“Love wins, but business is business”: appunti sulla liberazione frocia ai tempi del capitalismo gay

Thu, 09/08/2018 - 17:10
di
Mauro Muscio

L’anno prossimo si festeggerà il 50° anniversario della rivolta di Stonewall, rivolta con cui si è soliti indicare la nascita del movimento LGBTIQ occidentale contemporaneo (1). Oggi noi ci dobbiamo interrogare su cosa sia accaduto in questi 50 anni e se l’anniversario di Stonewall sia una mera ricorrenza o dimostri la necessità di nuove battaglie per la liberazione sessuale e di genere.

Nei paesi a capitalismo avanzato notiamo alcune tendenze che mostrano lo stato delle comunità LGBTIQ:

- Incremento di fette di mercato dedicate alla comunità gay e lesbica, legate al turismo, al turismo sessuale, ai luoghi di socialità e divertimento, e legate alla burocrazia per unioni civili, matrimoni e adozioni.

- Rafforzamento dell’omonormatività, intesa come narrazione dominante di modelli di gay e lesbiche integrati nello Stato, a cui si richiede il rispetto di alcune norme quali la monogamia, la creazione di nuclei famigliari stabili, il rispetto dei valori occidentali e borghesi, il rispetto degli schemi binari di genere e l’inclusione nei meccanismi nel mondo del lavoro contemporaneo.

- Diffusione di schemi omonazionalisti, che cooptano le identità gay e lesbiche, soprattutto delle classi medie, dentro progetti politici nazionalisti o razzisti che identificano come nemico le identità di genere e sessuali non occidentali e i migranti di culture non cristiano-giudaiche. In particolare, questi fenomeni di nazionalismo gay si mostrano oggi con l’ingresso di donne e uomini gay, lesbiche e trans nelle forze armate, con la rappresentanza militare nei Pride, e con il razzismo all’interno della comunità lgbt nei confronti dei non bianchi (2).

- Esclusione dai movimenti LGBTIQ e dall’integrazione sociale di soggettività transgender e queer, la cancellazione sistematica della visibilità bisex, intersessuale e asessuale e delle sessualità “altre” rispetto alla norma, quali per esempio feticismi e sadomasochismo, e la spoliticizzazione totale della questione sessuale, (ri)rilegata al “privato” e cancellata completamente dallo spazio pubblico.

Come illustrano le ricerche (3) di Peter Drucker, durante il regime di accumulazione fordista nascono le concezioni moderne di “gay” e “lesbica”, in relazione ad una radicalizzazione dell’opposizione homo/straight. Il dopoguerra e in particolare il boom economico dei decenni successivi creò un nuovo cittadino, produttore e consumatore, parte necessaria e indispensabile di una catena mondiale di produzione e riproduzione. Un’economia che vide i primi grossi ingressi nel mondo di lavoro di donne e, negli Stati Uniti, di neri (4); un’economia che quindi impose velocemente un nuovo modo di vivere. Kevin Floyd inoltre suggerì come le identità di genere e quelle sessuali siano state soggette a un processo di reificazione legato alla diffusione delle merci e connesso alle forme di consumo (5). Il capitalismo crea infatti continuamente nuovi desideri e bisogni, e nella sfera della circolazione delle merci contribuisce a costruirci come soggetti. L’essere gay quindi ha un riconoscimento da parte del soggetto che esprime il proprio desiderio sessuale in un processo di performazione dialettico tra se stesso e la collettività, processo che nel mercato, nelle merci, nei linguaggi, nella cultura, nello stile di vita trova il più alto equilibrio contemporaneo tra le tensioni individuali e quelle sociali.

La globalizzazione dei mercati, il progresso tecnologico, i social, la cultura di massa, la liberalizzazione della sessualità e della pornografia hanno fatto sì che anche gay e lesbiche, e in parte trans, siano stati inclusi in quelle concessioni di libertà apparenti, che non ledono gli interessi della classe dominante, quello che Marcuse aveva definito come processo di desublimazione repressiva. Non è un caso che in alcuni contesti, come in Irlanda, abbia avuto più facile strada l’introduzione del matrimonio omosessuale piuttosto che il diritto all’aborto, diritto che rappresenta ancora una minaccia per l’ordine della divisione dei generi e della riproduzione della forza lavoro.

