Grandi manovre nell’Ucraina orientale

Sat, 19/04/2014 - 18:37
di
Andrea Ferrario (da crisiglobale.wordpress.com)

Riprendiamo ancora una volta da crisiglobale una lunga analisi di Andrea Ferrario (pubblicata originariamente in due parti) che ci pare possa aiutare a capire il contesto e le manovre dei diversi soggetti in campo, interni ed esterni all'Ucraina. L'ennesimo grazie all'autore e alla redazione del sito (a cui rimandiamo per le fonti di riferimento dell'articolo)

La situazione nell’Ucraina sud-orientale ha fatto un nuovo salto di qualità, con occupazioni e azioni di gruppi paramilitari bene organizzate. Nella prima parte di questo speciale ricostruiamo le dinamiche degli eventi e passiamo in rassegna le figure degli oligarchi locali, analizzandole il ruolo nell’ambito della crisi in atto. Nella prossima puntata ci occuperemo delle proposte di federalizzazione e del contesto internazionale.

6 aprile: la domenica degli assalti organizzati

La nuova catena di eventi che ha fatto salire la tensione nell’Ucraina Orientale è iniziata domenica 6 aprile. La sera di quel giorno, nel giro di un solo paio di ore attivisti “filorussi” hanno occupato la sede della SBU (servizi di sicurezza) e quella dell’Amministrazione regionale a Donetsk, la sede della SBU a Lugansk e quella dell’Amministrazione regionale a Kharkov. Le azioni sono state evidentemente bene organizzate e concertate in anticipo, vista la rapidità e la perfetta sincronizzazione. Inoltre, a differenza che in passato, non sono avvenute nell’ambito di mobilitazioni di piazza partecipate: in quel fine settimana a Kharkov le manifestazioni non hanno superato il numero di alcune centinaia di partecipanti, a Lugansk in piazza sono scese non più di un migliaio di persone e a Donetsk si è arrivati nel punto culminante a un paio di migliaia. Si tratta di cifre molto basse se si tiene conto che si tratta di città piuttosto grandi (Donetsk ha 1,1 milioni di abitanti, Kharkov 1,4 milioni e Lugansk quasi mezzo milione). Le mobilitazioni di protesta nell’Ucraina sud-orientale erano già andate progressivamente diminuendo dopo quelle più consistenti di inizio marzo (allora si era arrivati a 5.000-10.000 persone), acquisendo sempre più il carattere di proteste rigidamente organizzate dalle numerose piccole, ma ben strutturate, formazioni favorevoli all’annessione della regione alla Russia. Anche gli slogan e la scenografia apparivano sempre più “calati dall’alto”: per esempio il fine settimana precedente all’improvviso lo slogan in tutte le città della regione era stato quello del ritorno di Yanukovich, una richiesta che mai prima era stata avanzata, tanto più che l’ex presidente è ormai totalmente discreditato anche tra gli abitanti locali di etnia russa. Va inoltre rilevato che il giorno precedente le occupazioni del 6 aprile la polizia ucraina aveva arrestato a Lugansk quindici persone e sequestrato armi, affermando che il gruppo stava preparando azioni “separatiste” nell’Ucraina sud-orientale per i giorni immediatamente successivi.

In tutte tre le località l’assalto è stato condotto da gruppi ben coordinati di alcune decine o al massimo un centinaio di persone. Il centro dell’azione è risultato subito essere Donetsk. Qui gli occupanti, armati e incappucciati, hanno dichiarato una “Repubblica di Donetsk” e hanno annunciato l’organizzazione di un referendum per l’annessione alla Russia “al più tardi entro l’11 maggio”. Il progetto di referendum e, in particolare, la scadenza brevissima per il referendum ricordano lo scenario della Crimea, anche se in quest’area dell’Ucraina le coordinate sono ben diverse. Una repubblica “autonoma” è stata proclamata anche a Kharkov, senza tuttavia ottenere alcuna eco o partecipazione da parte dei cittadini, osservazione quest’ultima che vale anche per il caso di Donetsk. Nel corso della settimana c’è stato un tentativo di occupazione dell’Amministrazione regionale anche a Nikolaev, terminato tuttavia senza successo. Le autorità di Kiev si sono astenute dall’intervenire (fatta eccezione per il caso di Kharkov di cui più sotto), nonostante la gravità dei fatti. Ciò è dovuto probabilmente a due fattori: da una parte le polizia locale, legata al Partito delle Regioni di Yanukovich, è troppo poco affidabile per poterla utilizzare in azioni di sgombero degli edifici occupati. Dall’altra uno dei possibili motivi delle occupazioni è quello di cercare di provocare scontri che potrebbero costituire una giustificazione per un intervento diretto o indiretto della Russia. Delle tre città, la più vulnerabile a un’azione delle autorità di Kiev era Kharkov, sia perché la componente etnica russa è molto più bassa e negli stessi giorni ci sono state anche partecipate manifestazioni filo-Maidan, sia perché il controllo degli oligarchi locali qui è molto più frammentato. Inoltre, a differenza che a Donetsk e Lugansk, a Kharkov gli occupanti non erano pesantemente armati. E infatti è stato qui che il governo di Kiev ha agito in tempi se non rapidissimi, almeno brevi, inviando l’8 aprile dalla capitale truppe speciali che hanno sgomberato il palazzo dell’amministrazione regionale. Va riconosciuto che l’operazione è stata condotta bene, perché non si registra nessun ferito, nonostante gli occupanti abbiano reagito e dato alle fiamme una parte dell’edificio. Le forze speciali hanno poi arrestato una settantina di occupanti. A Donetsk invece è intervenuto di propria iniziativa come “mediatore” l’oligarca Rinat Akhmetov (su di lui ritorniamo più sotto), che ha convinto gli occupanti della sede della SBU ad abbandonarla, cosa che è avvenuta pacificamente, mentre rimane occupato da uomini armati l’edificio dell’Amministrazione regionale. A Lugansk, dove a quanto pare vi è il gruppo separatista più armato e pericoloso, secondo le autorità di Kiev gli occupati tenevano in ostaggio una sessantina di persone. Il 9 aprile il ministero degli interni ucraino ha annunciato di avere ottenuto con una trattativa il loro rilascio. Si tratta però di una notizia probabilmente falsa, perché non confermata da altre fonti e perché non è stata pubblicato nemmeno un particolare in merito, o qualche immagine degli ostaggi liberati. Il 10 aprile il presidente ucraino Turchinov si è detto disponibile a emettere un decreto di amnistia per coloro che hanno organizzato le occupazioni nel sud-est del paese, se si impegneranno a sgomberare gli edifici. L’11 aprile il premier Arseny Yatsenyuk, in visita a Donetsk, ha promesso che verrà approvata una legge per organizzare referendum a livello regionale e/o statale e che verrà approvata una riforma costituzionale che darà maggiori poteri e più autonomia alle regioni. Lo stesso giorno è scaduto l’ultimatum del governo contro gli occupanti, senza tuttavia che si sia svolto alcun intervento per sgombrarli.

