"Ginevra 2". L'impasse siriana tra negoziati e bombardamenti

Wed, 19/02/2014 - 03:03
di
Fouad Roueiha – da osservatorioiraq.it

Riprendiamo (con il consenso dell’autore, che ringraziamo) un articolo uscito sul sito osservatorioiraq.it in due parti sui “risultati” della conferenza di Ginevra

Si è concluso con un nulla di fatto, ampiamente previsto, il primo round dei negoziati di pace sulla Siria tenutisi a Ginevra tra il 22 ed 31 gennaio e fortemente voluti da Russia e Stati Uniti. Ad ammettere la modestia dei risultati è lo stesso mediatore incaricato da ONU e Lega Araba, Lakhdar Brahimi, che ha ereditato questo scomodo ruolo dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan.
Alla fine dei colloqui non è stato raggiunto un cessate il fuoco né sono stati aperti corridori umanitari per le aree assediate, tantomeno si è avviata la fase di transizione verso una nuova Siria democratica.
Peggio, durante i 10 giorni di vertice il regime ha intensificato i bombardamenti con barili esplosivi, facendo circa duecento vittime al giorno e, stando a fonti dell’opposizione, nella notte tra il 3 ed il 4 febbraio avrebbe perfino usato il napalm sulla città assediata di Homs.

Le delegazioni

La conferenza "Ginevra 2" era già nata sotto cattivi auspici, con il pasticcio dell’invito, poi ritirato, all’Iran ed i dubbi dell’opposizione siriana sull’opportunità o meno di partecipare. La discussione in seno alle forze anti Asad è stata accesa, ed ha portato all’uscita polemica del Consiglio Nazionale Siriano (una sorta di governo in esilio fortemente influenzato dalla fratellanza islamica) dalla Coalizione Nazionale, che è invece la più grande alleanza di forze d’opposizione sopratutto all’estero.
Dopo il lungo travaglio, la Coalizione ha infine inviato la sua delegazione in Svizzera. Dal canto suo, il regime di Asad aveva annunciato da mesi l’intenzione di partecipare, lasciando in dubbio solo il livello della delegazione, che poi è stata di alto profilo, includendo il ministro degli Esteri, quello dell’Informazione e l’ambasciatore presso le Nazioni Unite. Oltre alle due delegazioni siriane, composte ciascuna da 15 elementi più il capo-delegazione, erano presenti oltre 30 paesi e 4 organizzazioni internazionali.

Le premesse politiche

Obiettivo dichiarato del vertice era dare seguito ed applicazione al piano in 6 punti elaborato da Kofi Annan nella prima conferenza di Ginevra, tenutasi nel giugno del 2012.
Il piano prevedeva l’immediato cessate il fuoco e l’apertura di corridori umanitari per consentire l’accesso degli aiuti e la fuga dei civili, oltre all’inizio di una fase di transizione guidata da un governo di unità nazionale con pieni poteri e quindi anche il controllo sulle forze armate e di sicurezza.
Proprio il mancato sostegno di Teheran al piano scaturito da Ginevra 1 è stato la giustificazione per il ritiro dell’invito, mentre l’interpretazione del piano Annan è stato oggetto di disputa da parte dei due fronti: secondo le opposizioni la formazione di un governo di transizione non può includere Asad o gli elementi del suo regime che si siano macchiati di crimini di guerra.
Per il regime invece il ruolo del presidente è imprescindibile, mentre si potrebbe pensare ad un governo di larghe intese per superare la crisi. A Ginevra si sarebbe poi dovuto discutere anche di lotta al terrorismo e di come interrompere le ingerenze esterne nel paese.