Nelle grandi metropoli europee e statunitensi la crescita di una nuova classe media gay e lesbica integrata ha avuto un impatto sulla geografia urbana, con politiche di gentrificazione rainbow che hanno da una parte debellato l’omofobia in alcuni quartieri, ma dall’altra hanno allontanato migranti e poveri sempre più in periferia. In alcuni casi questi processi sono stati in grado di incorporare e sussumere le esperienze dei primi quartieri LGBTIQ, nati già dagli anni ’40 e ’50 come luoghi sicuri in cui esprimersi e in cui praticare mutuo soccorso reciproco, mentre in altri sono stati veri e propri piani urbani e politici studiati a tavolino per quartieri strategici – per il turismo, il trasporto e il commercio – delle città.

A questi fenomeni si oppongono in maniera diversa fette radicali di attivismo queer. Sotto la sigla di attivismo queer inserisco genericamente settori più o meno politicizzati, collettivi, reti e associazioni che pongono al centro delle loro pratiche la lotta ai processi di normalizzazione del movimento e della comunità LGBTIQ. Esperienze interessanti sotto il profilo della produzione contro culturale circa sessualità, pornografie, relazioni non monogame, ragionamenti di genere non binari, che sempre più attraggono giovani e giovanissimi ragazz*. Queer inteso come risposta politica di contrasto al neoliberismo, come posizione politica più che come identità sessuale. Identità ampia, che si oppone all’eteronormatività e all’omonormatività, che si posiziona al fianco e dentro le marginalità della comunità LGBTIQ rispetto ad un centro di uomini, e in parte donne, rispettabili, bianche, cisgender, abili, di classe media. Esperienze che tentano di rivolgersi alla generazione di giovani precari colpiti dalla distruzione delle politiche sociali e dalle riforme del lavoro, ma che nella pratica ricadono però spesso in settarismi intellettuali. L’elaborazione queer, che per me rimane in parte cosa diversa rispetto alla produzione teorica accademica, affascina, viene veicolata, ma la pratica troppo spesso rimane individuale e senza orizzonti di progettualità politica ampia, perché incapace di relazionarsi ad altri settori della società in lotta e perché non si pone l’interrogativo circa i rapporti di forza – di classe – esistenti sul piano materiale della realtà.

Abbiamo conosciuto delle resistenze radicali lgbt e queer che si sono messe in connessione, per esempio, con settori femministi nelle ondate di Occupy Wall Street prima, rivendicando di far parte di quel 99%, e nelle contestazioni oceaniche contro Trump oggi, o nel movimento internazionale di Non Una Di Meno e nelle costruzioni di partecipazioni alternative ai Pride in diversi paesi occidentali. Resistenze che svelano le contraddizioni di un capitalismo rainbow, rivendicando l’unità tra diritti civili e diritti sociali, che non accettano l’integrazione in schemi di mercato o nazionali ma che rivendicano la lotta al neoliberalismo come strada per la piena autodeterminazione di genere e sessuale.

Esperienze di questo tipo inoltre puntano a relazionarsi anche con le periferie dei centri urbani e in generale con le zone provinciali degli stati, e problematizzano l’omofobia culturale e le resistenze reazionarie come aspetti di un capitalismo al cui interno matrimoni gay e omo-lesbo-bi-transfobie convivono perfettamente per gli interessi specifici delle classi dominanti.

Non a caso nei settori dell’antifascismo troviamo oggi nuove e significative pratiche queer, impegnate a queerizzare il movimento antifascista di fronte alle avanzate di settori di estrema destra, istituzionale o meno; queste destre mantengono legami con settori estremisti del mondo cattolico, il quale da anni prepara una controffensiva omo-transfobica e sessista dalla forza simbolica e politica pari ai tribunali dell’Inquisizione. Il Vaticano dall’inizio del 2000 costruisce infatti una narrazione anti-gender fortissima che, a partire dal “Primo Congresso sull’ideologia Gender” del 2011, tenutosi all’Universidad de Navarra (fondata dall’Opus Dei) (6) ha iniziato a formare una nuova dirigenza di cattolici integralisti che, attraverso legami con settori fascisti, come per esempio in Brasile il partito TFP (Tradizione, Famiglia e Proprietà), o legami con l’imprenditoria internazionale, come CitizenGo in Euorpa, colpisce quotidianamente tutte le forme di autodeterminazione di donne e soggetti LGBTIQ. Una crociata simbolica e politica che ha riempito piazze, penso alle manif pour tous francesi, ha armato insegnanti e presidi nelle scuole, penso agli Stati Spagnoli e al Portogallo, ed è penetrata nei luoghi del potere governativo, come per esempio in Italia. Una crociata mondiale a cui dobbiamo reagire prima possibile, rafforzando le relazioni internazionali e riaffermando l’imprescindibile alleanza politica tra donne e soggetti LGBTIQ.