A livello internazionale le reazioni non sono state particolarmente tese. Stati Uniti ed Europa si sono detti come di routine “preoccupati” e Washington dopo alcuni giorni ha chiesto a Mosca di smettere di fomentare la tensione nell’Ucraina sud-orientale. Di peso maggiore è stato invece l’invio di due navi nel Mar Nero da parte rispettivamente di Usa e Francia. E’ interessante notare però che la Russia ha a più riprese affermato, con dichiarazioni di Lavrov e di Putin, di non essere interessata a un’annessione dell’Est ucraino, o anche solo a una sua indipendenza, e che invece l’Ucraina deve introdurre una federalizzazione del paese, obiettivo che sembra essere prioritario per Mosca. Alla fine, e in assenza nel frattempo di un’escalation, sembra prevalere la voglia di dialogo. Per giovedì 17 aprile è stato infatti convocato un summit a Ginevra tra Usa, Russia, Ue e Ucraina.

12-13 aprile: il fine settimana dei gruppi paramilitari

Nel fine settimana del 12-13 aprile le dinamiche sono nuovamente cambiate. Le mobilitazioni sono totalmente cessate (con l’eccezione di due casi particolari, quelli di Kharkov e Mariupol, di cui più sotto). Ad agire in quasi una decina di città, con una popolazione ciascuna di circa 100.000 abitanti, sono stati questa volta esclusivamente gruppi paramilitari formati da uomini mascherati, armati di kalashnikov ed evidentemente bene addestrati, che hanno conquistato militarmente stazioni di polizia e amministrazioni locali. In alcuni casi, come a Krasny Limansk e Kramatorsk, i gruppi paramilitari hanno dovuto fare fronte a una resistenza pacifica. Queste azioni sono cominciate il 12 aprile con la città di Slavyansk, che è stata completamente occupata e chiusa da posti di blocco sulle vie di comunicazione con l’esterno. Il 13 il ministero degli interni di Kiev ha inviato in elicottero delle truppe speciali per tentare di “liberare” la città, ma l’operazione non ha avuto successo e, a quanto pare, ci sono anche state due vittime. Fatta eccezione per questo caso le autorità centrali si sono ancora una volta astenute dall’intervenire, anche se nel momento in cui scriviamo si parla di un’operazione che potrebbe coinvolgere l’esercito. C’è un altro particolare che va citato: la maggior parte delle città oggetto di azioni paramilitari durante quest’ultimo fine settimana sono disposte lungo la strada principale E-40 che collega il confine con la Russia (dove sono ammassate truppe di Mosca) a Kharkov passando in mezzo a Donetsk e Lugansk. Slavyansk è più o meno al centro di questa tratta stradale. A Mariupol, decisamente più a sud, vi è stata invece un’occupazione dell’amministrazione locale sul modello della settimana precedente, con la partecipazione di alcune centinaia di persone. A Kharkov invece si sono svolte in contemporanea una manifestazione filorussa di un paio di migliaia di persone e una meno partecipata manifestazione pro-Maidan. I filorussi hanno aggredito la manifestazione pro-Maidan e alcuni attivisti di quest’ultima, che cercavano di fuggire in una stazione della metropolitana, sono stati brutalmente picchiati. A livello internazionale, Washington e Mosca si sono scambiati l’accusa reciproca di destabilizzare intenzionalmente la situazione nella regione e Mosca ha minacciato di fare saltare il summit previsto per giovedì 17 aprile.

Al di là di questi fatti ci sono molte altre dinamiche che vale la pena di andare ad analizzare maggiormente nei dettagli. Innanzitutto il ruolo importante che hanno gli oligarchi nella regione e le ipotesi sul loro ruolo attuale e futuro. Si possono spendere poi alcune parole in più anche sulle grandi manovre politiche internazionali intorno all’Ucraina e sulle ipotesi di federalizzazione.
Il sistema oligarchico nell’Ucraina sud-orientale: le forze in campo
Molte fonti, sia ucraine che russe, hanno sottolineato come gli eventi di questi giorni nell’Ucraina sud-orientale si intreccino con le lotte di potere tra i vari oligarchi. Come è noto, la maggior parte degli oligarchi ucraini proviene proprio da questa regione del paese, dove ha anche i propri feudi. L’opinione prevalente tra gli osservatori è che, dopo Maidan, sia in atto una riconfigurazione degli equlibri di potere tra gli oligarchi e tra questi ultimi e le autorità di Kiev alla quale gli ultimi eventi non sarebbero estranei. A ciò si aggiunge la presenza in loco di molti deputati e funzionari di una forza politica strettamente connessa agli oligarchi come il Partito delle Regioni di Yanukovich, che attualmente è in fase di disgregazione, ma conserva ancora forti leve di potere all’est.

Quel che resta del Partito delle Regioni
Cominciamo da questi ultimi, citando alcuni brani da un’articolo del sito ucraino Argument, che parte dalla constatazione che le ultime mobilitazioni nelle regioni sud-orientali del paese sono numericamente molto più limitate di quelle che hanno fatto immediatamente seguito a Maidan: “La regione di Donetsk non è mai stata politicamente filorussa. Per esempio, alle elezioni parlamentari del 2012 nemmeno uno dei partiti che è apertamente filorusso ha ottenuto più dell’1% dei voti. Nonostante questo, a marzo nella città si è riuscito a raccogliere un numero non trascurabile di gente sotto le bandiere della Russia. [...] Le manifestazioni sono state relativamente di massa e nei loro punti più alti hanno superato i 5.000 partecipanti. [...] Molte persone della regione di Donetsk erano da lungo insoddisfatte della situazione nella loro regione. Le proteste di Maidan a Kiev hanno fatto da catalizzatore per la loro mobilitazione. Anche se queste persone pubblicamente criticano Maidan, molti elementi delle loro rivendicazioni sono in armonia con quelle avanzate a Kiev. La gente non ne può più del basso livello di vita, della corruzione e delle bugiarderie dei burocrati. Grazie alla propaganda politica della televisione russa molta gente vede un’uscita da questa situazione in un avvicinamento alla Russia. Va rilevato che a Donetsk sia i manifestanti filorussi che quelli filoucraini, nonostante le reciproche differenze, convengono su una cosa: nessuno di loro sopporta più il vecchio potere e tutti concordano che i suoi rappresentanti non sono più degni di ricoprire i loro posti. Ad alimentare il numero dei partecipanti si sono aggiunti cittadini provenienti dalla Federazione Russa, la cui presenza alle manifestazioni di Donetsk è stata documentata a più riprese. [...] Nella regione di Donetsk molti dirigenti degli organi dell’amministrazione locale continuano a essere sotto la forte influenza di Yanukovich e ne desiderano il ritorno. Per esempio, la città di Enakievo non ha mai ricevuto sussidi così alti come quelli che ha ricevuto sotto Yanukovich. Ad Artemovsk continua ad avere una forte posizione l’ex capo dell’amministrazione del presidente Andrey Klyuev. Per le azioni violente nella città di Donetsk vengono trasportati sul posto elementi semicriminali provenienti dalle zone depresse della cosiddetta “fascia mineraria”. Qui, durante il periodo di Yanukovich, si è sviluppata l’estrazione illegale di carbone. Il controllo su questo “settore” illegale dell’economia sommersa ucraina veniva esercitato dal figlio maggiore dell’ex presidente, Aleksandr Yanukovich”.

