Iran-Usa: accordo storico. Tutti contenti, ora?

Sat, 18/07/2015 - 16:15
di
Piero Maestri

Considerazioni politiche e tante domande sulle prospettive in medioriente dopo la firma a Vienna dell'accordo sul nucleare iraniano

La firma nei giorni scorsi a Vienna dell'accordo sul nucleare iraniano tra il governo dell'Iran e gli Usa (più Francia, Gran Bretagna, Cina, Russia e Germania) può essere certamente considerata un avvenimento "storico", che rappresenta allo stesso tempo i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni in medioriente e nelle relazioni politiche globali e un passo per ulteriori modifiche del quadro regionale e mondiale.
I termini dell'accordo - che ha bisogno per essere applicato di diversi altri passaggi - sono stati analizzati in tutti gli aspetti tecnici da diverse fonti. Qui vorremmo provare a esprimere alcune considerazioni sugli aspetti politici e sulle possibili conseguenze per le popolazioni della regione araba e mediorientale.

Naturalmente un accordo di questo genere, risultato di 12 anni di colloqui e confronto, porta con sé giudizi contraddittori ed è difficilmente liquidabile con un segno totalmente positivo o negativo.
E' nel contempo evidente che il contesto in cui si vive cambia anche in maniera radicale la prospettiva da cui guardare all'accordo
Per intenderci: in questi giorni migliaia di ragazze/i in Iran sono scesi nelle strade per festeggiare l'accordo, che potrebbe portare ad una maggiore apertura dell'Iran verso il mondo e comunque allevia le difficoltà economiche; tra queste/i giovani certamente erano in piazza anche alcuni di coloro che nel 2009 avevano dato vita alle proteste contro la presidenza di Ahmadi Nejad, giovani progressiste/i che lottavano per maggiore partecipazione, libertà e giustizia. 
Ma una ragazza o un ragazzo siriana/o, molto simile a quelle/quei giovani iraniane/i e che pure aveva manifestato per libertà, giustizia e democrazia, si sente in questi giorni ancora più abbandonata/o e disillusa/o dalla "comunità internazionale", che sembra premiare il principale alleato del boia Bashar el Assad, quello che permette a questo criminale di continuare a bombardare il suo stesso popolo.
Se, come a noi sembra, sono comprensibili e razionali sia i festeggiamenti dei giovani iraniani, che le proteste e i timori dei giovani siriani, è evidente che questo è un accordo contraddittorio e complesso.

Aggiungiamo un’altra considerazione a premessa del ragionamento sull'accordo.
Si è parlato in questi giorni di "diritto al nucleare" anche per l'Iran. Se da un punto di vista giuridico è probabilmente vero, questo non ci toglie dalla testa l'idea che il nostro pianeta sia già troppo nuclearizzato, sia dal punto di vista militare che da quello "civile". Chi come noi ha sostenuto il referendum contro il nucleare nel nostro paese, non può certo esultare per un accordo che aumenta la proliferazioni di centrali atomiche (con tutto quello che si portano appresso in termini di sfruttamento dei territori, controllo politico e discriminazioni regionali - oltre che di rifiuti radioattivi). In questo senso pensiamo che nessuno stato dovrebbe aver "diritto" al nucleare.
Allo stesso tempo ci pare evidente l'ipocrisia di stati nucleari (civili e militari) che si arrogano il diritto di decidere chi deve far parte del club atomico e chi no. Tanto più in una regione nella quale si sa perfettamente dell'esistenza di armi atomiche in Israele, in violazione di qualsiasi trattato internazionale, che rappresentano un precedente e una spinta alla proliferazione. Inutile sottolineare l'ipocrisia del governo israeliano, principale responsabile della militarizzazione regionale

