La guerra di Erdogan tra curdi e Siria

Tue, 18/08/2015 - 23:04
di
International Communia

Il medioriente continua ad essere una regione estremamente instabile e nella quale si susseguono avvenimenti che sembrano poterne cambiare la stessa geografia in tempi non lunghi. Questo avviene all'interno di conflitti molto forti e scontri armati di diversa natura, quasi sempre estremamente costosi per la popolazione della regione.
Dopo l'accordo sul nucleare tra Usa e Iran - sul quale abbiamo provato a fare delle prime considerazioni qualche settimana fa - l'attentato contro i giovani socialisti a Suruc, la decisione turca di intervenire nel nord della Siria e il riaccendersi del conflitto armato con il Pkk anche all'interno del paese rappresentano avvenimenti estremamente importanti e sui quali vogliamo aprire un'ulteriore riflessione. Prossimamente torneremo anche sulla guerra siriana e sulla resistenza al regime che si esprime in quel paese.
(Redazione internazionale)

Le ultime settimane hanno riacceso i riflettori sul medioriente in maniera ancora più forte di quanto già questa regione fornisca notizie alla stampa internazionale.
In particolare l’attentato di Suruç contro giovani socialisti curdi (attribuito a Daesh, anche se questa organizzazione finora non lo ha rivendicato e sono stati i servizi di sicurezza turchi a dare questa versione, per loro decisamente comoda…) ha emozionato l’opinione pubblica democratica in Europa e in tutto il mondo – rilanciando la solidarietà nei confronti della “causa curda”.
I giorni seguenti sembrano aver accelerato dinamiche regionali complesse e aumentato la violenza in un’area già pesantemente colpita – in specifico le zone del nord della Siria e dell’Iraq al confine con la Turchia.

La solidarietà verso la resistenza curda e degli altri soggetti della società turca contro le politiche di Erdogan e contro Daesh è per noi incondizionata; allo stesso tempo ribadiamo la nostra solidarietà verso le opposizioni siriane democratiche, armate e non, che cercano ancora di tenere accesa la fiammella di una rivolta contro il sanguinario regime di Bashar el Assad, che continua a bombardare e massacrare il “suo” stesso popolo grazie anche all'imponente dispiegamento di milizie religiose foraggiate dall'alleato iraniano (che interviene anche direttamente) e dalla distensione raggiunta da quest'ultimo con gli Usa e le potenze occidentali.
Questa solidarietà ha bisogno più che mai di provare a formulare alcune ipotesi, percorsi di ricerca, relazioni per comprendere quali siano le politiche dei diversi attori in campo e cosa possiamo aspettarci nei prossimi mesi. Un tentativo non a freddo e con gli occhi alla geopolitica, ma dal basso e con l’obiettivo di indirizzare meglio e con più forza il nostro impegno di solidarietà.

In questo momento sembra abbastanza evidente che Erdogan rappresenti l’attore che più sta lavorando per un'estensione e una diversa direzione del conflitto in corso nella zona tra Siria, Iraq e sud-est della Turchia stessa.
L’attentato di Suruç (che, senza voler indulgere in dietrologie o complottismi, ha tanto il sapore della “strategia della tensione”) è stato colto al balzo dal presidente turco per presentarsi al mondo – e agli alleati statunitensi – come soggetto indispensabile nella “guerra ad ISIS”.
L’accordo con gli Usa che permette a questi ultimi l’utilizzo della base aerea turca di Incirlik per i loro droni da bombardamento ha dato luce verde a Erdogan per compiere decine di attacchi aerei contro le postazioni del PKK nel nord dell’Iraq.