Vincitori e vinti

“Non ci aspettavamo molto di più, per noi è stata una vittoria perché, sedendosi al nostro stesso tavolo, il regime ha di fatto ammesso che la Coalizione Nazionale Siriana (CNS) è l’interlocutore”, ha detto a Osservatorioiraq Rafif Jouejati, la portavoce dei Comitati di Coordinamento Locale in seno alla delegazione dell’opposizione.
“Inoltre, da Ginevra abbiamo potuto mostrare a tutto il mondo chi è che è davvero impegnato alla ricerca di una soluzione politica, e che Asad invece è un criminale di guerra, e abbiamo guadagnato il sostegno dell’opinione pubblica internazionale e di tanti governi”.
Ovviamente diversa è l’interpretazione del regime, che accusa le opposizioni di essere marionette nelle mani di potenze regionali e globali che promuovono il terrorismo nel paese e ne minacciano la sovranità.
Da parte degli osservatori, il giudizio sulle due delegazioni è stato praticamente unanime: mentre le opposizioni si sono presentate con un aria molto pragmatica, organizzata ed ordinata, guadagnando molto sostegno anche in patria grazie al discorso inaugurale ed a quello finale del capo delegazione Ahmad Jerba, gli inviati del regime hanno fatto sfoggio di arroganza, poca dimestichezza con il protocollo e linguaggio diplomatico.
Emblematico in tal senso il battibecco tra il ministro degli Esteri siriano Walid Al Muallem ed il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-Moon riguardo alla durata dell’intervento inaugurale.
Alcuni analisti hanno ipotizzato che il regime non si aspettasse la partecipazione delle opposizioni e che quindi si fosse preparato ad una passerella senza ostacoli sul tappeto rosso di Ginevra, accreditandosi come l’unica parte seriamente interessata a porre fine alla guerra. L’ inadeguatezza della delegazione governativa ha messo in imbarazzo anche l’alleato russo, che si è mostrato più malleabile verso le opposizioni, ribadendo che Mosca non è irremovibile sulla persona di Asad (pur sostenendone il regime) ed invitando Jerba a recarsi al Cremlino il 4 febbraio.

Mosse e contromosse

Una delle mosse strategiche dell’opposizione è stata l’esposizione delle immagini che attestano la tortura ed uccisione di oltre 11.000 prigionieri nelle carceri di Asad, pubblicate ad orologeria due giorni prima dell’inizio della conferenza.
Le 55.000 immagini sono state trafugate da un agente del regime (nome in codice “Caesar”) che si occupava di fotografare le salme e registrare i nomi dei morti per consentire alle forze di sicurezza siriane di costruire le storie di copertura (in genere le morti venivano attribuite a malori o suicidi in carcere).
Le foto sono poi state esaminate da medici legali ed esperti tra cui David Crane, già procuratore capo del Tribunale Speciale per la Sierra Leone che ha processato per crimini contro l’umanità l’ex presidente liberiano Charles Taylor. Da sottolineare che il rapporto è stato commissionato dal Qatar, tra i principali sostenitori esterni dell’opposizione siriana.
Il regime ha invece ripetuto le consuete accuse di ingerenza esterna rivolte ai paesi del Golfo, agli Stati Uniti e più in generale all’occidente, presentandosi come garante dell’unità e della sovranità nazionale, delle minoranze e come baluardo contro l’avanzata del terrorismo islamico, dimenticandosi forse che tra le fila dei suoi sostenitori ci sono milizie settarie iraqene, migliaia di uomini del libanese Hizbullah (“Partito di Dio”, classificato organizzazione terroristica da buona parte del mondo) e dei Guardiani della Rivoluzione Islamica in arrivo dall’Iran (si veda in proposito l’infografica di FrontiereNews o l’articolo di Alberto Savioli su SiriaLibano).
I funzionari dell’intelligence iraniana oggi occupano ruoli importanti nel dirigere il conflitto sul terreno, data l’inaffidabilità dell’esercito lealista tra le cui fila il numero di disertori varia tra un quarto ed un terzo degli effettivi, a seconda delle stime.
Il capitolo umanitario

