A fàbrica de nada

Wed, 07/06/2017 - 18:59
di
Raffaele Meale*

A fábrica de nada è il sorprendente esordio di Pedro Pinho, sguardo sul Portogallo in crisi economica e ideologica, e sulla realtà di una fabbrica occupata e autogestita dagli operai. Tra riflesso del reale, agit prop e voli pindarici un’analisi accorata – e non priva di interrogativi – sul mondo capitalista, e la sua inesauribile usura.

L’autogestione
Una notte un gruppo di lavoratori si accorge che la direzione sta smantellando la loro fabbrica. Quando si organizzano per salvare quel che resta e impedire la delocalizzazione della produzione, sono costretti a rimanere ai loro posti, ma senza lavoro… [sinossi]

Nell’ultima parte di A fábrica de nada gli operai che stanno autogestendo la fabbrica ricevono una telefonata inaspettata dall’Argentina: un’altra fabbrica occupata ha deciso di ordinare a loro, proprio per la comunione della lotta contro il padronato, alcuni pezzi. Un lavoro pagato. Una commissione che farà finalmente entrare soldi nelle tasche di operai che da tempo non percepiscono stipendio, pur non avendo abbandonato per un solo giorno il posto di lavoro. Gli operai sono così contenti della notizia che iniziano a cantare, trasformando A fábrica de nada in un vero e proprio musical, con tanto di coreografie e movimenti di macchina in odor di Hollywood. La camera sale e osserva dall’alto questa organica disposizione all’interno dello spazio; è il personaggio del regista che nel film sta organizzando un documentario sull’occupazione – a interpretarlo è Daniele Incalcaterra, documentarista autore tra gli altri di El impenetrable e Contra@site, entrambi in co-regia con Fausta Quattrini – a bloccare questo momento. Il musical, lo svago al di fuori del concetto di reale, può trovare collocazione solo di fronte a un passaggio utopico, a sua volta scollegato da un mondo che invece si muove in tutt’altra direzione, opposta e apertamente ostile. Non è tempo d’occupazioni, né in Portogallo né nel resto d’Europa. Non fanno più “comodo”, con ogni probabilità, neanche a chi le avrebbe difese solo un paio di decenni fa.

È un’opera stratificata e complessa, A fábrica de nada, che ha attirato su di sé l’attenzione dei cinefili proprio mentre il festival di Cannes andava scemando, muovendosi verso la conclusione. Ospite della Quinzaine des réalisateurs, A fábrica de nada conferma e ribadisce il valore di una selezione che ha rappresentato il polmone verde di un’edizione nel complesso in tono palesemente minore. Non è un film facile da affrontare, A fábrica de nada, e sembra anche esistere in un tempo tutto suo, staccato da ogni moda e da ogni prassi contemporanea. Si dipana lungo tre ore, e sceglie apertamente un territorio ibrido nel quale muoversi: tra agit prop e documentario, dramma collettivo e istanze individuali, impianto profondamente realista ed elogio sperticato della finzione, della riscrittura, dell’elaborazione del vero.
A sorprendere in maniera particolare è la giovane età del regista, Pedro Pinho, qui all’opera d’esordio, non tanto per il tema scelto ma per la maturità dialettica, la volontà di affrontare i molti concetti che sviscera nella forma dubitativa, pur partendo da una base chiara e priva di compromessi. Nella continua (d)evoluzione del capitalismo l’umano è stato progressivamente messo da parte, con le classi proletarie e sottoproletarie ridotte a nuove forme di schiavitù, private dei diritti acquisiti nel corso di decenni e secoli. Questo processo ha portato alla frantumazione del rapporto tra Stato e cittadino, al dissolvimento del concetto di welfare e, per quanto concerne gli assetti industriali, alla cosiddetta delocalizzazione, che ha portato a licenziamenti di massa aumentando a dismisura il dislivello sociale.

A fábrica de nada è la rappresentazione organica e sedimentata del conflitto di classe, ma anche la messa in dubbio della sinistra storicizzata. In questo senso la lunga sequenza che vede Incalcaterra – che nel film interpreta un regista argentino – partecipare a una cena con amici francesi e portoghesi in cui si discute della fabbrica, dei nuovi operai, delle forme di lotta da portare avanti e del modo migliore per renderle “vittoriose”, appare quantomai esemplificativa dell’approccio di Pinho e del suo gruppo di lavoro (il film in realtà è un’opera collettiva, come segnalano già i titoli di testa, di Joao Matos, Leonor Noivo, Luisa Homem, Pedro Pinho, e Tiago Hespanha): il salotto intellettuale BoBo [1] è un microcosmo teorico, a cui si contrappone l’azione operaia, criticata e messa in dubbio da alcuni partecipanti alla cena.
Tutto il film di Pinho si muove nella dicotomia tra pensiero e azione, e nella difficoltà di riuscire a far incontrare questi due aspetti in modo compiuto e uniforme: anche l’atto stesso del filmare, che non si ferma di fronte a nulla – almeno all’apparenza – è una scelta di campo netta e forte. “Gettate via i libri, usciamo per le strade” catechizzava Shūji Terayama oltre quarantacinque anni fa; nella sua foga operaista A fábrica de nada non cede mai alle lusinghe della retorica, né si lascia sedurre dalla facile esaltazione della ribellione. Analizza, reinterpreta, utilizza i fantasmi della Rivoluzione dei Garofani per esercitare l’arma del grottesco, e compone un lungo poema politico sul Portogallo, sulla sua storia dalla liberazione dalla dittatura a oggi, senza però mai evadere dal suo punto fermo: gli operai, la fabbrica autogestita, i padroni. Tre elementi che compongono triangoli tra i più impensati, ma mai privi di logica, o di struttura. Nelle movenze, nelle preoccupazioni, nei desideri, nelle esibizioni artistiche (canore, per lo più), nelle divagazioni di Zé, il giovane operaio su cui più si sofferma la camera di Pinho, si rintraccia quel senso di spaesamento e inadeguatezza che attraversa tutto A fábrica de nada. Inadeguatezza verso il proprio tempo, spaesamento verso il proprio spazio. Che non è più proprio, ma è ancora possibile autogestire, così com’è autogestito questo piccolo grande film, che nasce come un polar e arriva al realismo, seguendo la commedia, il musical, il film-concerto, il film sentimentale. Il cinema portoghese continua a insegnare come fare film politici e in modo politico. Ma non ha scolari, avrebbe detto Gramsci.

NOTE
Termine coniato all’inizio degli anni Settanta dal sociologo Michel Clouscard, quale risultato della contrazione delle parole “bourgeois” e “bohème”. È poi entrato nell’uso comune, spesso anche utilizzato in modo spregiativo per andare a identificare quella classe intellettuale di sinistra che in Italia viene spesso chiamata radical chic.

*Fonte: http://quinlan.it/2017/05/27/fabrica-de-nada/