Chi c’è dietro i fatti di Donetsk
Argument prosegue poi analizzando la situazione a Donetsk: “La ‘Donetskaya Pravda’ ha descritto la struttura della ‘rivolta russa’ di Donetsk. Questa rivolta viene alimentata da una serie di influenti politici della regione, che per svariati motivi non possono porsi direttamente alla sua guida. [...] Tra di essi c’è il deputato parlamentare del Partito delle Regioni Valentin Landika, che controlla lo stabilimento per la produzione di frigoriferi ‘Nord’. Nell’autunno del 2013 è stato uno dei maggiori oppositori dell’idea di Yanukovich di firmare l’accordo di associazione all’Ue. [...] Alle manifestazioni filorusse si incontrano molti dei lavoratori della sua fabbrica. Un altro deputato del Partito delle Regioni, Aleksandr Bobkov, non nasconde le sue simpatie per le proteste filorusse e qualche giorno fa ha tenuto una conferenza stampa insieme ad alcuni esponenti del movimento di protesta [dichiarandosi a favore della federalizzazione e dello svolgimento di un referendum]. L’impressione è che Bobkov punti a guidare il movimento filorusso di Donetsk. Un altro deputato di Donetsk del Partito delle Regioni, Nikolaj Levchenko, si è pubblicamente pronunciato a favore di Pavel Gubarev, l’ex membro del partito russo neofascista “Unità Nazionale Russa” che è stato alla testa dell’ala più radicale dei manifestanti. Ora Gubarev è agli arresti per separatismo e organizzazione di disordini”. Gubarev è leader delle “Milize Popolari del Donbass” ma, essendo in carcere, le sue funzioni vengono svolte da altri due membri di Unità Nazionale Russa, Sergej Tsyplakov e Robert Donya. C’è un altro leader delle proteste che si è dichiarato vice di Gubarev, si tratta di Denis Pushilin, ex funzionario della filiale ucraina della piramide finanziaria russa MMM. E’ stato lui, come racconta Zerkalo Nedeli, a guidare la prima manifestazione in cui è stata avanzata la richiesta del referendum.

Gli oligarchi

Come scrive il settimanale, Tyzhden, la maggior parte degli oligarchi ucraini era schierata con Yanukovich e, fino allo scorso inverno, molti di loro erano favorevoli all’accordo di associazione con l’Ue. Il dietrofront dell’ex presidente e la rivolta di Maidan hanno sconvolto gli equlibri interni dell’oligarcato ucraino. Un profilo utile e agile dei quattro più noti oligarchi ucraini è stato tracciato in italiano da Stefano Grazioli per il sito Linkiesta, al quale rimandiamo: http://www.linkiesta.it/potere-oligarchia-ucraina. Qui passiamo in rassegna più nello specifico il ruolo degli oligarchi coinvolti in un modo o nell’altro nei più recenti eventi, laddove per oligarchi intendiamo non solo i miliardari, ma anche i politici che controllano feudi locali.
Akhmetov e Kirill
Cominciamo dal più potente di tutti, Rinat Akhmetov, di Donetsk, che è l’uomo più ricco del paese (il suo patrimonio è di 15,4 miliardi di dollari) e ha sostenuto Yanukovich fino all’ultimo momento. Di lui si dice che sia stato il finanziatore dei “titushki” le bande che aggredivano gli oppositori durante le mobilitazioni a Kiev dell’inverno scoro. Dopo gli eventi di Maidan l’oligarca ha tenuto un profilo basso e solo negli ultimissimi giorni è diventato più attivo. Akhmetov è ben conscio del fatto che ha potuto accumulare le sue ricchezze negli ultimi anni grazie all’ala protettrice di Yanukovich e ora teme di subire perdite finanziarie o addirittura di finire come un altro oligarca, Dmitri Firtash, arrestato il mese scorso a Vienna. Akhmetov è stato per lungo tempo in concorrenza con Firtash. Fino al 2013 hanno lottato per spartirsi il settore energetico della regione messo in vendita dallo stato. Secondo alcune stime, Akhmetov controlla 60 deputati nella Rada e Firtash 20. Voci raccolte da Gazeta.ru affermano che dopo Maidan ad Akhmetov era stata offerta la carica di governatore della regione di Donetsk, ma lo stesso Akhmetov avrebbe rifiutato e il posto è stato assegnato all’oligarca numero due della regione, Sergej Taruta. Quest’ultimo ha dichiarato che a proporgli l’incarico è stato tra gli altri anche Akhmetov. Secondo molte fonti, il gioco a cui sta giocando ora Akhmetov sarebbe quello di mandare avanti i “cattivi”, cioè gli occupanti, per poi potere svolgere il ruolo del “buono”, cioè del mediatore, rafforzando così le sue posizioni. Il suo intervento come intermediatore che ha portato allo sgombero della sede della SBU a Donetsk avrebbe fatto seguito a un colloquio con Yulia Tymoshenko, presente anche lei quel giorno nella città. Akhmetov punterebbe a ottenere garanzie sulla sua posizione di monopolista e a ricevere da Kiev sussidi per il settore del carbone, che controlla, nonché una diminuzione delle tariffe per il trasporto delle materie prime e altre agevolazioni. Ma le sue mire sarebbero più ampie, come scrive Gazeta.ru: “Akhmetov ha bisogno di un potere reale, e non di slogan. E il suo business è ormai l’intera Ucraina, mentre le regioni sud-orientali ne sono solo una parte. Per questo vuole ottenere un potere reale a livello statale. In passato è stato lui a portare Yanukovich al potere. Ora punta sulle elezioni parlamentari e sulla lotta per mantenere in carica il ‘suo’ premier Yatsenyuk, di cui ha sostenuto la candidatura a capo del governo, nonostante lo stesso Akhmetov si sia opposto a Maidan. Intanto, è riuscito a prendere il controllo di quanto è rimasto del partito delle Regioni. [...] E’ evidente che se Kiev giungerà a un compromesso con Akhmetov i disordini separatisti a Donetsk potranno tranquillamente cessare, visto che le forze filorusse oggi non hanno un leader capace di trascinare masse favorevoli al separatismo”.

