Cultura del possesso e dello stupro tra Italia e Brasile

Wed, 01/06/2016 - 08:31
di
Sauronicas

Questa settimana una ragazza è bruciata viva, arsa dal suo ex fidanzato.
C'è chi sostiene che si uccida "per amore", perché il dolore dato dalla separazione è troppo grande, per gelosia, perché si sarebbe accecati dal pensiero che l'amata possa stare con qualcun altro.
Alcuni e alcune sostengono invece che si tratti di un “raptus” , di una follia, di un momento di mancata lucidità entro il quale si consumerebbero le peggiori nefandezze.

Purtroppo le cause che spingono un uomo ad ammazzare una donna, a stuprarla, a picchiarla, a violentarla psicologicamente giorno dopo giorno, sono assolutamente di tutt’altra natura e non c’entrano affatto né con l’amore, né con la gelosia né tantomeno con i disturbi mentali ma solo con il possesso.
Prestiamo attenzione: non confondiamo le cause con le scuse, con le giustificazioni, con le narrazioni velenose che ci vengono propinate per evitare di arrivare alla radice del problema.
Si uccide perché, intrinsecamente o meno, si crede che quella persona, quell'altro essere umano, sia di nostra proprietà, perché si reputa inaccettabile che quella donna possa avere una vita lontana da noi; si è convinti che la sua decisione d'allontanarsi sia un terribile affronto, uno schiaffo all’orgoglio, alla propria virilità, al proprio dominio. Chi perpetra violenza mette in atto un meccanismo di rimozione dell’alterità, ovvero non riconosce l’altro della relazione come un soggetto autonomo, dotato della capacità di decidere per sè. Il pensiero assillante che nasce nella testa di chi agisce violenza è "Come osa lasciarmi?"; ed è lì che, col coltello, la pistola, la benzina, l'acido, decide che "la punizione" che lei merita per aver infranto il suo possesso, la sua legge, la sua autorità è, senza dubbio, l’intimidazione, l’atto persecutorio che può culminare con la morte. Il carnefice in sostanza, in un atto del tutto narcisistico in cui esistono soltanto le proprie rivendicazioni, sfoga la sua perdita di dominio sull’altro.

Non è però da meno chi, ad un livello più narrativo e simbolico, perpetua la credenza che si uccida per amore o per gelosia, perché colti da misteriosi raptus: così anche chi alimenta tali discorsi, non riuscendo a guardare più in là del proprio personale "e non richiesto" giudizio, nega che le ragioni siano più profonde, più radicate in una cultura patriarcale e sessista, più interiorizzate di quanto si sia disposti ad ammettere, frutto di una performazione machista e ripetitiva dei ruoli di genere, una violenza stereotipata vecchia di millenni, antica e sedimentata.
Ed è proprio da quella sedimentazione che si origina il problema ed è da lì che dovremmo tutte e tutti partire per sbrogliare la questione: la morte di migliaia di donne per mano di padri, mariti, fidanzati, fratelli, amanti, amici. E’ in quella faglia piena di fossili in cui dobbiamo calarci e sporcarci le mani.
Nonostante tutto, nonostante Sara sia inequivocabilmente vittima del suo assassino e di una cultura del possesso forte della sua “tradizionalità” leggiamo articoli di conosciute testate giornalistiche titolare: “Ragazze, mai andare ad un ultimo appuntamento” come se questo fosse davvero il consiglio per eccellenza, il suggerimento ultimo che risolverà il problema della violenza di genere in Italia e nel mondo. Perché non ci abbiamo pensato prima!
Non sembra anche a voi spaventosamente somigliante al solito e puntuale "te la sei cercata"?

Sia donne che uomini, in queste ore, editano i commenti più osceni alla drammatica vicenda.
C’è chi, come la candidata sindaca di Roma, Giorgia Meloni sfrutta l’episodio per una chiamata al securitarismo, ci sono le ministre Boschi, Lorenzin, Giannini, Madia che nonostante la loro carica istituzionale proprio non se la sentono di spendere due parole sull’accaduto, figuriamoci agire in qualche modo; ci sono le sedicenti femministe che vorrebbero “rieducare tutti i maschi sulla faccia del pianeta" senza accorgersi che forse, la critica alla cultura patriarcale e sessista deve coinvolgere anche loro stesse, i loro metodi, le loro vite in prima persona, e poi ci sono i misogini e le misogine che sparano a zero, pront*, da una parte a giustificare l’aggressione e dall’altra pronti a giudicare la situazione.
Tutt* si domandano perché una donna si "lasci abusare" , come se fosse una scelta ben consapevole, ma nessuno si domanda perché un uomo abusi di lei.
Smettiamola di far finta che, ancora una volta sia colpa delle donne, sia colpa di quelle che ci hanno rimesso la vita, assumiamoci le nostre colpe piuttosto: complici di una cultura che dopo un omicidio del genere e di genere, pubblica su tutte le testate giornalistiche fotografie della fu coppietta felice e veicola, costantemente una cultura che istiga alla violenza, al dominio, alla colonizzazione della partner. Guardiamoci dentro tutt* perché il peggior femminicida è quello che vive dentro di voi ed è lui che dobbiamo uccidere.

