Le stagioni della rivolta araba

Wed, 31/12/2014 - 17:17
di
Intervista a Gilbert Achcar di Vidya Venkat

È iniziato il 18 dicembre 2010 come una sollevazione popolare innescata dal suicidio di Mohammed Bouazizi, un venditore ambulante, per protestare contro il regime corrotto ed autocratico del paese. Ciò a cui ha condotto è stata una serie di sollevazioni rivoluzionarie in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa (MENA) che hanno rovesciato i governi dittatoriali in Tunisia, Libia, Egitto e Yemen. Comunemente noto come la “Primavera Araba” da allora il movimento è disceso nel caos con la crescita del potere delle forze fondamentaliste islamiche. In questa intervista via Skype il professore della School of Oriental and African Studies (SOAS) all'università di Londra ha dichiarato che non si è ancora perduta la speranza per questa regione.

Dalle rivolte del 2010-2011 nei paesi del MENA, eccetto la Tunisia, il modello di democrazia liberale non ha preso piede. C'è ancora una speranza? Anche lei vede la democrazia liberale “elettorale” come una risposta alla crisi in corso nella regione? Ad esempio abbiamo visto come il dittatore Bashar al-Assad del Partito Ba'ath sia rimasto al potere in Siria malgrado le elezioni del giugno di quest'anno...
La questione della democrazia nella regione del MENA non può essere ridotta alla liberaldemocrazia così come oggi viene applicata nella maggior parte dell'Occidente. Anche se prendi il liberalismo solo nel suo significato politico i paesi arabi sono ben lontani dal renderlo effettivo, e ciò è vero anche per la Tunisia dove attualmente c'è un governo formalmente democratico. La regione sta subendo una crisi sociale ed economica molto grave che è alla radice del trambusto generale e degli sconvolgimenti. Per risolvere la crisi in corso bisogna allontanarsi dal modello socioeconomico neoliberista che ha messo in crisi la regione. Il vero ostacolo è una combinazione tra una classe dirigente estremamente repressiva e corrotta con un capitalismo clientelare della peggior specie. Questa combinazione ancora non è stata smantellata in nessuno degli stati della regione, Tunisia inclusa. In Syria, dove la dittatura del Ba'ath si è trincerata al potere per mezzo secolo, le elezioni erano prive di qualsiasi legittimazione democratica. Per raggiungere una democratizzazione reale bisognerebbe smantellare radicalmente lo “stato nello stato” che continua sostenere l'attuale assetto sociopolitico della regione.

L'ondata iniziale di speranza per la liberazione dei popoli arabi dai regimi autocratici sembra essere svanita. Quando il movimento è iniziato nel 2010 c'è stata una grande euforia, ora non più. Secondo lei il movimento dove si è diretto?
Quando il movimento è iniziato l'euforia si fondava su delle illusioni ma era giustificata dal fatto che i popoli della regione avevano iniziato ad uscire per le strade con la voglia di imporre la loro volontà.

Comunque il fatto che fossero scesi per le strade non era sufficiente per ottenere ciò a cui aspiravano. Nella regione c'è stata un'eccezionale rivolta popolare e di massa ma con delle forze progressiste deboli e/o disorientate. Anche in un paese come la Tunisia dove c'è un'organizzazione progressista forte sotto forma di un movimento sindacale egemonizzato dalla sinistra si è assistito alla mancanza di una strategia adeguata. Sono caduti nella trappola della bipolarità tra due forze egualmente reazionarie – da una parte i vecchi regimi e dall'altra le forze d'opposizione islamiche fondamentaliste.

Le forze progressiste si sono alleate alternativamente con uno o l'altro di questi due poli controrivoluzionari ed attualmente in paesi come la Siria, lo Yemen, la Libia e in parte anche in Egitto è dominante la conflittualità interna tra questi due poli reazionari. Ciò è l'elemento chiave che ci fa comprendere perché si sia perso lo slancio iniziale del movimento. Le forze islamiche fondamentaliste e fanatiche sono cresciute in tutta la regione, di cui la più impressionante è il califfato dell'autoproclamato “Stato Islamico”. Ciò che doveva essere chiaro sin dall'inizio ora è divenuto ovvio: un mutamento radicale potrà avvenire solo in modo violento a causa dell'estrema brutalità del vecchio regime. Ma anche concludere che il vecchio regime abbia vinto sarebbe un'affermazione molto miope: i paesi del MENA detengono tassi record di disoccupazione, fino a che non verrà risolto questo punto cruciale gli sconvolgimenti continueranno. L'ho detto fin dal 2011: è questo motivo che mi ha spinto a sostenere che ciò che era inizato non fosse una “Primavera”, termine che denota una stagione, bensì un processo rivoluzionario di lunga durata che continuerà per parecchi anni e decenni prima che la regione raggiunga una stabilità durevole.

