La nostra politica, contro il terrore

Fri, 25/03/2016 - 16:54
di
Piero Maestri

Quanto avvenuto a Nizza, con il suo consueto carico di morti e vittime, per quanto ancora poco chiaro riguardo a chi sia il responsabile “politico” – perché la biografia e le caratteristiche dell'attentatore non potano necessariamente ad un attacco con finalità politiche – ci chiama alla parola, alla riflessione collettiva.
Nei giorni scorsi, dopo il criminale attentato terroristico a Dacca in Bangladesh, che ha provocato la morte di oltre venti persone tra le quali 9 italiani, avevamo già pensato di pubblicare e condividere una riflessione, per non arrenderci al silenzio e ancora meno alle spiegazioni di comodo o alla narrazione istituzionale di chi ci vorrebbe tutte/i allineate/i in un “noi” che sarebbe quantomeno da circostanziare.
In quei giorni circolavano sui social due tipi ideali di commento a quanto avvenuto: uno che voleva essere falsamente autocritico (mentre se la prendeva con “altri” non ben definiti) secondo il quale dobbiamo finalmente accorgerci che siamo di fronte ad un nuovo fascismo, diffuso, pericoloso, centrale e prioritario per ogni nostra azione, che deve conseguentemente essere “straordinaria”; un secondo che vorrebbe invece contestualizzare e rischia invece di essere “giustificatorio”, o comunque di non cogliere elementi importanti – secondo il quale non possiamo dimenticarci lo sfruttamento occidentale in Bangladesh, i torti dell’occidente anche sul piano militare e così via.
Entrambi questi commenti ci lasciano perplessi e non ci convincono: il primo perché rischia di rendere inintelliggibile la formazione dei gruppi terroristici, il loro radicamento territoriale, le ragioni di fondo della scelta jihadista da parte di soggetti non facilmente identificabili, arrivando al suo estremo a raccontarci la storia di una civiltà europea sotto attacco, a rischio di distruzione “come vorrebbero i terroristi”.
Il secondo invece rischia di nascondere la soggettività politica dei gruppi jihadisti, il loro essere non un “prodotto inevitabile” delle politiche occidentali, ma una costruzione politica che colpisce innanzitutto i movimenti di liberazione ed emancipazione che nascono all’interno di quei paesi. Gruppi reazionari, indubbiamente, soprattutto per quello che vorrebbero fare nei loro territori.
Comprendere chi siano, che politica facciano, quali siano le possibili contro società dove nascono e/o prosperano quei gruppi è importante per combatterli sul piano politico prima ancora che militare.
Così come fondamentale è comprendere come e dove nasce la frustrazione, la rabbia, la radicalizzazione che spinge soggetti tanto differenti a gettare nel fuoco di attentati e sucidi le loro vite.
Convinti, come già scrivevamo, che la nostra politica sia e debba essere contro il terrore.
Allo stesso tempo la nostra politica deve sempre riuscire a mettersi a fianco dei movimenti sociali e politici che ovunque si battono per la libertà e la giustizia. E per questo ci preoccupa la tendenza (lodata anche a “sinistra”) per una “nuova Yalta”, una nuova spartizione della regione mediorientale tra Russia e Usa – conseguente al nuovo ruolo ottenuto da Putin dopo il suo intervento a fianco del dittatore siriano e il fallimento della strategia di Turchia e Arabia saudita. Tra l’altro questa nuova Yalta troverà un posto a tavola anche per Bashar el Assad, salvato dall’aviazione russa e dagli attentati di Daesh.
Sappiamo che ogni spartizione, siano sul modello di Yalta o accordi su neo-protettorati stile Sykes-Picot, comporta una perdita di partecipazione per le popolazioni soggette – a cui viene chiesto di assoggettarsi alle esigenze di sicurezza e stabilità garantite dalle potenze mondiali.
Sappiamo anche queste stesse spartizioni entrano in crisi: nostro compito è sostenere le forze democratiche e popolari che possano favorire questa crisi in una prospettiva di liberazione.
Ripubblichiamo una riflessione fatta dopo gli attentati di Bruxelles che ci pare ancora attuale e completa.

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I tremendi attentati di Bruxelles - dopo quelli avvenuti a Istanbul, in Costa d'Avorio, in Mali, in Siria, a Parigi e così via - rimettono al centro della scena internazionale, soprattutto europea, la pericolosità diffusa dei gruppi reazionari jhiadisti, in particolare di quelli legati ad al Qaeda e al "califfato" dello Stato islamico.