Gli obiettivi di Erdogan sono molteplici.
In primo luogo cerca di arrivare alla scadenza del mandato esplorativo per la formazione di un nuovo governo in una posizione di maggiore forza, dopo il brutto colpo preso nelle elezioni parlamentari di giugno, quando l'HDP, partito di sinistra nato dal cuore del movimento curdo per l'autodeterminazione, ha bloccato l'ascesa di Erdogan superando lo sbarramento del 10% per entrare in parlamento sottraendo voti al suo partito, l'AKP.
Data ormai per scontata l’impossibilità di una coalizione di unità nazionale con tutte le forze presenti in Parlamento e con l’HDP in particolare, Erdogan tenta ancora una volta la carta dell’isolamento del partito “filo-curdo” rappresentandolo come sostenitore del “terrorismo” del PKK e invitando sia l'estrema destra nazionalista del MHP che i nazionalisti del CHP, da sempre critici del processo di pace con il PKK portato avanti dal partito di governo, a sostenere un governo dell’Akp.
Se non dovesse riuscirci - e le ultime notizie parlano di rottura con il CHP e della probablità di un governo di unità nazionale che porti a nuove elezioni - la Turchia dovrebbe andare di nuovo al voto in un clima di unità nazionale dove non è escluso che recuperi tra i nazionalisti i voti dei curdi persi alle ultime elezioni, scavando nel profondo del razzismo e del nazionalismo turco, e con centinaia di attivisti dell'HDP in carcere: dei 1.030 arresti dichiarati dalla polizia quasi 900 sono di attivisti curdi e molti di essi sono esponenti dell'HDP. Intanto Demirtas, coportavoce dell'HDP, è sotto inchiesta per aver “sobillato” le manifestazioni di ottobre a sostegno alla resistenza di Kobane.

In secondo luogo la mano libera nel nord di Siria e Iraq permette ad Ankara di colpire il suo principale avversario in questa fase: il PKK e i suoi alleati curdo-siriani del PYD.
Una volta compresa l’impossibilità di un vero accordo di pace con il PKK – che nelle intenzioni di Erdogan avrebbe dovuto basarsi su un riconoscimento della sua egemonia nel paese e del ruolo dell’AKP come partito insostituibile – il presidente turco ha mosso le sue pedine per accendere ogni possibile scintilla che riavviasse il conflitto aperto. L’isolamento a cui è di nuovo sottoposto Abdullah Ocalan dallo scorso aprile (prima delle elezioni quindi) è in questo senso sintomatico ed esplicativo, così come il sabotaggio del cosiddetto accordo del Dolmabahce, annunciato agli inizi di marzo ma subito smentito dichiarando che “non esiste un problema curdo”.

La strategia di Erdogan mira anche ad approfondire i dissensi all’interno del PKK nei confronti della proposta di pace di Ocalan e allo stesso tempo nel rendere più complicato un auspicabile consolidamento e crescita del carattere “generale” (cioè non semplicemente curdo) dell’HDP come canale di rilancio di una nuova sinistra in Turchia. L'elemento visibile di questi dissidi, che ovviamente riguardano anche l'HDP, è l'entrata in scena di un nuovo soggetto armato legato al PKK ma autonomo: il YDG-H, un'organizzazione giovanile presente in varie città della Turchia. È stata questa organizzazione che ad ottobre ha preso la testa delle manifestazioni quando Demirtas ha chiamato alla mobilitazione in solidarietà con Kobane e contro le dichiarazioni di Erdogan sulla sua presunta caduta. Sempre questa organizzazione ha sfilato armata per la città di Istanbul facendo intendere che la risposta armata non sarà limitata all'est del paese. Nel frattempo la polizia turca ha represso con estrema violenza e con arresti di massa qualsiasi manifestazione di protesta contro l'entrata in guerra della Turchia, con il risultato che l'unica protesta di strada oggi visibile e possibile è rappresentata dalle barricate in fiamme e dalle molotov. Il rischio di ricadere nella guerra civile sembra per il momento un rischio accettabile per consolidare il suo potere.
Anche gli attacchi a Istanbul e nelle zone curde da parte del Pkk e del Ydg-h rappresentano da una parte la scelta di settori della leadership del partito di tenere alta la tensione e la risposta alle scelte di Erdogan, e dall'altra un rischio calcolato per il presidente turco stesso che cerca di allargare il consenso (interno e internazionale) sulla sua definizione del Pkk come organizzazione «terroristica».

Intanto l'HDP da una parte critica gli attacchi del PKK in territorio turco e dall'altra cerca di rispondere alla propaganda di guerra portata avanti dal governo turco che mette l'ISIS e il PKK sullo stesso piano. Il tentativo è far emergere le responsabilità di Ankara sulla rottura del processo di pace che Erdogan vuole dare per morto. In questa situazione, pesa il silenzio di Ocalan, leader storico del PKK e favorevole al processo di pace, che da febbraio non può ricevere visite nemmeno dai suoi avvocati a causa di un “guasto” dell'imbarcazione che collega l'isola prigione di Imrali. Le conseguenze di questa escalation sulla vita pubblica è un restringimento ulteriore dei già angustissimi spazi democratici all'interno dello stato turco, un indebolimento dei movimenti sociali non armati che lottano per la giustizia sociale ed una Turchia plurale e democratica. Colpisce, quindi, il suo maggiore rappresentate politico: l'HDP.