Un altro oligarca locale dal ruolo importante è Igor Kolomoyskiy, nato a Dnepropetrovsk, di cui nel marzo di quest’anno è diventato governatore. E’ il secondo oligarca del paese, con un patrimonio di 3,6 miliardi di dollari. Si è pronunciato pubblicamente contro Putin e a favore di Maidan. La sua holding ha interessi nel campo energetico, delle materie prime, della chimica e dei media (l’agenzia di informazione UNIAN e il canale televisivo 1+1). Kolomoyskiy è molto abile nell’utilizzare il suo potere finanziario e amministrativo e collabora con il potere di Kiev al fine di rafforzare la propria posizione.
Dmitri Firtash, originario dell’Ucraina occidentale, è il quarto oligarca dell’Ucraina, con un patrimonio di 3,3 miliardi di dollari. La sua holding è attiva soprattutto nel campo dell’energetica e della chimica, e quindi ha una forte presenza nell’Est del paese. Il suo business dipende dall’import di gas dalla Russia e uno dei suoi maggiori attivi, la produzione di titano, è in Crimea – per questi motivi viene tradizionalmente ritenuto vicino a Mosca. Il 12 marzo è stato arrestato a Vienna su un mandato Usa riguardante attività criminali, ed è stato rilasciato a fronte del pagamento di una cauzione dall’importo astronomico di 127 milioni di dollari. Firtash, che controllava buona parte del Partito delle Regioni, acquistava in particolare gas a prezzi convenienti dalla Gazprom e lo rivendeva con un forte sovrapprezzo all’ucraina Naftogas. I suoi contatti con l’austriaca Raiffeisen Investment AG, che ha molti legami con il capitale russo, sono stati oggetto di una commissione di indagine parlamentare nel 2007, scrive il quotidiano austriaco Die Presse. Firtash ha apertamente sostenuto la candidatura dell’oligarca Poroshenko a presidente della repubblica.
Firtash e Yanukovich

Sergej Taruta è originario di Donetsk, della cui regione è diventato governatore dopo Maidan. E’ un ex miliardario che sotto Yanukovich non ha aumentato i propri capitali, anzi, ha person buona parte del proprio patrimonio. Nel 2008 aveva 2,5 mld dollari e nel 2013 gli erano rimasti “solo” 600 milioni. E’ sempre stato considerato un “arancione” di Donetsk, vale a dire vicino all’attuale governo di Kiev. Ha affermato che a proporre la sua candidatura sono state non solo le autorità di Kiev, ma anche le élite del business e in particolare Rinat Akhmetov. Gli uomini che controlla in loco e i suoi soldi sono un buon trampolino di lancio per le nuove autorità, che non godono di popolarità in loco.
Aleksandr Efremov non è proprietario diretto di aziende, ma a livello politico è padrone assoluto di Lugansk dagli inizi degli anni novanta. E’ in pratica il numero due del Partito delle Regioni di Yanukovich, dal quale tuttavia ha preso le distanze dopo la fuga in Russia. A cavallo tra gli anni novanta e duemila, sotto Leonid Kuchma, è stato governatore della regione di Lugansk, dove si è creato una verticale del potere locale. E’ stato inoltre a capo di alcune aziende e la sua famiglia ha interessi nel settore locale del carbone, nell’ambito del quale vince la maggior parte degli appalti statali. Secondo le maggiore parte dei media, senza il suo avallo nulla di quanto è accaduto a Lugansk, cioè l’occupazione della sede della SBU e le mobilitazioni dei filorussi, sarebbe potuto succedere. Non a caso ha avuto parole di giustificazione per l’assalto alla sede della SBU di Lugansk. Come osserva il settimanale Tyzhden: “Ora [per Efremov] l’obiettivo più importante è destabilizzare la situazione nella regione, affinché le nuove autorità debbano trovare in lui un partner ‘pacificatore’ e lui possa così conservare i suoi ingenti redditi e la sua influenza”.
A Kharkov non c’è un oligarcato compatto come nelle altre regioni. Attualmente l’uomo più forte a livello locale sembra essere Gennadiy Kernes, sindaco della città dal 2010 per il Partito delle Regioni e acerrimo nemico del ministro degli interni Arsen Avakov. Kernes ha gestito tutte le nomine nella regione, anche quelle dei vertici della polizia. Il sindaco vuole dimostrare di essere il garante della pace nella città e che tutti i tentativi di indire elezioni anticipate per il sindaco o di portarlo dietro le sbarre porteranno la situazione fuori controllo. Come ha osservato un dimostrante intervistato da Kommersant: “A mantenere tesa la situazione a Kharkov è interessato soprattuto Kernes. Ogni volta che il potere cambia, lui ne esce indenne e ha tutto l’interesse ad agitare la situazione nella città, per dimostrare di essere indispensabile per mantenere la calma”.

Ma Kernes deve fare i conti con il nuovo capo dell’amministrazione regionale di Kharkov, Igor Baluta, che è un uomo di Avakov (è membro del partito Batkivshtina di Yulia Timoshenko). Un altro uomo potente di Kharkov è Mikhail Dobkin, candidato dal Partito delle Regioni alle prossime presidenziali, che è stato prima sindaco della città fino al 2010 e poi fino a Maidan presidente della regione, fedele a Yanukovich. Va infine tenuto conto anche del ruolo di Aleksandr Yaroslavskiy, del quale molti pensavano che sarebbe diventato governatore della sua regione, come altrove Taruta e Kolomoiskiy, e che è un personaggio riservato e incline al compromesso. Yaroslavskiy non ha preso posizioni sulla fuga di Yanukovich o sull’integrità dell’Ucraina.

