Quale futuro per i “sanderisti”?

Fri, 18/03/2016 - 10:12
di
Felice Mometti

Con le vittorie in Florida e in Ohio si può dire che Hillary Clinton abbia praticamente chiuso la partita con Bernie Sanders nella corsa verso la nomination democratica. I numeri indicano un divario incolmabile a meno di eventi imprevedibili come l’apertura di un’inchiesta sulle malefatte, in Libia e dintorni, dell’ex Segretario di stato.
La macchina elettorale e finanziaria della famiglia Clinton, con l’appoggio di quasi tutto l’establishment democratico e della grande maggioranza dei superdelegati o delegati di diritto, ha avuto qualche problema a mettersi in moto ma una volta avviata ha conquistato voti e sostegni importanti sia nelle comunità afroamericane e latine che nella cosiddetta classe media bianca.
Ha raccolto un fiume di denaro da banche, società finanziarie e multinazionali. Ha fatto una campagna mediatica molto aggressiva veicolando immaginari diversi – affidabilità contro utopie catastrofiche, riforme ragionate contro rivoluzioni politiche, concreta difesa dei diritti delle minoranze contro discorsi puramente ideologici – calibrandoli sui singoli stati chiamati al voto.
Una campagna che si è concentrata sui diritti, astrattamente intesi, degli afroamericani, delle persone lgbt, dei lavoratori, delle donne, dei consumatori, degli studenti come se la società fosse la somma aritmetica di tutte queste categorie messe insieme. Mettendo la sordina alle profonde diseguaglianze della società americana, al razzismo istituzionale, al pessimo livello di servizi sociali come la sanità, la scuola pubblica.

Hillary Clinton ha messo in pratica, con il proprio valore aggiunto di una politica come brand e marketing emozionale, la teoria di Bill Clinton sulla triangolazione e cioè l’appropriarsi di alcuni temi forti, sia di Sanders che dei repubblicani, togliendoli dal contesto originario e diluendoli in uno discorso elettorale che non rimanda mai al sottostante progetto politico marcatamente neo liberista. Da questo punto di vista il meglio, o il peggio, di sé Hillary Clinton l’ha dato a proposito della contestazione a Chicago – che ha coinvolto migliaia di persone ed è durata parecchie ore – che ha imposto l’annullamento del comizio di Trump all’università.
Una contestazione lanciata con l’evento facebook Stop Trump e cresciuta velocemente coinvolgendo studenti, attivisti afroamericani, sostenitori di Sanders e di Clinton di fronte alla quale l’ex Segretario di stato ha espresso giudizi contradditori. Dallo scontato “va bene contestare Trump non usando però questi metodi” al variamente interpretabile “ bisogna fermare Trump in tutti i modi, dobbiamo garantire il diritto alla sicurezza di tutti i cittadini elettori” sottinteso repubblicani compresi.

In questo scenario la campagna di Bernie Sanders ha mostrato una profonda contraddizione che lo staff elettorale del senatore del Vermont, dopo la preoccupazione iniziale, ha cercato non di attenuare ma di valorizzare. A fronte di un’immagine politica piuttosto statica da socialdemocratico tradizionale del candidato si è invece affermata una dinamica di coinvolgimento e partecipazione di settori di elettorato giovanile che con il loro attivismo hanno fatto velo alle debolezze politiche e agli svarioni comunicativi di Sanders. Il quale in questo mese e mezzo di primarie si è guardato bene dal distanziarsi troppo dalla “dottrina Obama” in politica estera, ha evitato di parlare esplicitamente contro le spese militari, di diritto di sciopero e di organizzazione sui luoghi di lavoro, facendo invece sfoggio di un antirazzismo spesso caritatevole nonché di imbarazzanti lodi verso la politica di Winston Churchill. Al contrario i “sanderisti”, le migliaia di volontari che stanno facendo la campagna (stime attendibili dicono 80 mila) hanno mostrato una notevole capacità di iniziativa che si è tradotta in una consistente raccolta di fondi online fatta di milioni di sottoscrittori di piccole cifre, nell’apertura di 165 pagine facebook con 7 milioni e mezzo di “mi piace”, 200 gruppi facebook con 350 mila membri, nell’organizzare circa 60 mila eventi autogestiti dalle feste in casa, ai phone-banking, alle berniestorm.

I numeri di Hillary Clinton sono circa la metà. Le due campagne hanno impostazioni diverse: centralizzata, gerarchica e mediaticamente performativa quella di Clinton, parzialmente autorganizzata, autonoma rispetto allo staff centrale, con la convergenza di strumenti organizzativi e comunicativi vecchi e nuovi, quella di Sanders.
Ora dopo i quasi 11 milioni di voti per Sanders raccolti fino ad oggi, con la prospettiva di superare i 20 milioni alla conclusione delle primarie e dopo la protesta contro Trump avvenuta Chicago, e quelle che si preannunciano in altre città contro il tycoon newyorkese, molti “sanderisti” si stanno ponendo la domanda su cosa fare dopo la campagna delle primarie. Sanders ha più volte dichiarato che la sua battaglia consisterà nel sostenere Hillary Clinton cercando di incalzarla per spostare a sinistra il suo programma presidenziale.
Una battaglia che ha al centro la rigenerazione e il ringiovanimento del partito democratico che viene ancora visto come uno strumento utile per il miglioramento della società. Un’illusione non condivisa da una parte significativa di volontari che più si sono spesi in questa campagna e che hanno preso sul serio la “rivoluzione politica” più volte evocata dallo stesso Sanders.
La maggiore organizzazione politica della sinistra radicale americana (si sta parlando sempre di numeri molto modesti), l’ISO, pur non appoggiando Sanders giudica positivamente che con questa campagna sia stata sdoganata la parola socialismo negli Stati Uniti. E questo può aprire uno spazio per l’affermazione del loro programma tra i “sanderisti”. Un’impostazione che tende a riprodurre il recinto di un certa scolastica trotskista di cui quell’organizzazione è portatrice. Una parte della redazione della rivista Jacobin cerca di andare più a fondo del fenomeno dei “sanderisti” vedendoli come sequenziali successori del movimento Occupy e di Black Lives Matter.
Le categorie interpretative usate, con non poche forzature, sono quelle dell’operaismo italiano. Le migliaia di volontari della campagna di Sanders sarebbero la manifestazione di una nuova composizione di classe.

L’impressione è che queste analisi non colgano nel segno e che sia ancora presente il rischio che i “sanderisti” non reggano la sconfitta di Sanders che si sta profilando se la loro azione rimane confinata sul terreno elettorale e non genera forme di conflitto sociale. E soprattutto se continuano a identificarsi come cittadini elettori e non come soggetti sociali. Diventare e comportarsi da soggetti sociali, dimenticando Sanders, è senza dubbio un processo possibile di cui stanno emergendo i presupposti ma non si intravedono ancora gli esiti.