Durante i colloqui, oltre allo scambio di accuse più o meno circostanziate, si è aperto anche il capitolo degli aiuti umanitari, in particolare per la città di Homs, il cui centro storico è assediato da oltre 600 giorni dalle forze lealiste.
Nonostante il formale via libera del regime all’ingresso di cibo e farmaci, i 12 convogli umanitari della Croce Rossa, Mezzaluna Rossa e World Food Program, fermi vicino alla zona assediata, non sono stati lasciati entrare perché c’era bisogno di “coordinarsi” con le autorità di Damasco in modo da impedire che i rifornimenti arrivassero ai “terroristi”.
A tutt’oggi, nessun aiuto ha raggiunto la città vecchia dove la popolazione sta morendo di fame, come testimonia l’appello lanciato pochi giorni fa dal gesuita olandese Padre Francis che vive sotto assedio insieme alla popolazione.
Il regime ha offerto a donne e bambini intrappolati a Homs la possibilità di uscire, offerta rifiutata dalle stesse donne che non vogliono lasciar soli i loro mariti, fratelli e figli per paura di una nuova Srebrenica.
Qualche pacco alimentare dell’UNRWA (l’agenzia ONU dedicata ai profughi palestinesi) è finalmente entrato invece nel più grande campo profughi palestinese del medio oriente, Yarmouk, assediato da oltre 200 giorni, ma si tratterebbe del frutto delle trattative portate avanti dall’OLP, più che dei colloqui di Ginevra. L'appuntamento svizzero ha comunque sottoposto ad una forte pressione mediatica il regime di Asad, facilitando il compito dei mediatori.
Intanto però, 2 milioni di siriani vivono ancora sotto un assedio assai poco mitigato da sporadiche aperture verso gli aiuti umanitari.

Il 3 febbraio scorso, a Roma, c’è stata la riunione dei 19 paesi del “gruppo di contatto ONU” per reagire alla crisi umanitaria che la ministra degli Esteri Emma Bonino ha definito “la peggiore dei nostri tempi”. In sole due ore di incontro sono stati approvati 11 interventi immediati che dovrebbero aiutare a garantire l’arrivo dei soccorsi lì dove servono, oltre ad uno scontato appello per la fine dei bombardamenti sui civili.
La dichiarazione ufficiale è un testo di fine equilibrismo diplomatico volto a mantenere l’equidistanza dalle parti belligeranti. Una dichiarazione che avrà soddisfatto la Piattaforma delle ONG Italiane attive in Medio Oriente e nel Mediterraneo, che nei giorni scorsi avevano scritto una lettera in tal senso. Meno entusiasti invece quegli attivisti siriani che, memori del fatto che la crisi umanitaria ha dei responsabili e non è frutto di una catastrofe naturale, vede in questa preminenza del piano umanitario un quasi inutile tentativo di curare i sintomi anziché le cause del problema.
Nella serata del 3 febbraio il noto attivista siro-palestinese Qusai Zakariya, insieme ad altre figure di spicco tra gli attivisti assediati a Moaddamia (sobborgo ad est di Damasco), si è dovuto consegnare alle forze lealiste per consentire l’ingresso di aiuti. Qusai e gli altri sono stati portati in un albergo nel centro di Damasco con la garanzia che il regime ne avrebbe consentito la fuga all’estero. Finora, tuttavia, non se ne hanno notizie.
La transizione politica