Sul piano politico, questo accordo rappresenta un successo diplomatico e strategico sia del presidente statunitense Barack Obama che della dirigenza iraniana.
Per quanto riguarda Obama, e ancor più per il segretario di stato John Kerry, si tratta forse del primo vero passo avanti nella strategia di graduale "normalizzazione" della presenza in medioriente, con un riequilibrio delle relazioni con i governi dell'area e un passo avanti del graduale disimpegno militare e di presenza diretta cominciato qualche anno fa.
E' la strategia che Obama ha inaugurato con il ritiro dei militari Usa dall'Iraq, il confronto con il governo israeliano di Nethanyahu, la sostanziale inerzia di fronte alla guerra in Siria e l'altalenante politica verso le rivolte della "primavera araba", salutate in un primo tempo con "simpatia", per poi sostenere i blocchi conservatori e reazionari (fino all'appoggio al colpo di stato e alla repressione del generale egiziano Al Sisi).
Già due anni fa scrivevamo che la strategia di Obama prevedeva "... il superamento della logica dei protettorati politico-militari, per puntare sul soft power e il ruolo degli alleati politici (e di organizzazioni non governative) più ancora che sulla presenza militare attiva per un lungo periodo. In questo senso scompare anche dai documenti citati il riferimento esplicito alla «guerra preventiva» (o pre-emptive) anche perché, seguendo quanto detto precedentemente, non si tratta più di impossessarsi di spazi politici e geografici «vuoti» quanto di evitare che se ne producono di nuovi nelle zone controllate o in equilibrio sempre instabile, in una fase di declino della propria egemonia". E ancora che, in medioriente, "... gli Usa non sembrano avere cavalli sicuri su cui puntare e navigano a vista, cercando di costruire relazioni con chi è in grado di conquistare un potere nei diversi paesi".
L'accordo con l'Iran permette a Obama un ulteriore disimpegno dalla regione mediorientale, per concentrare maggiormente l’attenzione sulla politica asiatica, verso quella regione che sembra essere ormai al centro dei processi di crescita e di confronto rispetto l'economia globale.

Questo accordo sembra in questo senso ridisegnare almeno in parte le alleanze tradizionali statunitensi nella regione, non perché vengono abbandonate le relazioni privilegiate con Israele da un lato e con Egitto, Arabia Saudita e Turchia dall'altro, quanto perché queste relazioni non sembrano più garantire una totale comunanza di interessi strategici e quindi di comportamenti sul campo.
Se gli Usa non mancano e non mancheranno di rifornire di armi a questi stessi paesi (già lo hanno fatto con l'Egitto di Al Sisi e si preparano a farlo con nuove forniture di armi  - tra cui gli F35 da noi ben conosciuti - a Israele), questo non comporterà un allineamento alle posizioni e alle scelte politico-militari di questi paesi.
Questo si vede già oggi in Siria - dove gli Usa si preoccupano solamente di tenere sotto controllo la crescita di Daesh, mentre di fatto accettano la permanenza al potere di Bashar e l'intervento militare di Iran e alleati - e nello Yemen, dove la guerra e i bombardamenti sauditi non sono direttamente sostenuti, anche se nemmeno criticati ufficialmente.
Obama viene criticato dai repubblicani al Congresso e da una parte dello stesso partito democratico - in prima fila Hillary Clinton - per questa sua minore propensione all'interventismo, ma non sembra che questa opposizione possa portare ad una bocciatura dell'accordo e nemmeno ad un suo ripudio al momento della successione alla presidenza.

Per quanto riguarda la dirigenza iraniana, in particolare per il presidente Rohani, si tratta di una vittoria importante, perché riesce a chiudere il periodo delle sanzioni economiche, riporta l'Iran all'interno della diplomazia internazionale, allarga il consenso interno nei confronti di questa strategia che tiene insieme disponibilità al negoziato con un forte interventismo regionale.
Dobbiamo in questo senso dire che la volontà egemonica regionale dell'Iran non è solo il frutto di un proprio progetto strategico offensivo, ma anche degli attacchi e dal tentativo di isolamento che dal 1979 l'Iran sta subendo (e che ha visto immediatamente dopo la rivoluzione del ‘79 il paese attaccato militarmente dall'Iraq di Saddam Hussein, con il conseguente enorme prezzo in termini di morti e di progressiva crescita del potere dei settori legati ai "guardiani della rivoluzione").
Questo non toglie nulla alle scelte interventiste che sono rappresentate in maniera esemplare dal sostegno al regime di Bashar el Assad e al coinvolgimento diretto nella guerra siriana.
L'Iran dovrà rinunciare ad una parte dei suoi progetti nucleari e accettare il controllo internazionale, ma il guadagno che ottiene in cambio è nettamente superiore. In particolare perché grazie alla fine delle sanzioni può ripartire la crescita e lo sviluppo economico. Questo aspetto è salutato positivamente da quasi tutta la società e i vari pezzi della leadership iraniana, compresa la guida spirituale Ali Khamenei e la gran parte dei pasdaran che controllano larghe fette dell'economia nazionale: anche loro negli ultimi anni hanno subito i costi delle sanzioni e ora possono tornare a fare profitti e allargare il proprio potere economico e politico.
In questo senso anche in Iran non ci sarà un'opposizione davvero interessata e capace di bloccare il processo che ha portato all'accordo.