Le reazioni dopo gli attentati sembrano seguire un copione abbastanza scontato: è un terrorismo fondato sulla "ideologia" (quindi su una "lettura del Corano", a volte giudicata come estranea allo stesso, altre come conseguente...); gli attentatori sono "ribelli senza causa" e/o fanatici religiosi; l'Europa viene attaccata perché si vogliono colpire i suoi "valori", la vita quotidiana delle sue cittadine e dei suoi cittadini
A queste "spiegazioni" se ne contrappongono altre che riducono il fenomeno a semplice prodotto delle politiche imperialiste, o perché quelle politiche hanno come "risposta" la crescita del terrorismo e gli attentati contro il territorio degli stati che partecipano a quelle politiche; oppure perché i gruppi jihadisti sarebbero stati creati, voluti, finanziati dallo stesso occidente e i suoi alleati nella regione mediorientale.

Tutte queste spiegazioni (un esempio brillante e intelligente è rappresentato dall'articolo di Alberto Negri) non ci convincono, non perché non contengano elementi di verità, quanto perché sottovalutano l'autonomia e il carattere principalmente politico dei gruppi terroristi e la loro dinamica nel contesto delle guerre mediorientali.

Già in altri articoli abbiamo ipotizzato che Daesh (ancora più che al Qaeda in precedenza) sia un prodotto della complessità della situazione mediorientale conseguente alla guerra e poi alla "sconfitta" degli Usa in Iraq e alla mancanza di sbocchi della rivoluzione siriana.
Come abbiamo scritto, "dentro la crisi della rete di al-Qaeda sono cresciuti nuovi leader e quadri che hanno cercato di affermarsi in un primo tempo come i più affidabili sul piano militare per ottenere finanziamenti vari (in particolare dei paesi del Golfo) e si sono poi resi molto più indipendenti da questi stessi finanziatori (statali o privati) cercando di realizzare in alcune aree "liberate" uno stato accettabile per le fasce sunnite più frustrate - a partire dall'Iraq (dove i sunniti sono stati messi ai margini dal governo di al Maliki e dall'Iran) e dalla Siria, dove la persistente guerra civile e le incapacità dei gruppi ribelli di darsi un coordinamento efficace hanno creato le condizioni per un certo consenso verso Isis. L'Isis non è il prodotto diretto e conseguente della rivolta siriana, quanto la malattia che si sviluppa su un corpo indebolito dalla guerra civile e dalla repressione del regime. Analogamente, in Iraq, non è l'artefice di una destabilizzazione del paese, quanto un prodotto della frammentazione sociale e delle disastrose performance dei governi di al-Maliki - sostenuti da Usa e Iran. (...)".
Lo Stato islamico è riuscito ad affermarsi in una vasta regione a cavallo tra Siria e Iraq e da allora è diventato il principale nemico di tutte le potenze globali e regionali, almeno sulla carta. In realtà chi davvero ha combattuto le forze dello Stato islamico sul terreno sono stati i gruppi della resistenza curda e quelle di diversi gruppi dell'opposizione siriana non islamista (a volte anche islamista...). Perché fino a qualche mese fa lo Stato islamico rappresentava un pericolo mortale quasi solamente per le popolazioni e gli altri soggetti politico-militari presenti in Siria e Iraq, dove si è sviluppato il territorio controllato dallo stesso Stato islamico.

Ma allora perché adesso l'Europa? In fondo non è che i paesi europei, a parte qualche bombardamento sempre ben pubblicizzato e poco efficace, stiano facendo grandi sforzi militari contro Daesh.
Ovviamente le analisi propagandistiche che parlano di atti che vogliono colpire i nostri "comuni valori" sono una grandissima sciocchezza. Da un lato perché sono stati colpiti anche paesi africani e dello stesso medioriente (che in genere non partecipano del tutto di quei “valori”); dall'altra perché anche questa è una spiegazione che identifica la causa nell'ideologia e non nella politica.
L'Europa è invece un obiettivo prettamente politico, per diverse ragioni.
In primo luogo in Europa vivono milioni di musulmani spesso in condizioni sociali, culturali e politiche di marginalità. In questi casi, l'ideologia c'entra eccome, perché rappresenta un potente fattore di mobilitazione, soprattutto quando si intreccia alle condizioni della vita quotidiana. Questo non significa che inevitabilmente o in maniera diretta le condizioni sociali dei settori migranti, soprattutto di seconda e terza generazioni, spingono ad abbracciare l'ideologia e la pratica fondamentalista e terrorista; certamente però ne sono un fattore di facilitazione: la frustrazione - che non significa necessariamente basse condizioni di vita o culturali - può portare a rivolgersi a soluzioni ideologicamente rassicuranti e a scelte che appaiono più coinvolgenti (e totalizzanti) per la propria persona e personalità.
La rabbia di abitanti di Molembeck al momento dell'arresto di Abdeslam sembra essere un segnale di tale frustrazione e della radicale contrapposizione con le "forze dell'ordine"; radicalità che può semplicemente provocare ribellione sociale senza andare oltre e che in alcuni casi può invece subire il fascino dei reclutatori. Oliver Roy la definisce "islamizzazione della radicalità".
L'Europa è anche la principale destinazione dei rifugiati che fuggono dalla guerra, in particolare dalla guerra siriana - e spesso fuggono dalle zone controllate dallo Stato islamico. Anche in questo caso gli attentati sono un messaggio rivolto a loro: "L'Europa in cui voi state andando non è quella che vi accoglierà, ma sarà quella che vi sfrutterà e 'corromperà'".