Secondo le opposizioni, il capitolo umanitario è stato utilizzato per prender tempo e non parlare della transizione politica. Proprio su questo punto si sono arenati i colloqui, già lentissimi, con la delegazione governativa che si concentrava sulla necessità di impedire l’afflusso delle armi ai “terroristi” come precondizione per la formazione di un governo di unità che traghettasse il paese fuori dalla crisi.
Un governo che però sia interno ai limiti della costituzione siriana e non “un corpo esterno” che si basi su decisioni prese all’estero riguardo al destino del presidente Asad.
A tal proposito la delegazione di Damasco ha presentato un suo documento, di fatto in contrasto con il piano Annan alla base del vertice di Ginevra 2, in cui si demanda la scelta del leader di questo governo di unità ad elezioni che, vista la situazione sul campo, è difficile credere possano essere libere.
D’altro canto la delegazione delle opposizioni ha continuato a richiamarsi al piano Annan ed ha presentato una sua roadmap per implementarlo.
La reticenza del regime ad aprire una fase di transizione ha spinto gli Stati Uniti ad aumentare la pressione su Damasco, rendendo noto il ritardo di Asad nel consegnare le armi chimiche (che solo per il 4% sono partite dal porto di Latakia) e facendo sapere che il Congresso avrebbe autorizzato a dicembre la fornitura di armi leggere alle fazioni d’opposizione ritenute "moderate".
Quest’ultima rivelazione ha dato modo a Damasco di denunciare la poca serietà degli USA, che da una parte parlano di soluzione politica e dall’altra armano i “terroristi”, dimenticando forse le immense forniture di armi e carburanti che Asad riceve da Russia, Iran ed Iraq.
A fine conferenza Brahimi ha rimandato le due delegazioni a casa, in attesa di riunirsi nuovamente il 10 febbraio per il secondo round di colloqui, con il compitino di elaborare nuove proposte su come applicare il piano Annan.
Fuori dal palazzo
Mentre si svolgeva il vertice a Ginevra, centinaia di attivisti dei due schieramenti sono confluiti in Svizzera per sostenere la propria delegazione e rivendicare i principi della rivoluzione da una parte, la legittimità di Asad dall’altra.
Se le sedi diplomatiche del regime hanno organizzato veri e propri tour, la Coalizione Nazionale Siriana ha contribuito alle spese di alcuni pullman, ma la maggior parte dei manifestanti anti-Asad si era organizzata attraverso Facebook.
I sostenitori delle due parti sono arrivati vicini allo scontro in più occasioni, soprattutto nella giornata inaugurale del 22 gennaio a Montreaux, quando la delegazione delle Donne in Nero, tra cui i premi Nobel Shirin Ebadi e Mairead Maguire, oltre alla nostra Luisa Morgantini (ex vice presidente del Parlamento Europeo), si sono trovate nel mezzo di tensioni tra gli opposti schieramenti.
Burhan Mousa Agha, attivista siriano rifugiatosi proprio in Svizzera, ci ha raccontato di un presidio permanente durante il vertice. Manifestazioni festose che riprendevano i canti e gli striscioni delle marce del venerdì, che ogni settimana riempiono le strade siriane.
“Con un amico e due ragazze abbiamo aspettato la delegazione del regime sotto al suo albergo per offrire un pezzo di pane ed una scatola di tonno. Il nostro gesto era un omaggio ad un anziano signore morto di fame nell’assedio di Homs qualche giorno fa. Poco prima di morire, in un’ intervista, ha detto che sognava una scatola di tonno. Volevamo dare il tonno a Muallem e Ja’afari (il ministro degli Esteri e l’ambasciatore all'ONU, ndt) chiedendogli di portarla a Homs. Raccomandandogli però di non mangiarlo, che hanno già mangiato troppo della ricchezza del paese”.

Il tentativo di Agha è stato bloccato dalle guardie del corpo della delegazione di Asad. Agha ci ha poi raccontato che molti di coloro che erano lì a sostegno del regime non erano siriani, ma libanesi vicini a Hizbullah e marocchini.
Tra gli episodi degni di nota c’è anche la richiesta di spiegazioni da parte della madre di Abbas Khan, il dottore di origine britannica che era andato in Siria per soccorrere i feriti ed è morto nelle carceri di Asad. Anche la signora ha atteso i delegati del regime sotto l’albergo per chiedere “Perché avete ucciso mio figlio?”. Domanda cui la delegazione ha risposto solo con silenzio ed una fuga imbarazzata.
Anche il ministro dell’informazione Al-Zoubi non ha trovato risposte migliori della fuga alle domande di Rami Jarrah, attivista noto anche come Alexander Page e vicedirettore dell’emittente indipendente “Radio Ana”, che chiedeva informazioni sui barili esplosivi che continuano a cadere sui civili, ma che lasciano illese le basi dei terroristi dell’organizzazione qaedista ISIL.
Si sono registrati poi anche alcuni scontri, sopratutto ad opera dei sostenitori di Asad, mentre i pro-rivoluzione annunciano che saranno presenti a Ginevra anche in occasione della ripresa dei negoziati il 10 febbraio.