Nella sua opera classifica i paesi arabi come stati redditieri poiché ricavano la maggior parte delle loro entrate dal petrolio e dal gas. Il recente crollo mondiale dei prezzi del petrolio ha danneggiato le economie di questi paesi. Che tipo di trasformazione socioeconomica è necessaria per risolvere la crisi in corso nella regione?
Infatti la regione del MENA dipende molto dalle esportazioni di petrolio e gas, i cui prezzi sono fissati dal mercato mondiale e sono estremamente volatili. Perciò i paesi della regione affrontano il rischio di repentine fluttuazioni economiche. Comunque non tutti i paesi del MENA ne sono colpiti allo stesso modo: alcuni di loro sono importatori di petrolio, altri piccoli produttori ed altri ancora sono massicci esportatori. Comunque il petrolio domina il complesso dell'economia regionale. Perciò un aspetto primario del cambiamento radicale necessario nella regione è la diversificazione delle economie – lo sviluppo di una base industriale reale e la riduzione della dipendenza dalle esportazioni di greggio e di gas. La regione non manca di risorse naturali, capitale e lavoro ma il grosso delle risorse naturali e del capitale accumulato con la loro esportazione è sotto il controllo occidentale. Tutti i principali esportatori di petrolio della regione – i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo che include i più ricchi stati arabi – dipendono di gran lunga dagli Stati Uniti per la propria esistenza e sicurezza. A dire il vero il regno saudita è l'artefice della caduta dei prezzi del petrolio e l'hanno fatto a beneficio degli Stati Uniti per i propri motivi strategici. La mole di denaro saudita all'estero viene investito in buoni del tesoro e banche statunitensi e tutto ciò è una perdita netta per l'intera regione.

L'imperialismo occidentale ha creato il sistema regionale delle monarchie del Golfo per garantirsi lo sfruttamento delle loro risorse e la situazione potrebbe restare questa finché non verrà estratta l'ultima goccia di petrolio. Un altro aspetto del cambiamento radicale necessario alla regione per venir fuori dalle sue condizioni disastrose è di realizzare il sogno di un dirigente come l'ex presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, che volle unificare i paesi arabi in una repubblica federale o in un'unione di repubbliche. C'è un gruppo di paesi che parlano la stessa lingua e condividono la stessa cultura ma che sono divisi in due dozzine di stati per servire l'interesse delle precedenti forze imperiali che sono entusiaste di perpetuare questa divisione. Ciò è avvenuto in un periodo in cui l'Europa ha iniziato a costruire la sua unione malgrado fosse composta da un numero maggiore di culture.

È un sostenitore dell'intervento occidentale nei paesi arabi, come Siria, che sono coinvolti in guerre civili? Nel suo libro non ha preso una posizione categorica su questo tema...
L'imperialismo occidentale è parte importante del problema nella regione e sicuramente non è parte della soluzione. Comunque ciò non mi porta ad avere un atteggiamento impulsivo in opposizione ad ogni forma di intervento in ogni circostanza. Quando c'è una situazione in cui un'intera città o una popolazione vengono minacciate da un massacro su larga scala – come il caso di Bengasi in Libia o della città di Kobane nella parte siriana del Kurdistan – e c'è un pericolo imminente in mancanza di un'alternativa non ci si può opporre a degli interventi militari con l'aviazione se ciò può contribuire a risolvere la minaccia diretta. Ma non appena questa minaccia imminente cessa bisogna opporsi ad ogni prosecuzione di un intervento occidentale diretto. Gli Stati Uniti, che sono alla guida di questi interventi, cercano sempre di cooptare i processi in corso per guidarli secondo i propri interessi, questo è il motivo per cui in via generale mi oppongo ad un intervento militare diretto dell'occidente. Comunque sostengo la richiesta di armi fatta dalla rivolta libica nel 2011, dall'opposizione democratica siriana nel 2012 o dalle forze della sinistra curda nel 2014. Hanno bisogno di armi per reagire contro delle forze che sono molto più pesantemente armate di loro. Comunque gli USA sia in Libia che in Siria si sono rifiutati di fornire alle opposizioni democratiche le armi di cui avevano bisogno. Ciò mi induce a ritenere che gli Stati Uniti abbiano una grande responsabilità nell'enorme massacro inflitto al popolo siriano e nella distruzione del loro paese. Se l'opposizione siriana avesse ricevuto sin dall'inizio le armi che aveva chiesto, soprattutto la contraerea, il regime non sarebbe stato in grado di utilizzare la propria aviazione, che ha compiuto la maggior parte delle devastazioni e degli omicidi avvenuti durante la guerra civile.