Finora nessuno degli attentatori ha origine siriane (a parte quelli operanti in Turchia) e tantomeno viene dalle file dei profughi che oggi vengono rimbalzati da una frontiera all'altra. Ma a loro parla lo Stato islamico, perché fare una guerra necessità anche di costruirsi un ampio consenso.
Sarebbe una sciocchezza affermare che l'attentato a Bruxelles possa essere una "risposta" agli accordi tra Unione europea e Turchia - che anzi fanno il gioco di Daesh e di chi presenta l'Europa come un continente di "crociati" e di politiche di esclusione. Non è però così campato in aria pensare che colpire il centro dell'Unione europea mandi un messaggio anche riguardo quell'accordo.

Al di là della propaganda, la strategia di Daesh è ancora profondamente legata alla sua presenza in medioriente. Lì vuole mantenere e sviluppare l'esperienza statuale - che possa funzionare come collettore di nuove reclute e di "esempio" di un califfato realizzabile/realizzato.
La fase che sta attraversando il conflitto siriano è allo stesso tempo pericolosa e potenzialmente fruttuosa per Daesh.
L'apertura di negoziati a Ginevra e la cessazione delle ostilità porta in questa fase ad una maggiore concentrazione degli attacchi verso il territorio controllato da Daesh, sia dell'esercito del regime che di gruppi dell'opposizione. Questo potrebbe spingere Daesh a esternalizzare la sua violenza per presentarsi come soggetto da cui non si può prescindere e che deve in qualche modo essere considerato - oltre che come risposta agli attacchi che subisce.
D'altra parte un possibile fallimento degli stessi negoziati darebbe maggiore forza e legittimità a chi ne è rimasto fuori (tra questi Daesh) che potrebbero cercare di raccogliere la frustrazione di chi vede in Ginevra l'inizio di una transizione che superi il regime degli Assad e potrebbe alla fine trovarsi con una soluzione che si impernia ancora su quel regime (o con un fallimento dei negoziati stessi).

Se la strategia di Daesh è profondamente radicata in medioriente, questo non toglie che noi tutte/i ne siamo coinvolte/i. E non solo perché nell'aeroporto di Bruxelles o nel Bataclan di Parigi poteva esserci chiunque di noi, ma anche perché la sconfitta della rivoluzioni arabe - che venga dalla reazione miliare e dei potentati del Golfo o dall'islamismo reazionario di al Qaeda o Daesh – ha provocato finora e provocherà un passo indietro per le condizioni di vita e le speranze di libertà dei popoli della regione - con conseguenza anche sulle nostre condizioni di vita e le nostre speranze di cambiamento. Anche perché, grazie ai professionisti della paura e gli sciacalli che prosperano come corvi appollaiati sulle notizie degli attentati, la nostra società rischia davvero un imbarbarimento culturale e un sempre maggiore consenso alle politiche securitarie e razziste.