Negli Stati Uniti e in Europa oggi il proliferare di un femminismo TERF (7), che esclude donne trans, dimostra quanto l’elaborazione dei settori reazionari sia riuscita a penetrare anche in ambienti impensabili. In nome della differenza biologica questa parte del femminismo si presenta contro la decostruzione del binarismo di genere, contro il lavoro sessuale autodeterminato, contro le pratiche di GPA anche gratuite; non a caso in alcuni paesi il femminismo TERF si è associato con organizzazioni di destra e fasciste, come nell’Irlanda del Nord dove si è alleato con il Partito Unionista per far passare una legge contro il sexwork (8), o negli Stati Uniti dove alcune femministe TERF hanno collaborato con i conservatori per negare la copertura sanitaria alle persone trans. Una radicalità, quella del femminismo TERF, che trova il suo fondamento nell’essenzialismo della differenza che non può che riproporre come unica lotta quella delle donne contro gli uomini, piuttosto che quella delle oppresse e degli oppressi contro gli oppressori.

La scena queer nell’Europa Occidentale risponde anche all’ondata di razzismo istituzionale. Abbiamo diversi esempi nei Paesi Bassi, in Danimarca, in Svezia, in Germania, ma negli ultimi anni anche nell’Europa mediterranea, di solidarietà queer nei confronti dei migranti e dei rifugiati. Pratiche che puntano a mettere in discussione le politiche omonazionaliste e che esercitano la solidarietà a partire dal posizionamento LGBTIQ. Migranti LGBTIQ di seconda generazione animano collettivi o reti queer antirazziste, praticando quello che nella teoria definiremmo intersezionalità. Genere, orientamento sessuale, razza e classe diventano così punti di partenza e ponti per costruire resistenze plurali al capitalismo. Cito, tra i tanti, il lavoro della rete “Queer refuges and migrants Network” in Germania, che offre supporti mirati ai migranti LGBTIQ, o i collettivi di donne lesbiche di seconda generazione in Francia, o ancora i collettivi queer in Belgio o la rete “Queer refugees welcome” in Lussemburgo. Il carattere antirazzista di questi settori queer inoltre ha facilitato e facilita la connessione politica costante con altri settori antirazzisti democratici e solidali, contaminandoli.

La questione dei migranti allarga inevitabilmente la critica all’omonormatività e all’omonazionalismo, poiché mette in discussione i discorsi eurocentrici, razzisti e colonialisti che cancellano sia le identità sessuali e di genere sia i movimenti di liberazione LGBTIQ dei paesi non occidentali. Quel discorso quindi secondo cui Israele rimane la culla della democrazia nella regione orientale, poiché tutela anche gay lesbiche contro il nemico palestinese, o ancora, quel discorso europeo per cui i migranti di religione islamica vengono rappresentanti come inconciliabili con le democrazie perché omofobi e sessisti. La realtà è appunto molto più complessa e soprattutto è necessario approcciarsi senza categorie eurocentriche. La storia, le culture, le religioni, i processi coloniali e la razzializzazione hanno determinato lo sviluppo di categorie di genere e sessuali molto diverse dalle nostre. Inoltre i processi di colonizzazione hanno imposto morali e leggi eurocentriche omofobe e punitive; il tabù dell’omosessualità e l’imposizione dei paradigmi culturali, sociali ed economici eterosessisti sono stati così determinati da essere interiorizzate dalle popolazioni colonizzate tanto da determinare anche alcuni atteggiamenti sessuofobi nei movimenti di liberazione nazionale successivi.