A cosa puntano gli oligarchi
Lo scenario in atto nelle ultime settimane nell’Ucraina sud-orientale è molto diverso da quello della Crimea. Nella penisola l’occupazione russa è cominciata nella notte tra il 26-27 febbraio, in assenza di qualsiasi mobilitazione di piazza. Va notato tra l’altro che in Crimea tutto si è svolto a soli 4-5 giorni dai rivolgimenti a Kiev che hanno portato alla caduta di Yanukovich. Visto che si è trattato di un’operazione molto bene organizzata e curata in tutti i suoi aspetti, sia militari, che politici e internazionali, è evidente che si è trattato di un’opzione messa a punto ben prima della caduta di Yanukovich, un particolare che andrà tenuto presente per una ricostruzione storica degli eventi. Nell’Ucraina orientale le dinamiche sono state invece differenti. Come abbiamo già osservato, a inizio marzo ci sono state mobilitazioni di piazza rilevanti – anche se le manifestazioni sono state di sicuro manipolate, c’era una certa partecipazione popolare, mirata essenzialmente contro il nuovo governo di Kiev (e non a favore della Russia o di un’indipendenza). Con il tempo la partecipazione popolare è andata esaurendosi e le mobilitazioni si sono ridotte alla partecipazione pressoché esclusiva di piccoli gruppi organizzati “filorussi”, con una folta presenza di elementi criminali, neostalinisti e neofascisti. E’ in questa fase che si è cominciato a parlare di unione alla Russia, o di indipendenza e referendum, e che si sono svolte le occupazioni attentamente organizzate a Donetsk, Lugansk e Kharkov il 6 aprile. Nel fine settimana successivo si è registrata un’altra evoluzione: le azioni di occupazione di edifici amministrativi o della polizia sono state di carattere esclusivamente militare (o meglio, paramilitare), senza alcuna finzione di partecipazione popolare. A Donetsk e Lugansk, dove proseguono le occupazioni, nessuno è sceso in piazza in contemporanea alle azioni paramilitari nei centri urbani vicini. E’ chiaro che le richieste di annessione alla Russia, indipendenza e referendum non sono assolutamente frutto di mobilitazioni popolari, anche se evidentemente non incontrano un’opposizione attiva. Il grande punto di domanda è quali siano allora le forze che spingono in una tale direzione e quali siano gli obiettivi che si prefiggono. Su questo all’atto delle cose si possono solo formulare ipotesi.

In assenza di una partecipazione popolare, bisogna concentrarsi sugli altri attori. Partiamo quindi dagli oligarchi, il cui ruolo fondamentale sul campo è chiaramente visibile. La maggior parte di loro oltre ad avere la propria base politica ed economica in queste regioni era, come abbiamo già rilevato, strettamente legata al Partito delle Regioni di Yanukovich. Con il dissolversi di quest’ultimo si è creato un grande vuoto politico. Secondo stime del politologo russo Fedor Lukjanov, se oggi si votasse in Ucraina il partito prenderebbe solo il 6% dei voti. Visto il controllo che gli oligarchi esercitano a tutti i livelli nella regione, è impensabile che gli ultimi eventi avrebbero potuto svolgersi senza il loro avallo. La maggior parte degli osservatori ritiene che gli ultimi eventi siano stati organizzati dagli oligarchi come arma di ricatto per ottenere da Kiev una conferma del loro controllo sulla regione. La probabile elezione di un loro collega, Poroshenko, a presidente dell’Ucraina rafforzerebbe le loro speranze di potere conseguire un tale obiettivo e in questo sarebbero aiutati anche dalla posizione assunta dalla Russia, in particolare dalla sua insistente richiesta di una federalizzazione dell’Ucraina. Come scrive il sito Gazeta.ru: “Akhmetov, Efremov e Kernes sfruttano la Russia per restare in gioco, per avere la possibilità di continuare a rapinare le proprie regioni. Hanno bisogno della federalizzazione non meno di quanto ne ha bisogno la Russia. Solo così potranno andare avanti come prima, rubando soldi al territorio e trasferendoli in banche estere”. Da venti anni il sistema oligarchico locale si nutre dei sussidi di Kiev alle industrie della regione, lucrando inoltre sugli appalti statali, senza mai avere investito per lo sviluppo economico, con il risultato che l’industria locale cade a pezzi e ha sempre più bisogno di sussidi, generando così un circolo vizioso. Si tratta di un modello di oligarchi-rentier che a suo modo assomiglia a quello degli oligarchi-rentier russi che lucrano sulle risorse del loro paese.

Se di sicuro è in atto una lotta per la costruzione di nuovi equilibri nell’oligarcato locale, non appare convincente l’ipotesi di un braccio di ferro tra gli oligarchi dell’est e il governo centrale. A Kiev non siede certo un governo rivoluzionario che ha intenzione di cambiare radicalmente il paese. Piuttosto è il contrario. Le più importanti leve del potere sono in mano a Batkivshtina, l’affidabilissimo partito dell’oligarca Tymoshenko, dimostratasi negli anni in sintonia con gli interessi dei suoi colleghi e disponibile a questo fine a gettarsi ora tra le braccia dell’Occidente ora tra quelle della Russia. Anche se il Partito delle Regioni è in dissoluzione, i deputati eletti nelle sue liste conservano ancora i loro posti in parlamento, insieme agli altri affidabilissimi partiti “tradizionali”. E all’orizzonte c’è il nuovo presidente-oligarca Poroshenko, chiaramente una figura disponibile ai compromessi con tutte le parti in gioco, a livello sia interno che internazionale. Come ha osservato sempre il politologo Lukjanov in un’intervista al sito Slon, “se Poroshenko vincerà le elezioni, il modello di Taruta e Kolomoyskiy potrebbe estendersi ad altre regioni, creando uno stato feudale-oligarchico. Attualmente, con la federalizzazione, si sta pensando a istituzionalizzare questo modello”. Fatta quindi eccezione per i chiari giochi di riequilibrio interno tra i vari oligarchi e annessi, l’ipotesi di un vero e proprio braccio di ferro secondo noi non quadra. Gli oligarchi, è la nostra opinione, puntano invece a tagliare le gambe alla rivolta popolare che ha abbattuto uno dei loro uomini più importanti, Viktor Yanukovich. Vogliono frammentare il paese ed evitare l’ulteriore sviluppo di un movimento che già li ha colpiti. Le false “rivolte” nell’Ucraina sud-orientale, le occupazioni impunite e impunibili se non al prezzo di grandi spargimenti di sangue, così come lo spudorato flirtare dei separatisti con Mosca, sono tutti elementi che, soprattutto dopo il già umiliante caso della Crimea, sono mirati a ingenerare un senso di impotenza nella popolazione mettendo un’ipoteca sull’eventuale prosecuzione del processo rivoluzionario. In questo sono senz’altro aiutati dalle grandi manovre delle potenze imperialiste, e in primo luogo della Russia, che offrono loro l’occasione di svolgere un ruolo di mediatori e quindi la possibilità di consolidare il proprio potere facendo un’ulteriore salto di qualità.