Intanto, in Siria...

Per avere un’idea di come i siriani stessero guardando a Ginevra nei giorni del vertice, Osservatorioiraq ha monitorato i media indipendenti, le pagine sui social network ed ha sentito diversi attivisti dentro e fuori dal paese.
Molti dei movimenti politici d’opposizione e di quelli armati hanno respinto l’idea di colloqui di pace con un partner non credibile come ha dimostrato di essere il regime di Asad, che non ha mai rispettato i precedenti patti di "Ginevra 1".
Secondo alcuni, il dialogo sarebbe un tradimento verso tutti i martiri di questa rivoluzione, come illustra benissimo un video prodotto dal media center di Kafranbel, cuore creativo del movimento non violento, in cui una opposizione telecomandata si imbratta le mani di sangue stringendo quelle del regime.
Rafif Jouejati rifiuta questa interpretazione: “è chiaro che l’unica soluzione possibile alla crisi è politica e che l’unica via per arrivare a questa soluzione passa per Ginevra, dove abbiamo esposto al mondo i crimini del regime e la sua reticenza al dialogo. In questa maniera riusciremo ad accrescere la pressione diplomatica su Asad. Non partecipare al vertice sarebbe stato un tradimento di quelli che sono ancora vivi”.

L’ostilità verso Ginevra 2 che, come già anticipato, aveva anche provocato l’uscita del Consiglio Nazionale dalla Coalizione delle opposizioni, si è tuttavia molto attenuata dopo il primo apprezzato discorso di Ahmad Jerba, tanto che il presidente del Consiglio Nazionale George Sabra, intervistato da Radio Al Kul, ha riconosciuto la vittoria sul piano mediatico della delegazione delle opposizioni e si è augurato che il processo di Ginevra possa portare almeno ad un miglioramento della situazione umanitaria, anche se ha tenuto a precisare che “non si va ai vertici per fare bella figura con i media, senza ottenere alcun risultato politico”.
All’augurio di Sabra fa eco quello di Zahran Allouch, capo dell’ufficio politico del Fronte Islamico (la meglio armata delle fazioni di opposizione) che ha fatto sapere che in caso di accordi per il cessate il fuoco questa opportunità sarà presa in esame (la Coalizione lavora in diretto coordinamento con l’Esercito Libero Siriano, le altre fazioni armate collaborano ma non ne riconoscono la primazia).
Comunque molte delle fazioni armate non credono ad una soluzione politica, in quanto il regime avrebbe dimostrato di capire solo il linguaggio delle armi e perché trovano inaccettabile scendere a patti con chi bombarda le città e si è macchiato di tanti, troppi, crimini contro l’umanità.
Tra gli attivisti della società civile e la gente comune ci sono vari orientamenti riguardo ai negoziati in corso. Ne abbiamo recensiti prevalentemente tre, che variano in base alle condizioni in cui si trovano e al grado di coinvolgimento nella rivoluzione.
Nella fascia costiera, saldamente in mano al regime, la popolazione fa una vita quasi normale e segue con un certo distacco gli eventi di Ginevra 2, quasi fosse un telefilm o un evento sportivo. Nelle aree liberate nel nord, gli attivisti nutrono pur flebili speranze che da Ginevra si avvii un percorso che porti davvero ad una transizione, con la fine dei bombardamenti e l’apertura dei corridoi umanitari. Finora tali speranze sono rimaste deluse.
Sono del tutto indifferenti o quasi, invece, le persone che abitano nelle aree contese, martellate dai bombardamenti, in quelle assediate o in quelle controllate dai miliziani dell'ISIL.
In queste zone la principale preoccupazione è sfuggire alle bombe e procurasi il cibo, sopravvivere un giorno in più: le chiacchiere dei politici e delle “opposizioni a cinque stelle” (in riferimento ai lussuosi alberghi di Istanbul o Doha in cui si tengono i meeting della Coalizione) sembrano echeggiare da un altro pianeta.
Nelle città in cui a governare è l'ISIL (Stato Islamico in Iraq e nel Levante), rinnegato dalla stessa Al Qaeda, i problemi sono altri.