Dobbiamo con forza essere solidali con i processi di autodeterminazione delle comunità LGBTIQ che nei paesi non occidentali praticano resistenze e forme di lotte. In Palestina esistono realtà gay e lesbiche che lottano per la loro autodeterminazione in solidarietà alla resistenza anti-israeliana; in America latina, negli ultimi vent’anni la tematica LGBTIQ è stata al centro di dibatti in più contesti, e quasi sempre ha significato non solamente la lotta per il riconoscimento dei diritti civili, ma anzi la trasformazione generale del contesto nell’unità tra le lotte contro le dittature, il razzismo, il fondamentalismo e la povertà (9), individuando spesso nel mercato internazionale e nel FMI i nemici da combattere per la stessa liberazione LGBTIQ. Questo vale per esempio anche per i paesi del sud est asiatico, dove disuguaglianze economiche, violenze militari e fondamentalismi di matrice islamica, rappresentano le cornici entro cui nascono, per esempio, sia associazioni che si occupano della prevenzione all’HIV e dei diritti per persone gay e lesbiche, sia intere comunità di mutuo aiuto tra donne transgender.

In Cina, dove sono in atto ripetute campagne mediatiche e di piazza per la visibilità della comunità LGBTIQ e dove, di fronte all’incremento costante degli ultimi anni di contagi HIV, alcune associazioni LGBTIQ hanno iniziato delle battaglie di prevenzione e informazione non indifferenti, il terreno del conflitto con gli apparati di governo si amplia sempre più circa le tematiche della libertà sessuale e le discriminazioni di genere.

Nei paesi dell’Europa dell’Est (10) le resistenze si raggruppano in una cornice fortemente omofoba dovuta alla cultura religiosa e post stalinista, e le lotte degli attivisti si sono concentrate sulla rivendicazione dei diritti di opinione, visibilità e informazione entrando in connessione con altri settori democratici e progressisti dei paesi. Anche se, in alcuni paesi, l’attivismo LGBTIQ è riuscito ad ottenere delle tutele legislative, come in Bulgaria, in Montenegro, in Serbia, le resistenze omofobe e di odio rimangono fortemente legittimate o dai governi o dalla cultura popolare. I nazionalismi dell’est trovano forza nella propaganda antieuropeista per contrastare i diritti LGBTIQ e dei migranti.

I processi di democratizzazione rimangono i luoghi politici necessari perché le realtà LGBTIQ possano rivendicare visibilità e diritti, perché si possa mettere in discussione il modello eteronormato. In generale possiamo affermare che, al contrario del movimento LGBTIQ mainstream occidentale, le esperienze LGBTIQ non occidentali, più o meno radicali, trovano forza e respiro nella loro politicizzazione e nei legami con altri settori politici e resistenti. Le rivolte delle primavere arabe per esempio sono state un luogo politico di rafforzamento della lotta di gay e lesbiche, e delle donne, in differenti paesi mediorientali e del nord Africa. Allo stesso modo il processo di rivolte di Gezi Park del 2013 in Turchia ha mostrato il peso dell’azione della comunità LGBTIQ, e non a caso sono state la marcia “Onore Trans” e la settimana dell’onore LGBTIQ di luglio, a cui hanno partecipato più di 30 mila persone11, a rappresentare l’occasione per prolungare Gezi. Il quartiere di piazza Taksim rappresentava da anni un luogo sicuro per la comunità trans e per le sexworkers, e questi soggetti sono stati protagonisti a pieno titolo contro il regime, alleati con ambientalisti, progressisti, liberi professionisti, sindacalisti, ultras e associazioni musulmane.

L’esempio della Cina, come quello della Russia, dell’Iran o dell’Arabia Saudita d’altro canto, rappresentano il paradigma dell’etica dell’economia globale. Presi sotto il fuoco dell’opinione pubblica occidentale per l’autoritarismo dei governi, per il controllo dell’opinione pubblica e per la violenza repressiva contro la comunità LGBTIQ, rimangono tra i paesi più importanti e strategici, in termini economici e geopolitici, con cui i paesi occidentali – quelli dei matrimoni gay, degli investimenti economici nel turismo gay e lesbico, dei patrocini ai Pride e dall’aspetto liberal-friendly – stringono accordi economici quotidianamente. “Love wins, but business is business” era il post condiviso su Twitter nel 2016 in occasione dell’incontro tra il Governo Renzi e quello iraniano a Teheran, durante il quale importanti accordi commerciali furono stretti con la benedizione in loco dell’allora viceministro per lo sviluppo economico Ivan Scalfarotto, gay dichiarato (12).

