La precarietà a tempo indeterminato e le sfide dello sciopero sociale

Fri, 08/01/2016 - 10:47
di
Thomas Müntzer

La precarietà cambia, non rimane sempre uguale. Non resta ferma, imbrigliata in immagini consolidate. Non riguarda solo alcune categorie della forza-lavoro, investe direttamente il mercato del lavoro, l’organizzazione della produzione e della riproduzione sociale. La crisi agisce, trasforma, apre scenari, modifica vecchi contesti e ne istituisce di nuovi. Precarietà e crisi come termini di riferimento, punti di osservazione e luoghi del conflitto. Termini che ci impongono una nuova capacità di analisi e di pratiche. Dicendo che siamo immersi nell’infinita transizione tra un vecchio che non si decide a morire e un nuovo che non riesce a nascere si fa solo una fotografia. Non si va oltre la descrizione delle cose esistenti. Il nuovo del jobs act, dello sblocca italia, della buona scuola, delle modifiche costituzionali e degli strumenti di rappresentanza politica, delle “riforme” in cantiere della pubblica amministrazione, della sanità e del fisco, è davanti a noi. La grande narrazione renziana sta diventando progressivamente realtà.
Uno stato di fatto che non può essere contrastato con defatiganti e in fondo improduttive ricomposizioni di ceti politici di una sinistra radicale che non va oltre l’orizzonte elettorale o politico della propria rappresentazione. Come del resto non si traducono, non si sono mai tradotti, in conflitto generale gli auspici alle somme aritmetiche dei programmi, delle lotte e delle resistenze in campo. Abbiamo oggi la necessità di operare degli scarti politici, introdurre squilibri sociali praticando sperimentazioni politiche, sociali e organizzative. È per questo che abbiamo investito fin dall’inizio sulle potenzialità dello Strike meeting e dello sciopero sociale. Con la consapevolezza della nostra, e delle nostre, parzialità.

Siamo di fronte a una composizione di classe in rapido mutamento che coinvolge tanto il lavoro subordinato, parasubordinato, intermittente che quello autonomo non imprenditoriale, nelle loro molteplici declinazioni. Occupabilità, impiegabilità e flessibilità sono le forme in cui si articola la precarietà nella crisi attraversando, in misura diversa, condizioni sociali, giuridiche e anagrafiche, generi, cittadinanze e nazionalità. Essere occupabili significa rendere disponibile alla valorizzazione e allo sfruttamento la propria forza-lavoro senza soluzione di continuità. Mettendo, in questo modo, in discussione i confini tra un prima, un durante e un dopo di un rapporto di lavoro. La messa a valore del “lavoro” della ricerca di un lavoro passa anche attraverso il lavoro volontario, non pagato. Fare uno stage, un tirocinio, un corso di formazione per la riqualificazione lavorativa, alternarsi tra scuola e lavoro, essere “profilati” da un’agenzia di lavoro temporaneo accresce il bagaglio quantitativo di esperienze e competenze per agevolare la corrispondenza fra percorsi formativi e i modi di accumulazione del capitale. In altri termini significa essere continuamente impiegabili. La massiccia entrata dei meccanismi di mercato nell’organizzazione del lavoro, delle diverse forme di impresa e di rapporti di lavoro nei luoghi della produzione sociale ridefinisce anche la flessibilità imposta alla forza-lavoro. Non più e non solo limitata ai vari ambiti della produzione, del lavoro vivo, ma estesa e approfondita nella riproduzione sociale della forza-lavoro. Una flessibilità anche di genere con l’imposizione, si potrebbe dire istituzionale, del part-time femminile, la gerarchizzazione sessista delle mansioni e dei ruoli, il consolidamento dei divari salariali in molti settori economici e con il lavoro di cura che tende a coincidere con il tempo di vita giornaliero delle donne migranti.
Una flessibilità che nella sostanza diventa ideologia assumendo quasi una consistenza materiale. Il lavoro, i lavori, in quanto tali non sono più – semmai lo siano veramente stati – veicoli di coesione, di integrazione ed emancipazione riferiti a un contesto politico e sociale. Le gerarchie di razza, genere e classe in una fabbrica, in un ufficio, in uno studio professionale, in una cooperativa trovano la loro ragion d’essere anche nell’accentramento delle decisioni e nella riduzione dell’autonomia degli esecutori. E, al tempo stesso, l’impresa diviene sempre più un insieme di attività che possono essere appaltate, ristrutturate, cedute, esternalizzate. Si sono, da tempo, rotti gli spazi unitari dei luoghi della produzione materiale e immateriale e dell’organizzazione del lavoro, interpellandoci sulle trasformazioni della composizione di classe, sull’incisività delle lotte e sull’efficacia delle pratiche di autorganizzazione.

