa, ma non del tutto. No. Secondo il modello dominante del capitalismo odierno, si è trattato di una chiusura su se stessi nel mantenimento della normalità produttiva. Ogni persona doveva mostrare la tessera universitaria, nessun esterno entrava fino a nuovo ordine. Il controllo lo faceva uno della croce rossa. Tutti, come sempre di questi tempi in Belgio, trovavano tutto normale.
Per gli studenti, apatici e alienati, tutto normale. I professori, tutto normale. Una professoressa illustre di un illustre centro di ricerca con illustri titoli, mi ha detto: "ma è normale! Altrimenti chiunque potrebbe entrare! Pensa, Gregorio, che a volte qui entrano i senzatetto per usare le nostre toilette, ti rendi conto? È uno scandalo!". Da una grande ricercatrice mi sarei aspettato che lo scandalo fosse l'esistenza stessa dei senzatetto.

Un giorno ho provato a fare una foto dei tanti camion militari che occupavano la città. Un soldato mi ha preso il cellulare e ha cancellato le fotografie, senza chiedermi il permesso. Ecco, questa è l'aria che tirava in quei giorni. Nelle settimane successive la metropolitana è rimasta chiusa, con solo alcune fermate aperte, e solo sino alle 22. La presenza dei militari e della polizia si è intensificata, ma il paese non ha reagito, com’era successo a Parigi, con una manifestazione, se non quella di domenica 17 aprile “Contro la paura e il terrore”, alla quale hanno partecipato poche migliaia di persone. Due ministri si sono dimessi dopo le rivelazioni sulle loro disfunzioni in termini di sicurezza.
Il ministro degli Interni, in un governo federale governato dalla destra, dalla destra conservatrice e dall'estrema destra, ha dichiarato che “molti musulmani hanno ballato quando hanno scoperto degli attentati a Bruxelles”. Chissà, forse qualche musulmano avrà anche ballato. Ma ciò che è certo, qui, è che a traballare è la democrazia.