Da una parte quindi le politiche neoliberali promuovono società moderne in cui gay e lesbiche vengono integrati in schemi familistici responsabili del ruolo della riproduzione sociale, che investe i rapporti di proprietà, il lavoro di cura, le politiche sull’alloggio e la salute, mantenendo all’interno contraddizioni enormi con fette di potere reazionario. In questo schema la circolazione delle merci ha un carattere disciplinare, perché rafforza delle identità sessuali, a scapito di altre, rafforza il binarismo di genere, e crea narrazioni di cittadinanza inclusive per gay e lesbiche rispettabili e normali. Economia globalizzata, produzione e riproduzione sociale, migrazioni e nuove forme imperialistiche mostrano come la questione sessuale e di genere abbiano delle loro specificità in una relazione dialettica e imprescindibile con quelle di razza e di classe. Dall’altra assistiamo a dei processi nelle diverse regioni del mondo non occidentale in cui la tematica LGBTIQ diventa terreno di lotta e di conflitto nei confronti sia dei poteri interni, sia di quelli esterni internazionali. La specificità dei diversi contesti determina specifiche rivendicazioni e processi di lotta per la liberazione sessuale.

A distanza di quasi 50 anni dalla notte di Stonewall dobbiamo ancora lottare perché si possano creare nuovi spazi LGBTIQ di politicizzazione democratici, inclusivi, radicali e femministi, capaci oggi di essere alternative alle lobby mainstream LGBTIQ e alle marginalità queer settarie, che a partire dal riconoscimento delle identità specifiche, e dei loro bisogni, proponga terreni di alleanza necessaria con altri settori della società. Lottiamo nei nostri paesi, in solidarietà alle lotte dei compagni e delle compagne LGBTIQ in tutto il mondo, perché le nostre identità non sono nazionali, perché la lotta per i diritti deve comprendere tutti, perché questi diritti non siano privilegi per pochi. Perché ci hanno dato un po’ di pane e qualche petalo di rosa, ma di fronte alla situazione attuale non possiamo accontentarci: dobbiamo invece resistere e rivendicare che vogliamo ancora il pane, le rose, e gli orgasmi, e il miglior orgasmo si chiama rivoluzione, e a insegnarcelo sono state proprio le transessuali, le travestite, le frocie e le lesbiche, gli studenti e le studentesse, i neri e le nere che animarono la rivolta di Stonewall.

Note:

(1) Sulla nascita del movimento lgbt contemporaneo si veda anche “La fabbrica dell’orgoglio. Una genealogia dei movimenti LGBT”, Massimo Prearo, ETS 2015
(2) Si veda la ricerca della rivista inglese The Fact Side, commentata sul sito Il Grande Colibrì https://www.ilgrandecolibri.com/arcobaleno-razzismo-gay/
(3) Si veda il primo capitolo di Warped, Peter Drucker, Haymarket Books Chicago
(4) A tale proposito Angela Davis suggerisce delle analisi di lettura di classe di questi fenomeni nella sua opera “Donne, razza, classe”, pubblicata con una nuova traduzione italiana quest’anno dalla casa editrice Alegre
(5) The Reification of Desire: towards a queer marxism, Kevin Floyd, Univ. Minnesota Press, 2009
(6) La Crociata “anti-gender”. Massimo Prearo e Sara Garbagnoli. Ed. Kaplan 2018
(7) La sigla TERF viene raramente utilizzata dalle sostenitrici di questa corrente per autodefinirsi, ma anzi è largamente utilizzata da chi si posiziona contro questa parte del femminismo.
(8) Alla sigla TERF spesso si accompagna quella SWERF: sex work exclusionary radical feminism.
(9) Differente Rainbows, Peter Drucker, Gay Men’s Press
(10) Si vedano le ricerche condotte da Robert Kulpa circa le sessualità nei paesi dell’Europa Centrale e dell’Est.
(11) Gli attori di Gezi Park: una tassonomia, in #GeziPark. Coordinate di una rivolta, AA.VV, Alegre, 2013
(12) https://www.gaypost.it/scalfarotto-accordi-iran-impicca-i-gay
(13) Bread and roses, canzone sullo sciopero delle operaie tessili a Lawrence, Massachusetts, nel 1912. Fu musicata inizialmente da Martha Coleman o Caroline Kohlsaat, ma la versine più nota è quella musicata da Mimi Baez Fariña , sorella minore di Johan Baez nel 1974.