La responsabilità politica della Turchia nell'attentato di Suruç e negli altri vari attentati (tra cui quello durante il comizio di Dermirtas dove sono morte 4 persone e i feriti sono stati 350, senza contare i morti e i feriti delle manifestazioni che sono seguite), è grave (http://internationalviewpoint.org/spip.php?article4143) e pesa sulle scelte di lotta armata di tantissimi e tantissime giovani curdi e curde. Davanti ad uno Stato che ti ammazza nei cortei, fiancheggia Daesh mentre bombarda chi lo combatte, affossa il processo di pace mentre arresta centinaia di giovani attivisti, molti dei quali con nessuna connessione con la lotta armata, e continua la militarizzazione e la repressione della società nell'est del paese (a gran maggioranza curda) la scelta della lotta armata è vista come l'unica all'altezza dell'attacco sferrato dallo Stato turco.
Uno scontro aperto con il PKK all’interno della Turchia permetterà a Erdogan di avere maggior presa sull’esercito, i cui attuali vertici non sembrano apprezzare totalmente l’interventismo del presidente nel nord della Siria. Al momento non pare che il nuovo capo di stato maggiore nominato pochi giorni fa rappresenti altro che una continuità con i vertici dimessi - e quindi una scelta di forze armate che non entrano direttamente nelle scelte politiche e che cercano di mantenere un equilibrio nelle relazioni con il presidente Erdogan.

In terzo luogo Erdogan attraverso l’intervento contro Daesh e PKK (per ora in realtà solamente contro quest’ultimo) può rilanciare la sua strategia storica “neo-ottomana” che prevede un maggior ruolo turco in tutta la regione, attraverso alleanze più stabili con diversi regimi dell’area (in particolare con l’Arabia saudita) e una maggiore presenza diretta, politica, economica e in alcuni casi anche militare. Da questo punto di vista, è chiaro che Erdogan preferisce avere come vicino Daesh e non un Rojava in mano all'alleato del PKK, il partito curdo-siriano PYD; non è un mistero che, mentre la Turchia è accusata da più parti di favorire Daesh (dalla compravendita del petrolio fino al vergognoso respingimento dalla frontiera in mano alle milizie islamiste di 500 profughi siriani), Ankara ha cercato in tutti i modi di indebolire la resistenza curdo-siriana, impedendo con la forza l'entrata in Siria di chi voleva arruolarsi nelle YPG/YPJ, come dimostrano le decine di vittime civili uccise dalla polizia e dall'esercito durante le manifestazioni per Kobane.

Quindi l’ipotesi di una zona cuscinetto nel nord della Siria rappresenta un obiettivo concreto per Erdogan, perché attraverso quella zona potrebbe scaricare almeno in parte il problema dei profughi siriani (ad aprile 2015 in Turchia erano registrati circa 1,7 milioni di rifugiati), impedirebbe alle forze del PYD/PKK di controllare tutti tre i cantoni della Rojava e manterebbe una forte influenza turca sulle brigate siriane che combattono contro Daesh e Assad – specialmente nella zona di Aleppo.
La guerra di Erdogan contro il PKK rappresenta in questo momento la principale fonte di escalation di un conflitto che non per questo vedrebbe maggiori possibilità di soluzione.