Daesh è un nostro nemico, su questo non ci può essere alcun dubbio. E la domanda che molti si pongono è, quindi, come possiamo e dobbiamo combatterlo.
Nessuna ricetta e nessuna idea geniale e inedita. Solo qualche considerazione in merito, anche per provare a discuterne.
In primo luogo dobbiamo ribadire che i governanti a braccetto nella famosa fotografia della manifestazione a Parigi dopo l'assassinio nella redazione di Charle Hebdo sono nostri avversari. Lo sono perché le loro politiche hanno prodotto lo scontro delle barbarie, perché le loro scelte di guerra hanno aperto la strada e legittimato i peggiori gruppi reazionari, perché la loro pretesa risposta al terrorismo colpisce prima di tutto popoli, vite, le nostre libertà, le nostre relazioni sociali.
Non siamo tutti sulla stessa barca: loro sono quelli che le barche le affondano – a volte nemmeno metaforicamente.
Da questo punto di vista ci aspettiamo poco dalle “risposte istituzionali”, dalla lotta al terrorismo. Certo, speriamo – e ci batteremo affinché – le politiche securitarie e di stato d'eccezione lascino il posto a riforme profonde che rendano possibile un'Europa delle cittadine e dei cittadini, dei diritti sociali, dell'accoglienza. Ma non abbiamo alcuna illusione: non può essere il piromane a spegnere l'incendio che ha provocato.
In questo senso condividiamo quanto è stato scritto sui limiti, gli errori, la percezione deviata dei servizi di intelligence europei (un contributo interessante viene da Aldo Giannuli). Ma non ci appassiona più di tanto questo tema: per quanto efficienti ed efficaci, i servizi di sicurezza non potranno sconfiggere un avversario politico che si nutre delle politiche dei governi che esprimono questi servizi.

Vorremmo invece provare a capire cosa possiamo fare noi per contribuire a isolare, delegittimare, combattere il terrorismo reazionario e fondamentalista – prosciugando ogni possibile pozza d'acqua dove possa abbeverarsi.
Prima di tutto va garantito il nostro sostegno politico e materiale, alle forze che combattono sul campo Daesh e i gruppi fondamentalisti. Ci riferiamo ovviamente alle forze curde in Siria e Iraq e ai gruppi dell'Esercito siriano libero ancora attivi; ma vogliamo qui ribadire il sostegno che va dato anche a quei settori di popolazione che provano a resistere dall'interno dei territori controllati da Daesh o da altri gruppi jihadisti reazionari; vogliamo ricordare il contributo fondamentale dato a questa lotta (come esempio) dalle sinistre pakistane, dalle donne di Rawa in Afghanistan, dalle società civili organizzate che ancora tengono viva la speranza (e l'organizzazione) delle rivoluzioni nel mondo arabo...
Non è solo solidarietà, ma anche un nuovo internazionalismo che ricordi come la stagione del 2010/2012 abbia dimostrato che solamente l'effetto domino e le relazioni tra proteste, indignazioni e rivolte possono rendere ognuna di queste e tutte insieme più forti.
In secondo luogo dobbiamo impegnarci affinché nelle nostre società, in Europa si chiudano gli spazi di agibilità politiche delle destre razziste e nazionaliste – e questo lo si può fare con un impegno militante, politico e culturale, ma soprattutto attraverso la ripresa di un conflitto sociale che riproponga il tema dell'autodeterminazione, della partecipazione, del mutuo soccorso. Conflitto sociale che deve saper coinvolgere i settori migranti e i rifugiati – perché dobbiamo ricostruire la frontiera del “noi”: tra i terroristi (istituzionali o fondamentalisti) e i terrorizzati, noi stiamo dalla parte di questi ultimi.
Non possiamo accettare e permettere che circolino senza reazione le narrazioni della concorrenza sleale da parte di profughi e migranti, l'idea della invasione (magari programmata dall'alto per “distruggere i nostri valori”), le politiche dei muri e dei respingimenti.
Nei nostri quartieri, nelle nostre banlieu, nei nostri Molenbeck, Tor Pignattara, Giambellino – dobbiamo contrastare l'isolamento sociale, l'abbandono da parte di un welfare che si ritira e protegge solo fasce “garantite” (temporaneamente), la frattura che si crea tra “noi e loro”. Un impegno fatto di riappropriazione dei quartieri stessi, dei saperi, delle relazioni sociali.
Così come combattiamo Daesh con la presenza delle tante e tanti volontarie e volontari che stanno sostenendo rifugiate e rifugiati a Idomeni, a Lesbo, in Serbia, in Puglia.....
Per quanto sappiamo che Daesh e gli altri gruppi reazionari siano un fenomeno politico, sappiamo anche che si nutrono di questo isolamento sociale, di queste frustrazioni: garantire libertà a tutte e tutti è il primo passo per sconfiggere il fascino del terrore.

Lorenzo Declich, con ragione, scrive che “la sfida globale non è militare o poliziesca, ma umana e sociale, e questo attentato dimostra ancora una volta che la stiamo perdendo”: dobbiamo provare a non perderla, non seguendo i richiami all'unità nazionale, il “tutti insieme contro il terrorismo” - che in genere sono il preludio a nuove avventure militari e/o alla militarizzazione delle nostre stesse società – quanto facendo la nostra parte affinché nessuno si senta escluso, creando spazi autonomi di relazione e di conflittualità sociale dove chiunque si senta al proprio posto, tranne sciacalli (umani) e professionisti della paura.