In una intervista, l’attivista del Violation Documentation Center Adam Alì ci ha raccontato la tragica situazione di Raqqa. Venerdì 26 gennaio, l'ISIL ha annunciato 4 nuove regole etiche: obbligo del niqab per le donne (velo integrale); bere alcolici o fumare è proibito, pena 30 frustate, il che ha portato alla chiusura di tutte le fumerie di narghilè; obbligo di preghiera in moschea, o comunque di preghiera comune, che si traduce nella chiusura di fatto di tutti i negozi e l’interruzione di ogni attività ad ogni canto del muezzin (5 al giorno, ndr); proibito anche l'ascolto della musica.
L'ISIL sembra aver preso le cose seriamente ed ha già disposto forze di guardia che vigilino sull'applicazione di queste "leggi".
I controlli si sono fatti più severi dopo una finestra di 3 giorni in cui la popolazione avrebbe dovuto adeguarsi alle novità. Per far capire la serietà dei loro intenti, venerdì stesso i miliziani integralisti hanno giustiziato in piazza 2 uomini per "insulto al profeta" ed hanno costituito delle unità femminili per poter perquisire sotto i niqab ed evitare che qualche attivista sfugga ai controlli vestendosi da donna.
In questa situazione la gente comune è troppo impegnata a cercare di vivere nonostante il medioevo che gli viene imposto, per preoccuparsi della diplomazia internazionale. Solo qualche militante spera ancora in un intervento decisivo da parte di qualche potenza internazionale che possa annientare l'ISIL e far crollare il regime.

Sul terreno

Nelle ultime due settimane si è assistito ad un intensificarsi dei combattimenti tra le forze lealiste e quelle ribelli, e poi tra ribelli ed ISIL. Il regime riconquista terreno a suon di barrel bombs, barili ripieni di esplosivo e ferraglia lanciati da elicotteri a bassa quota e dagli effetti devastanti sui civili.
Su Dariya (sobborgo ad ovest di Damasco) ed Aleppo ne vengono lanciati in media più di 20 al giorno, senza contare i bombardamenti con i caccia Mig e l’artiglieria pesante.
A facilitare il compito delle forze lealiste c’è la guerra tra le fazioni ribelli e l'ISIL che dal suo scoppio, il 3 gennaio scorso, ha già causato almeno 1400 vittime accertate. Dopo l’iniziale euforia dovuta alla veloce cacciata dei terroristi da Idleb ed altre zone nel nord del paese, le forze d’opposizione hanno subìto il ritorno delle forze integraliste che nelle scorse settimane hanno ricevuto rinforzi di uomini e mezzi attraverso il confine iracheno.
I ribelli, constatata l’impossibilità di sostenere una guerra su due fronti, hanno proposto all'ISIL una riappacificazione mediata da giurisperiti islamici, la mubadarat al oumma. Tuttavia, in almeno due episodi, l’inviato dell'ISIL che avrebbe dovuto trattare con le brigate di opposizione si è invece fatto esplodere, uccidendo comandanti della milizie rivoluzionarie.
L’espandersi dell’organizzazione terroristica vicino alla frontiera turca ha inquietato anche Ankara, che finora aveva spesso chiuso un occhio sul passaggio di armi, tanto che il 29 gennaio gli F16 turchi hanno preso di mira un convoglio diretto oltreconfine.