Non a caso il sito Liga.net ha osservato: “Da due decenni [gli oligarchi] spremono quel che è rimasto dell’industria dell’era sovietica, convertendo tutto il succo che hanno così spremuto dal Donbass in valuta estera e sontuose residenze a Montecarlo o a Londra. Uno dei principali risultati di Maidan potrebbe essere proprio una revisione dello stato delle cose che impera da due decenni, nel quale i profitti vanno ai padroni del Donbass e tutti i sussidi sociali sono a carico dello stato.” E, aggiunge sempre Liga.net: “Le autorità di Kiev che conducono un dialogo con gli oligarchi dell’Ucraina orientale, e gli stessi oligarchi, perdono di vista un particolare: l’Ucraina del dopo Maidan potrebbe non accettare un tale corso degli eventi e non perdonarlo”. Una federalizzazione dell’Ucraina darebbe mano più libera agli oligarchi e consentirebbe loro con ricatti e allettamenti di tenere in gioco, a loro protezione, attori enormemente più potenti come la Russia, gli Stati Uniti e la Ue. Allo stesso tempo, come osserva Lukjanov, “per la Russia la federalizzazione è una delle soluzioni migliori perché l’Ucraina diventerebbe una struttura amorfa, che a causa della sua complessa struttura non sarebbe più in grado di adottare decisioni effettive”. Una federalizzazione effettuata nelle condizioni reali dell’Ucraina di oggi porterebbe a una paralisi politica che frammenterebbe e indebolirebbe il paese, sottoponendolo a un’umiliante sottomissione agli interessi degli oligarchi, a livello locale, e della Russia (in primo luogo, ma non solo della Russia) a livello internazionale, con il risultato di demoralizzare le masse popolari. Naturalmente non sono da escludersi, in questo gioco “antirivoluzionario”, le altre due ipotesi alternative alla federalizzazione.

Meno probabile secondo noi è quella di un’indipendenza delle regioni sud-orientali – a tale proposito ci sembra che l’opinione di Lukjanov colga bene la situazione: “l’Ucraina orientale è una regione con una grande popolazione, un’industria e un’economia seria. Non può rimanere nel limbo di una ‘indipendenza’. O rimarrà nell’Ucraina o verrà annessa dalla Russia”. L’ultima opzione, quella di un’annessione alla Russia, viene esclusa da molti osservatori secondo i quali gli oligarchi ucraini non la vogliono, perché in Russia diventerebbero dei nani, a livello politico ed economico, rispetto ai loro colleghi russi. Anche se c’è una logica in questa tesi, secondo noi non coglie del tutto nel segno, poiché in caso di annessione gli oligarchi diventerebbero indispensabili a Putin per il controllo della regione, da una parte, e, dall’altra, potrebbero godere del regime economico preferenziale che Mosca sicuramente dovrebbe mettere in atto nella regione. In più per alcuni di loro si aprirebbe la possibilità di tentare, forti dei servizi resi al Cremlino, la scalata alle ben più appettibili risorse russe. Si tratta però di una strategia che in effetti comporterebbe grandi incognite per loro.
La volontà degli oligarchi di mettere una pietra tombale sulla rivolta ucraina è a nostra opinione in sintonia con una pari volontà a livello internazionale. Non solo la Russia, ma anche gli Stati Uniti e l’Europa, sebbene più indirettamente, hanno un interesse a “chiudere” il processo rivoluzionario in Ucraina e a indebolire il paese.

Le grandi manovre: l’Occidente

La rivolta ucraina ha subito una forte evoluzione nel corso del tempo, e a febbraio, trasformandosi in un’aperta insurrezione contro il sistema politico di Yanukovich, si è inserita a pieno titolo nella corrente dei processi rivoluzionari che hanno sconvolto il mondo a partire dal 2011, come in Egitto e in Siria, o delle grandi mobilitazioni popolari di protesta, come nei Balcani o in Turchia. L’Ucraina si inserisce in queste dinamiche anche da un punto di vista puramente geografico: è vicina agli instabili Balcani e a un paese in profonda crisi come la Turchia, e attraverso quest’ultima è collegata a una vasta area di instabilità che attraverso la Siria arriva fino all’Egitto. In presenza di una crisi economica di portata epocale alla quale non si riesce a mattere fine e che pone in radicale difficoltà le potenze imperialiste, ogni processo rivoluzionario o di mobilitazione di massa viene considerato come una minaccia che va soffocata, o alla quale va messo il prima possibile un “tappo”. In Egitto gli Stati Uniti lo hanno fatto barcamenandosi tra i Fratelli Musulmani e la giunta militare, in Siria aprendo “negoziati di pace” con la collaborazione della Russia, in Turchia per ora ci pensa un Erdogan ancora sufficientemente forte, in Bosnia gli oligarchi locali stanno riprendendo in mano la situazione dopo che l’Ue è arrivata a minacciare un intervento militare. Né gli Stati Uniti, né l’Ue, vogliono di principio l’aprirsi di un nuovo fronte di mobilitazioni o di disordine incontrollabile in questa situazione. Non è un caso che di fronte alla strage messa in atto da Yanukovich il 20 febbraio il loro primo obiettivo sia stato quello di forzare un compromesso tra l’opposizione (ben lontana dal rappresentare a pieno titolo le mobilitazioni di Maidan) e il regime di Yanukovich, compromesso che, una volta raggiunto il 21 febbraio con la mediazione dei ministri Ue, è stato mandato a monte dalla piazza. Dopo questo insuccesso, e l’abilissima dimostrazione di forza della Russia in Crimea, si creano ora le condizioni perché Mosca, Washington e Bruxelles trovino un compromesso sulla federalizzazione che rappresenterebbe una scorciatoia per giungere a obiettivi analoghi. Mentre però Bruxelles a livello diplomatico ha ormai ben poche altre leve da muovere, soprattutto perché totalmente screditata dopo la penosa e maldestra gestione, insieme a Yanukovich, del processo per la firma dell’accordo di associazione, per Washington le cose stanno un po’ diversamente. Il comportamento degli Usa dipenderà essenzialmente da come si muoverà la Russia. Se quest’ultima si asterrà dall’intervenire direttamente nell’Ucraina sud-orientale, Washington avrà tutto l’interesse a promuovere anch’essa la federalizzazione dell’Ucraina, per i motivi citati sopra. Se invece la Russia dovesse scegliere la strada del confronto, gli Usa si troverebbero di fronte a un enorme dilemma: andare allo scontro con Mosca in un momento così difficile, mandando in tale modo all’aria la collaborazione con la Russia negli infinitamente più importanti casi della Siria e dell’Iran e trovandosi di conseguenza in un garbuglio politico da incubo, salvando però la faccia dal punto di vista dell’autorità internazionale, oppure mantenere un basso profilo come ha già fatto con la Crimea (e ancora prima in Siria), magari questa volta alzando un po’ più la voce per motivi di immagine, ma mettendo definitivamente a nudo la propria incapacità di svolgere come in passato il ruolo di “poliziotto mondiale”?