Le perplessità, le critiche e le opposizioni a questo accordo vengono invece da diversi soggetti presenti nella regione, governativi e non.
Scontata l'opposizione del governo israeliano di Benjamin Nethanyahu, che vive la sconfitta anche sul piano personale, dopo aver sfidato il presidente statunitense a casa sua con il suo intervento pre-elettorale al Congresso Usa.
Questa opposizione non sembra però condivisa da gran parte dei servizi di sicurezza israeliani, che ritenevano l'accordo inevitabile e tutto sommato nemmeno così drammatico per Israele, mentre criticavano la scelta di rottura con Obama del primo ministro, che lo ha reso ininfluente nella dinamica negoziale.
In ogni caso Israele è ben attrezzato per poter continuare le sua politiche di guerra contro i palestinesi ed è preparato a qualsiasi vera destabilizzazione ai suoi confini.
Le grida contro l'accordo e contro il pericolo iraniano sono in qualche modo un ruolo scelto da tempo e servono anche a costruire migliori relazioni con chi più da vicino ritiene l'Iran il proprio avversario strategico e cioè Arabia saudita e Egitto.

Nelle scorse settimane si è saputo quello che già era evidente - cioè i colloqui tra servizi israeliani e sauditi. L'Arabia saudita da tempo è pronta ad un accordo di pace con Israele, che gli viene impedito dall'impossibilità di firmarlo di fronte al perdurare dell'occupazione delle terre palestinesi e della contrarietà della gran parte dell'opinione pubblica araba.
Questo non impedisce di farsi favori sul campo e di collaborare dove sia possibile.
Perché è probabilmente proprio l'Arabia saudita che vive la sconfitta più bruciante. Abituata a pensarsi e comportarsi come potenza egemone nella regione, deve fare oggi i conti con una strategia regionale fallimentare e una debolezza della sua stessa leadership, oltre che con una situazione interna meno pacificata di quanto si ritenga.
E' vero che l'appoggio al colpo di stato di Al Sisi è stato totale e ha reso più debole la presenza regionale della Fratellanza musulmana; per il resto non sembra però aver portato a casa grandi risultati: in Siria l'appoggio a vari gruppi jihiadisti ha portato ad una frammentazione delle forze che si oppongono a Bashar e ha in ultima istanza favorito la crescita di Daesh (probabilmente non per una scelta diretta, quanto per un terreno favorevolmente dissodato...); nello Yemen il criminale intervento militare attraverso i bombardamenti anche delle città sta provocando centinaia di morti ma non sembra aver indebolito i gruppi degli Huti e non sembra troppo appoggiato dagli altri paesi alleati (significativo il rifiuto di Pakistan, tradizionale alleato dei sauditi, a intervenire a sostegno dell'intervento); al suo interno la repressione contro la popolazione sciita del paese cresce ma rischia di creare maggiori fratture che consenso - e questo in un difficile passaggio di leadership dopo la morte del re Abdullah.
L'accordo Usa-Iran non rappresenta certamente – almeno per il momento - un cambio di alleanze da parte statunitense, ma certamente è un campanello d'allarme riguardo la minore utilità del servizio che i sauditi posso portare alla strategia Usa.

Le conseguenze negativamente più pesanti dell'accordo sembra però verranno pagate dalla popolazione e dall'opposizione siriana. Non c'è bisogno di fornire troppi dati per evidenziare quanto sia stato fondamentale l'intervento iraniano diretto e indiretto (tramite Hezbollah) nella dinamica della guerra siriana.
Bashar è ostaggio della politica iraniana e vive grazie al sostegno finanziario e militare delle forze armate  e del governo iraniano. Questo non sembra possa cambiare dopo l'accordo, che potrebbe invece avere conseguenze ancora più nefaste, inducendo l'Iran a investire ancora più denaro in quel sostegno.
Inoltre l’Iran viene da molte parti salutato come alleato principale della "coalizione contro il terrorismo" (di Daesh e al Qaeda) che vede già in Iraq una sostanziale alleanza sul campo tra Stati uniti e Iran (d'altra parte il ruolo iraniano ha permesso a Obama di sfliarsi dall'Iraq e con l'Iran è stata concordato il passaggio di poteri da Nuri al Maliki a Haydar al-'Abadi).
L'Iran è diventato in questo modo - agli occhi delle diplomazie occidentali - parte della soluzione alla guerra siriana, che potrebbe anche concludersi – ma non a breve - con una spartizione di fatto tra le potenze regionali (sauditi, iraniani, turchi...) - che soddisferebbe anche l'inviato dell'Onu Steffan De Mistura.