La complessa realtà curda
I curdi sono oggi al centro di alleanze variabili e sono attori protagonisti in un conflitto regionale che generalmente li ha messi ai margini, spezzati e resi invisibili – con l’eccezione dell’autogoverno del nord dell’Iraq che è stato reso possibile dalla guerra statunitense contro l’Iraq di Saddam Hussein.
I curdi siriani hanno approfittato fin dai primi mesi dopo lo scoppio della rivolta siriana per promuovere una propria agenda con l’obiettivo di conquistare il diritto di cittadinanza come minoranza nazionale (fino a quel momento negato dal regione degli Assad) e ipotizzare forme di autonomia e autogoverno della regione del Rojava.
Questo obiettivo è stato perseguito in maniera spregiudicata attraverso un sistema di alleanze o “non belligeranze” su diversi tavoli.
Da una parte le forze curde si sono trovate al fianco di brigate dell’Esercito Siriano Libero sia nella difesa dalla repressione del regime che, successivamente, nella resistenza contro Daesh fino alla riconquista di Kobane (che le stesse YPG/YPJ riconoscono essere stata possibile grazie anche alla presenza di brigate dell’ESL oltre che ai bombardamenti statunitensi) e dei territori circostanti, fino alle operazioni militari delle ultime settimane, ancora una volta congiunte tra YPG/YPJ e le brigatedell’ESL all'interno del comando congiunto chiamato “Vulcano dell'Eufrate”.
Dall’altra parte sono noti accordi di non belligeranza con l’esercito siriano e con il regime, che sembra preferire un Rojava autonomo ma non completamente nemico che dover combattere contro un’opposizione multiforme e unita; questi accordi – evidenti in alcuni casi e nascosti in altri – hanno permesso al PYD di consolidare le proprie posizioni nel Rojava. Questa politica di alleanze è dettata ovviamente anche da ragioni strettamente militari, e tattiche, che non sempre tengono conto della natura dei soggetti con cui ci sia allea pur di non trovarsi tra due fuochi - una tattica politico/militare che può portare però alla pericolosa logica del nemico del mio nemico è mio amico. L'escalation militare della Turchia contro le postazioni del PKK rinforza questa logica: non a caso dalla fine di luglio le aperture del PYD al regime di Assad, che eppure negli anni ha sempre represso violentemente la minoranza curda, ma è acerrimo nemico di Erdogan, sono sempre più frequenti.

Estremamente complesse sono state – e ancora sono – le relazioni tra il PYD e l’opposizione siriana non jihadista. Alleati sul campo in diverse occasioni, come dicevamo, si sono trovate spesso a combattersi, sia per la volontà egemonica di alcuni settori dell’ESL nelle fasi iniziali della rivolta – che non riconoscevano l’autonomia e la specificità della causa curda all’interno di quella dell’opposizione al regime – sia per la tentazione curda di liberare territori della loro regione dalla presenza araba (in risposta all’arabizzazione forzata operata dal regime di Hafez el Assad ma anche per rendere più semplice un processo di autonomia che possa avere anche come sbocco una vera e propria indipendenza).
Ci sembra scorretto parlare di una strategia di “pulizia etnica” da parte delle forze curde, ma ci sono stati casi di fughe di cittadini arabi durante l’avanzata delle forze curde stesse – che hanno ammesso e quindi sconfessato questa politica - conseguenza sia della percezione delle forze curde di essere state a suo tempo emarginate anche attraverso una politica di arabizzazione forzata che della tentazione di alcuni settori di rendere più semplice un futuro autonomo della regione.

In questo momento l’esperienza dell’autogoverno del Rojava è da salvaguardare e sostenere, depurandola dalle mitizzazioni tipiche dell'internazionalismo occidentale.
Salvaguardare l’esperienza dell’autogoverno del Rojava - e valorizzarne la Carta fondamentale per il suo carattere democratico e progressista - non significa dipingerla agiograficamente come un esperimento di socialismo libertario dal basso e fondato sulla partecipazione. La realtà è un po’ più complessa: è vero che l’ideologia delle forze curde del PYD/PKK è decisamente progressista e valorizza il contributo di diversi soggetti sociali (in particolare delle donne, anche nella resistenza armata), ma il ruolo dello stesso PYD è piuttosto autoritario e molto poco pluralista, sia nei confronti degli altri partiti curdi (moderati e legati ai partiti curdo-iracheni) che di altre forze politiche e sociali non curde. Non sono mancate repressioni poliziesche di manifestazioni popolari, che hanno causato anche vittime tra manifestanti non armati.

L'esperienza del Rojava rappresenta certamente una possibile via per il futuro della Siria una volta sconfitto il regime di Assad. Una strada che, salvaguardando il diritto all'autodeterminazione e la necessità di garantire i diritti di tutte le comunità presenti, non può però a nostro avviso passare dalla secessione e dalla costituzione di un’entità autonoma curda (che il PYD dice di non perseguire) che porterebbe ad un effetto domino sull’intero paese, con la frammentazione settaria dello stesso, esponendolo in questo modo ad una totale dipendenza dalle diverse potenze regionali.