Le grandi manovre: la Russia
Con l’operazione in Crimea la Russia è riuscita a ottenere un grande successo su più fronti. Innanzitutto è riuscita a mettere a nudo la debolezza della nuova Ucraina, più precisamente del suo apparato militare e politico, dimostratosi totalmente non in grado di reagire, e l’incapacità da parte di Kiev di un sostegno effettivo delle potenze internazionali (eloquente a tale proposito il rifiuto categorico di Washington di inviare aiuti militari all’Ucraina, accompagnato dall’irrisorio invio di “razioni per i soldati”). Si tratta anche in questo caso di un’umiliazione che va nella direzione di demoralizzare il paese e tagliare le gambe a ogni ulteriore processo rivoluzionario. A livello internazionale Putin è riuscito finora con questa operazione a porre in evidenza come, al di là della retorica di routine, nessuno si arrischia a mettere in atto misure concrete per ostacolarlo. A livello interno, i due fattori dell’umiliazione del paese vicino e dell’esibizione di muscoli a livello internazionale, si sono tradotti in un enorme rilancio della popolarità di Putin tra la popolazione russa. E’ difficile trovare negli anni recenti un’operazione di annessione che, come quella in Crimea, si sia svolta con tale rapidità e tale sfacciato successo. Per trovare qualcosa di simile bisogna tornare davvero, come fanno molti, all’annessione dei Sudeti o all’anschluss dell’Austria da parte della Germania di Hitler. La Crimea però è sotto ogni punto di vista molto più irrilevante come “bottino” rispetto a quelli ottenuti dai nazisti all’epoca, e Putin non è certo Hitler. A differenza di quest’ultimo, non è alla guida di una grande potenza industriale e di una macchina statale di micidiale efficienza, al contrario. E’ invece a capo di una versione oligarchica e corrotta del neoliberalismo imperante, che trova la sua base economica pressoché esclusiva nella rendita generata dal gas, dal petrolio e da altre materie prime.

Come la Crimea, anche l’Ucraina orientale non rappresenta una preda molto interessante dal punto di vista economico. La sua industria è tecnicamente arretrata rispetto agli standard internazionali, il settore dell’estrazione mineraria è estramente inefficace e la regione per andare avanti senza tumulti sociali vive in gran parte di sussidi statali. La sua inglobazione nella Russia costituirebbe per anni solo un onere finanziario per Mosca e potrebbe diventare redditizia solo sul lungo periodo, ma con un livello di investimenti che difficilmente il capitale statale e privato russo potrebbe permettersi. L’Ucraina per la Russia in questo momento è semplicemente uno strumento esterno per cercare di portare avanti (o forse sarebbe meglio dire: salvare) il proprio peculiare sistema capitalista interno, sia a livello politico che a livello economico. Per farlo, Mosca punta anche a mantenere un proprio “spazio eurasiatico”, per motivi probabilmente più politici che economici.
Il modello su cui per un quindicennio si è basato il potere di Putin si sta infatti esaurendo. Dopo il caos dell’era Eltsin e il crollo finanziario del 1998 il presidente russo è riuscito a ripagare i colossali debiti del paese, a consolidare il ceto dirigente e quello burocratico con un sistema autoritario e a guadagnarsi i favori di ampie fette della popolazione ridistribuendo un po’ di briciole degli enormi introiti ricavati con l’esportazione di materie prime. Tutto questo è stato possibile solo e unicamente grazie al fatto che la sua ascesa al potere è coincisa con un aumento vertiginoso dei prezzi mondiali delle materie prime, che ha raggiunto il suo culmine nel 2008 e ora, in presenza della crisi mondiale, difficilmente potrà proseguire la sua corsa. Come è tipico di questi modelli economici, per potere tenere in vita un sistema basato sulla rendita generata dalle materie prime sono necessarie iniezioni di fondi sempre più alte. Se i prezzi delle materie prime arrestano la loro ascesa, il sistema cade nella stagnazione (è quanto sta succedendo ora in Russia) e scivola progressivamente verso la recessione, se poi i prezzi calano sensibilmente il rischio è quello di un crollo verticale dell’economia e del sistema sociale. Questo è tra l’altro uno dei motivi per cui questi tipi di sistemi economici sono di norma tra i più autoritari. In questi quindici anni i fondi generati dalle esportazioni di materie prime sono stati utilizzati in Russia interamente per mantenere in vita in modo improduttivo questo modello di capitalismo. Non è stato effettuato, né poteva essere effettuato senza mettere a rischio il sistema, alcun investimento nell’industria o nella diversificazione dell’economia. Sono stati sì accumulati centinaia di miliardi in due “fondi di stabilità”, ma per dare un’idea di che garanzia costituiscano per l’economia del paese è sufficiente dire che nel 2008-2009 (in presenza, non a caso, di un enorme calo del prezzo del petrolio) la Russia ne ha buttato via quasi la metà nel giro di pochi mesi per sostenere il rublo il cui valore rischiava di sprofondare in caduta libera. E’ evidente che la Russia deve fare un salto di qualità, ma che non è in alcun modo in grado di riformare il proprio modello economico rendendolo inerentemente più stabile. Può solo cercare di tenerlo in vita cambiandone i connotati con l’aiuto di fattori “esterni” al modello stesso.

La sontuosità kitsch dell’Olimpiade di Sochi è stata l’ultima celebrazione del vecchio sistema politico putiniano, mentre la crisi Ucraina costituisce con ogni probabilità l’inaugurazione di una nuova fase. Uno degli assi portanti della fase che si apre sarà quello della mobilitazione delle masse a favore di una politica nazionalista e guerrafondaia. E’ una fase che è già stata avviata: mai negli ultimi decenni si è vista in Europa un’attività di propaganda interna dalle dimensioni e dall’ossessività, nonché dall’aggressività, pari a quella in atto negli ultimi due mesi in Russia. La cerimonia solenne con la quale Putin al Cremlino ha dichiarato l’annessione della Crimea, per chi la ha vista, è stato uno spettacolo la cui scenografia ricorda i tempi più bui della storia europea. La propaganda del Cremlino è estramente pericolosa, perché non si basa solo su una disinformazione massiccia, ma anche su un desiderio di revanscismo nei confronti di altri popoli e su una dimostrazione di potenza militare e imperiale. A questa propaganda si affiancano altri fattori estremamente pericolosi. Innanzitutto la Russia che, non dimentichiamolo, ha un arsenale atomico micidiale, negli ultimi anni ha fortemente aumentato la quota delle proprie ricchezze destinate alle spese militari, cresciute esponenzialmente non solo rispetto ai paesi europei, che le stanno diminunedo, ma anche rispetto agli Usa, il “poliziotto del mondo”. Mosca, tra le altre cose, ha varato un programma di riarmo e di ammodernamento dei propri armamenti del valore di 750 miliardi di dollari, che potrebbe tra l’altro essere un tentativo, il cui successo appare tuttavia assai improbabile, di risolvere i problemi della struttura economica del paese attraverso il modello del sistema militare-industriale. Su un altro piano, va osservato che se la Russia fino a oggi ha avuto un regime “solamente” autoritario, è perché ha aderito a un modello neoliberale, per quanto sui generis, che sarebbe stato in contraddizione con un modello parafascista. Per evitare una deriva del genere il regime di Putin ha dovuto assumere in sé molti degli elementi della destra estrema: dalla retorica imperiale, ai valori della famiglia, all’omofobia, alla religione nazionale. Allo stesso tempo, ha cooptato alcuni esponenti dell’estrema destra “intellettuale” (per esempio Aleksandr Dugin, diventato consigliere esponenziale), relegando a una posizione marginale, ma tollerando ampiamente, il razzismo e il neofascismo di strada. Non va però dimenticato che la Russia di oggi è un paese in cui le aggressioni neofasciste (che arrivano spesso fino all’omicidio) e i pogrom razzisti sono all’ordine del giorno come in nessun altro paese europeo e rimangono quasi sempre impuniti. Il salto da una dimensione di autoritarismo “soft” (usiamo qui un eufemismo, naturalmente) a uno molto più “hard” è nel contesto attuale non solo molto facile, ma anche in armonia con la logica degli eventi in corso, purtroppo.