Lo diciamo subito per evitare equivoci e malintesi: non abbiamo tutte le risposte. Abbiamo la necessità, più che la propensione, di sperimentare percorsi mettendoci in gioco. Sapendo perfettamente che non si tratta, o quantomeno non si tratta più, di setacciare il fiume (o il ruscello) della lotta di classe alla ricerca della pepita d’oro di una coscienza di classe depurata dalle incrostazioni, dalle sconfitte, dalle amnesie. Dal nostro punto di vista «organizzare l’inorganizzabile» non può essere un problema posto dall’esterno o parallelamente ai processi di soggettivazione sociale e politica come se fosse, ancora una volta, una questione di coscienza da far emergere. Si tratta perlopiù di un processo sociale ambivalente, spesso contradditorio, che vogliamo intersecare mettendo in campo pratiche di autorganizzazione e mutualismo conflittuali. Autorganizzazione nei luoghi di lavoro, nella politicizzazione e socializzazione degli spazi urbani sottratti alla rendita, nella produzione di un sapere critico e mutualismo conflittuale inteso come capacità e possibilità di tessere reti «fuori mercato» nel duplice senso di una ricerca di spazi di autogestione produttiva e di un supporto ai conflitti sociali e territoriali. Senza alcuna illusione che si possa sottrarre in maniera permanente spazio e tempo alla valorizzazione capitalistica. Insomma, forzando un po’ la sintesi: autorganizzazione sociale e mutualismo conflittuale come processi di soggettivazione politica all’altezza dei mutamenti dell’odierna composizione di classe. Anche per uscire dal circolo vizioso degli annunci di ricomposizioni politiche e sindacali che non mettono realmente in discussione innanzitutto i soggetti che le propongono. È un tema questo che apre una riflessione sulle forme organizzative: dai laboratori, alle coalizioni, ai comitati in vista anche della mobilitazione verso il 1° marzo 2016. Una mobilitazione che dovrebbe intrecciarsi con la sperimentazione dello sciopero sociale inteso come tentativo di combinare la costruzione del processo con l’irruzione dell’evento. In altre parole un laboratorio che promuova conflitto, forme di autorganizzazione, riflessione sui tempi e gli strumenti dello sciopero, ricerca di lotte esemplari.

Dove si incontrano le rivendicazioni di diritti e nuovo welfare del lavoro autonomo non imprenditoriale e la lotta dei migranti – oltre la strumentale divisione tra “economici” e richiedenti asilo – per rompere il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro? Come si articola una lotta che coinvolga occupati e occupabili entrambi a precarietà a tempo indeterminato? Sono domande aperte. E non ci sembra che le attuali forme di organizzazione sindacale, anche conflittuale, siano in grado di dare risposte adeguate.
Quando diciamo che il nostro tentativo deve esser quello di produrre uno scarto politico e uno squilibrio sociale, intendiamo la capacità di acquisire un’attitudine ad anticipare, evocare, praticare percorsi di soggettivazione che si collocano negli snodi tra produzione e riproduzione sociale, che rompano con lo status quo politico e sindacale. E in questa fase tale scarto può anche coincidere con la valorizzazione e il sostegno a lotte esemplari, in grado – pur nella loro parzialità – di parlare alla condizione della variegata composizione di classe. Per questo pensiamo che una delle pratiche sia quella di “adottare una lotta”, per provare a rafforzare e vincere alcune battaglie in grado di incrinare l’attuale immobilismo sociale.
Ci stiamo tutti misurando con le nostre parzialità essendo, tuttavia, consapevoli che non possiamo essere di nuovo catturati per l’ennesima volta dalla coazione a ripetere mere somme di esperienze oppure a ricercare ideali punti medi di condivisione. Il sindacalismo sociale lo immaginiamo anche come disponibilità a reciproche invasioni di campo, tra i soggetti che lo praticano, sui terreni dell’autorganizzazione, del mutualismo, della sperimentazione politica. Gli strumenti e le pratiche non sono mai neutrali, spesso condizionano i percorsi, gli esiti, le soggettività in campo che non possono essere semplicemente bypassate con un surplus di conflittualità. Viviamo in un periodo di crisi in cui da una parte si accentuano le astrazioni del lavoro, del denaro e del tempo e dall’altra si concretizzano fino al paradosso lo sfruttamento, il domino e l’alienazione. Se, come evidente, non abbiamo le risposte adeguate, porre e porci il problema di come svincolarci da questa morsa dovrebbe però essere il nostro compito a venire.