Questa settimana un’altra ragazza è stata drogata e poi stuprata da 33 uomini.
Il video dello stupro di gruppo è stato postato su twitter, diventando virale.
Uno stupro è già brutale di per sé ma, davvero, provate a immaginarvelo perpetuato da ben 33 uomini.
Lo stupro non ha niente a che fare col sesso o col piacere: è un atto dispotico, fascista, un atto di prevaricazione totale e di feroce spersonalizzazione della vittima.
La cultura dello stupro, sorella gemella di quella del possesso, ha radici profonde e ha radici in ognuna delle persone che nelle scorse giornate si è permessa di mettere in dubbio l’avvenuto stupro, la mancata consensualità della sedicenne, si è permessa di mettere in discussione che fossero in 33 nonostante le prove video siano schiacciante. Come al solito c’è stato anche chi si è sentito di indagare – Che cosa ci faceva lei fuori a quell’ora? Com’era vestita? Non poteva starsene a casa a studiare? – e chi addirittura ha scritto alla giovane minacciandola di morte per aver sporto denuncia contro i suoi aggressori.

Benché queste due terribili storie siano avvenute in due punti molto distanti nel mondo, è evidente come abbiano, in realtà, molto in comune, ovvero la credenza che le donne siano un oggetto, funzionale ad un desiderio maschile ed eteronormato, nate per essere sempre gradevoli, sottomesse, devote. Ciò che spaventa di più è che in questo sistema, in questa visione delle cose, ci siamo dentro tutt* assieme a prescindere dal nostro sesso biologico, genere o orientamento sessuale. La suddivisione dell’umanità mediante rigide dicotomie, che in questo caso confinano da un lato le donne nel ruolo di vittime indiscusse e dall’altro gli uomini in carnefici, anch’essi irrimediabilmente ingabbiati in questo ruolo, non permette alla discussione di evolvere positivamente: la narrazione che si produce rischia di commettere errori di valutazione gravissimi. Da un lato infatti si perpetua un perenne giudizio negativo, un Victim blaming diretto alle donne che "a prescindere dai fatti e dal contesto specifico" sono sempre colpevoli perché “troppo svestite”, “troppo disponibili”, “troppo spavalde”perché escono da sole la sera, ma aggiungeremmo talvolta accusate di “troppa leggerezza” perché straniere o provenienti da paesi “meno civili” del nostro, come nel caso brasiliano. Come se attraverso la matrice etnico-razziale con cui si legge e si giudica tale violenza, essa possa automaticamente essere considerata meno grave ed efferata di altre. Dall’altra il maschile, interpellato solo quando rientra nel ruolo di carnefice/aggressore, è considerato da alcun* parte del problema solo se da “rieducare”, in senso quasi punitivo.

Inoltre vorremmo ricordare come la gravità della violenza subita possa essere giudicata solo e soltanto da chi ne viene colpit* direttamente, tutti gli altri commenti che vorrebbero soppesare e gerarchizzare un caso piuttosto che un altro fanno soltanto parte di quel coro che alimenta e costituisce la cultura dello stupro. La violenza del patriarcato associa tutte le donne e gli oppressi del mondo, a prescindere anche dalla cultura di origine e dal paese di provenienza. L’unica cosa che può rendere nei fatti qualitativamente diverso un caso specifico di violenza da un altro, non sta di certo nel giudizio di valore ma piuttosto nella materiale possibilità di reazione di una donna ad una situazione di violenza, questione che ha a che fare con la sua condizione di classe: è indubbio infatti che se sei povera e priva di strumenti - in primis - economici, tutto è molto più complesso.
L’interconnessione tra differenti sistemi d’oppressione, da un lato quella di genere, generata dal patriarcato, dall’altro quella di natura economica perpetuata dal capitalismo, che di per sè per sopravvivere deve autoalimentare e riciclare (magari sotto forme e stili sottilmente diversi nel tempo, ma non nella sostanza) le stesse vecchie discriminazioni, alimenta l’inasprirsi di fenomeni di violenza e discriminazione di genere, a partire dalla dimensione familiare-affettiva per arrivare ad ambiti pubblici, come avviene nei contesti lavorativi.

A chi si riempie la bocca della parola “femminicidio”, senza per altro considerarne affatto la genesi come categoria politica, base teorica di alcune importanti rivendicazioni femministe in Centro e Sud America (e non nella nostra “civile” Europa), vorremmo dire che una vera riflessione sul tema avverrà soltanto se si considereranno da un lato l’importanza di andare a scardinare quel meccanismo perverso che permette di perpetuare l’interconnessione tra sistemi di oppressione, dall’altro se si partirà dall’ammissione autocritica che nella cultura patriarcale e sessista siamo immerse tutte e tutti, e che possiamo davvero impegnarci per trovare insieme nuovi linguaggi, nuove letture e soluzioni ai problemi che ne derivano.
Oggi, non parleremo di quanto sia importante l’educazione alla parità di genere, di quanto sia importante insegnare sin da piccoli e sin da piccole che cosa sia il sessismo e come evitarlo; oggi, concluderemo solo invitandovi tutt* a fare uno sforzo, riconoscendo in voi stess* il sessismo e le dinamiche patriarcali.
Proviamo a guardarci allo specchio e per oggi, a cominciare da lì.