A tale proposito appare molto inquietante, sul piano internazionale, che l’estrema destra europea in forte crescita elettorale trovi esplicitamente in Putin un alleato. Il Front National francese, lo Jobbik in Ungheria, la FPO in Austria, tra gli altri, vedono nella Russia di Putin un modello e hanno tutti partecipato come osservatori, invitati dal governo russo, al referendum in Crimea. Marine Le Pen e i neofascisti di Jobbik sono di casa a Mosca. A loro volta, politologi vicini al Cremlino parlano di un risveglio europeo che, con la “primavera russa” in corso dalla Crimea all’Ucraina sud-orientale, pone Mosca al fianco di forze nazionaliste come i già citati partiti di estrema destra e addirittura la greca Alba Dorata (si veda per esempio un commento delle Izvestia: http://izvestia.ru/news/569094). Come scrive Anton Shekhovtsov, per il mese di ottobre è previsto un grande convegno al quale sono invitate molte forze dell’estrema destra russe ed europee, tra le quali l’italiana Forza Nuova, insieme addirittura al vice-primo ministro russo Dmitri Rogozin (http://postskriptum.org/2014/04/13/jobbik/2/). Si tratta di legami ormai consolidati, che all’occasione il regime russo potrà utilizzare per le sue manovre di politica internazionale, sfruttando l’ondata di crescita dell’estrema destra europea.

Ma torniamo all’immediato. All’attuale stato delle cose la federalizzazione, imposta da una posizione di forza, sembrerebbe essere la soluzione migliore per Putin. Consoliderebbe la sua posizione interna grazie alla dimostrazione di forza a livello mondiale, gli consentirebbe di mantenere un ruolo internazionale sia ricattando l’Ucraina sia, indirettamente, tenendo in scacco altri paesi ex sovietici che hanno una popolazione russa, e diventerebbe un tutore dell’Ucraina insieme a Usa e Ue, ma da una posizione molto più forte, vista la vicinanza geografica e le moltissime leve di cui dispone nel paese. Tra l’altro, la federalizzazione non escluderebbe affatto una successiva annessione nel corso del tempo. L’ipotesi della federalizzazione consentirebbe poi agli Stati Uniti di “salvare la faccia” e di continuare ad avere Mosca come partner “concorrenziale”, ma pur sempre partner, in Medio Oriente, evitando un’ulteriore complicarsi della situazione nell’area. L’Ue da parte sua riuscirebbe così a rimanere in gioco e a mettere una pezza sulla sua inettitudine a livello diplomatico. Rimarrebbe la grande incognita della copertura delle enormi spese per il salvataggio economico dell’Ucraina, che è praticamente in stato di default. Anche in questo caso, però, a tutte le parti in gioco conviene una condivisione delle spese piuttosto che un’assunzione in toto dei costi. Tra l’altro, in tale modo la grande finanza internazionale continuerebbe ad avere voce in capitolo attraverso il FMI. A perdere sarebbero naturalmente gli ucraini, sottoposti a un triplice protettorato, anzi, addiritura quadruplo perché, come abbiamo già spiegato, accanto alle tre grandi potenze sarebbe pienamente in gioco anche una quarta parte, quella interna degli oligarchi. L’opzione di un’escalation militare russa però non è affatto da escludersi. Il momento è molto propizio per Mosca, dopo l’annessione della Crimea, e l’Occidente si troverebbe molto in difficoltà, per tutti i motivi elencati, a studiare una risposta efficace. Per Putin si tratterebbe di una mossa molto rischiosa, ma alla luce di quanto abbiamo visto se condotta con successo gli potrebbe garantire un trionfo a livello interno e un grande balzo in avanti a livello internazionale.

Alcune considerazioni aggiuntive sulla federalizzazione

L’ipotesi di una federalizzazione sembra guadagnare molti favori anche nell’opinione pubblica democratica. All’apparenza il modello federale sembra molto democratico e in grado di garantire un controllo dal basso. La storia e la pratica però ci insegnano che non è così. E come ogni modello, va letto nel concreto della situazione in atto, se non si vuole cadere nell’ideologismo. Da quanto abbiamo visto, risulta chiaro che una federalizzazione imposta dalle potenze imperialiste, sotto la minaccia militare della Russia e magari con l’accordo dei burocrati di Kiev, mentre milizie armate “anonime” occupano militarmente le amministrazioni pubbliche e senza avere nemmeno scalfito il potere economico e politico degli oligarchi, porterebbe solo ed esclusivamente a un protettorato di tipo feudale che metterebbe per lunghi anni un’ipoteca pesantissima sul processo rivoluzionario che, pur tra mille contraddizioni, si era avviato. Si tratterebbe di una soluzione che andrebbe a scapito degli ucraini, della loro possibilità di emanciparsi dal potere economico degli oligarchi e dal controllo delle grandi potenze per potere invece decidere in prima persona. Non costituirebbe quindi nemmeno un primo passo verso qualcosa di meglio, semmai il contrario. D’altronde, per avere un’idea di quale sia la validità di un tale modello federale (grandi potenze e oligarchi inclusi) basta riportare alla mente le immagini della recente rivolta bosniaca e dei palazzi delle amministrazioni locali in fiamme nel febbraio scorso: una rivolta popolare e furiosa che è stata in buona parte, se non principalmente, una rivolta contro la federazione e la sua sostanza oppressiva. L’obiettivo deve essere quindi quello di una nuova mobilitazione innanzitutto proprio contro questa (feudo)federalizzazione e attraverso di essa contro i poteri oligarchici nazionali e internazionali (in primo luogo la Russia) che la sostengono, cercando di aprire un dialogo popolare tra ovest ed est del paese proprio sul tema della lotta contro gli oligarchi, l’unico sul quale al momento è possibile, visto il disorientamento e il caos negli altri campi, trovare un linguaggio comune. Si tratta di un obiettivo assolutamente urgente, che potrebbe sgombrare il campo verso altri più alti obiettivi in campo sociale ed economico.