E i palestinesi? Come scrive, ipocritamente e vergognosamente Mordechai Kedar su Limes (...) "C'è chi dal rafforzamento dell'Iran si sente minacciato e chi ne sta già pagando un prezzo e anche alto: i palestinesi e i libanesi. La questione palestinese è stata messa ai margini" (sic!).
Questa marginalizzazione della questione palestinese è comunque reale: Israele in questa fase non ha nulla da temere dalla resistenza palestinese - capace di non soccombere anche di fronte al massacro di Gaza ma incapace di trovare una strategia comune per la liberazione dall'occupazione, anche perché isolata da quasi tutte le forze regionali, Iran compreso. Oltretutto lo scontro a livello regionale rende oggi meno centrale la liberazione palestinese per tutti i governi dell'area, che pure l'hanno usata in questi anni per contenere le piazze dei loro paesi.
L'accordo non aiuterà i palestinesi anche se non sembra far pagare loro dei prezzi diretti – se non un probabile aumento della colonizzazione dei territori della Cisgiordania, che non è davvero mai stata contrastata da alcun governo occidentale. Non sembra quindi che i palestinesi saranno tra quelli che beneficeranno della "normalizzazione" delle relazioni tra Iran e occidente.

In conclusione, quale può essere il nostro giudizio sull'accordo.
Dobbiamo necessariamente ribadire che nulla di buono in genere può venire da accordi di questo genere tra governi egualmente corresponsabili di guerre e repressioni. Ma certamente meglio un accordo che possa raffreddare le tendenza ad un confronto più esteso e che metta fine alla disastrosa politica delle sanzioni e delle liste degli "stati carogna". Non perché non ci siano responsabilità di questi stati nelle guerre reali o perché le loro dirigenze non meritino di essere portate davanti a qualche tribunale penale - magari dei popoli. Ma perché è proprio con la strategia di intervento e guerra contro gli "stati canaglia" che il medioriente è stato portato alla situazione attuale e la fine – almeno per diverso tempo - delle velleità neocons non può che essere salutata con favore.
Allo stesso tempo va rilevata da una parte l'ipocrisia di un accordo che dovrebbe garantire una "smilitarizzazione" fatto da paesi che stanno accrescendo il loro budget militare (Russia, Cina), stanno mantenendo e allargando la loro presenza in diverse regioni (Usa), non intervengono per provare a trovare soluzioni nel loro contesto continentale (Germania, Unione europea) o sono direttamente responsabili di interventi militari in guerre locali (Iran, ma anche Usa e Russia...).
L'impegno per il disarmo e politiche di pace è un'altra cosa e oggi non è perseguito da nessuna di queste potenze e governi - e i loro accordi rischiano di essere il preludio ad altre forme di interventismo e di spartizione delle aree di confronto.

Vogliamo essere onesti, soprattutto con noi stessi. Vorremmo poter parlare alle ragazze e ai ragazzi iraniane/i e siriane/i, per dire loro che – anche dopo questo accordo - noi siamo pronti a stare al loro fianco, a provare a costruire con loro ponti che li mettano in relazione, che facciamo riconoscere reciprocamente le loro speranze, le loro lotte, le loro sofferenze.
Ma non siamo in grado di farlo.
Non siamo capaci di mobilitarci per contrastare le dittature, le autocrazie, le guerra contro le popolazioni, le guerre per procura, il terrorismo di stato e dei gruppi reazionari.
Il nostro internazionalismo è impotente, si ferma alla registrazione degli eventi, al tentativo di comprensione degli avvenimenti e delle dinamiche di lungo periodo. Sembra che abbiamo perso la capacità di riconoscerci in quelle sofferenze, in quelle speranze, in quelle lotte - senza retorica romantica.
Provare a ricostruire questa empatia, riconoscere come parte di noi la resistenza di Gaza e di Kobane, le lotte dei giovani di Aleppo, di Tehran e di Tunisi, le speranze delle piazze di Atene e di Madrid: questo il compito che abbiamo di fronte. Senza questo riconoscimento reciproco, nessun accordo dei signori della guerra potrà essere contrastato e giudicato davvero.