I Fratelli Musulmani (FM) hanno beneficiato molto delle rivolte della Primavera Araba, vincendo le elezioni in Tunisia e in Egitto e svolgendo un ruolo di primo piano nelle rivolte in Siria, Libia e Yemen. Ma l'anno scorso dopo la caduta del governo di Mohammed Morsi in Egitto le sue prospettive non sono più rosee. Possiamo concluderne che il fondamentalismo islamico non può essere la risposta alle richieste delle masse di quei paesi? Pongo questa domanda perché l'intera Primavera Araba ed il periodo successivo sono stati analizzati in primo luogo attraverso la lente dei movimenti islamici, il che sta guidando il discorso in occidente sull'intervento in questi paesi...
Non solo il fondamentalismo islamico non è la risposta, ma l'Islam stesso non lo è – come non è nemmeno il problema. La rivolta del 2011 non aveva motivazioni religiose: è l'apice della crisi socioeconomica e dell'oppressione politica che esiste nella regione. Il fallimento dei FM è dovuto soprattutto alla mancanza di una politica economica e sociale diversa da quella seguita dai vecchi regimi. In Tunisia e in Egitto non sono riusciti a risolvere le crisi sociali. Ciò a cui ora stiamo assistendo è il declino dei FM accompagnato dall'ascesa di forze fondamentaliste che sono ben peggiori – Al-Qa'ida e l'IS. La mancanza di una dirigenza progressista è il motivo principale per cui varie forze fondamentaliste sono in grado di capitalizzare la rabbia popolare nella regione. Per comprendere questo sul piano storico dobbiamo guardare indietro all'ondata del fondamentalismo iniziata negli anni '70. Negli anni '60 nella maggior parte dei paesi a maggioranza musulmana il fondamentalismo è stato marginalizzato dall'ascesa del nazionalismo di sinistra, rappresentato soprattutto a Nasser. È solo negli anni '70 quando questo ha iniziato a declinare che abbiamo assistito all'inizio dell'ascesa delle forze fondamentaliste islamiche.

Durante la Primavera Araba è stato enfatizzato il ruolo che i media hanno avuto nella rivolta e quello dei social media per aiutare l'organizzazione del movimento sul campo. Quattro anni dopo ritiene che svolgano ancora un ruolo nell'influenzare l'organizzazione e gli esiti del movimento?
Ovviamente il ruolo svolto dai mezzi di comunicazione moderni e dai social media è incontestabile, c'è stato un profondo mutamento nell'ecosistema tecnologico complessivo dell'umanità. Le televisioni satellitari hanno svolto un ruolo di primo piano nelle recenti sollevazioni ed ancora lo svolgono, sebbene sia diminuito dal suo acme nel 2011. Dall'altro lato il ruolo dei social media sta crescendo. Quando la rivolta araba del 2011 è stata definita una “Rivoluzione di Facebook” ciò era ovviamente un'esagerazione ma non senza un briciolo di verità: Facebook, Twitter, YouTube e tutti questi mezzi di comunicazione sono diventati gli strumenti principali per lanciare messaggi e video per tutto lo spettro politico, dai progressisti all'estrema destra, ad esempio l'IS che usa internet in modo massiccio.

Il suo consiglio alle forze progressiste che puntano al successo della rivoluzione?
Le forze progressiste devono essere abbastanza coraggiose da lottare e vincere. Se non saranno loro le artefici del cambiamento avremmo solo ciò che io definisco uno “scontro di barbarie”. La Siria è l'esempio più lampante con la lotta tra il regime siriano da una parte ed IS ed Al-Qa'ida dall'altro. Ma la rivolta non è ancora finita. La “primavera” araba ora si è trasformata in un “inverno”, ma arriveranno molte altre stagioni.

da "The hindu"; traduz. Emanuele Calitri