Il disastro siriano, e cosa viene dopo

Wed, 05/09/2018 - 16:04
di
Joseph Daher*

Al termine del 2017, in Siria c'erano circa 13,1 milioni di persone avevano bisogno di assistenza umanitaria. Di questi, 5,6 milioni ne hanno ancora urgente bisogno a causa della convergenza tra diverse condizioni di vulnerabilità dovute allo sfollamento, l’esposizione alle ostilità e al limitato accesso a beni di prima necessità e servizi di base [1]. Più della metà della popolazione è sfollata internamente o esternamente al paese, costretta a lasciare le proprie case come conseguenza della guerra.

Più di 920,000 sono gli sfollati in Siria nei primi quattro mesi di quest’anno, un numero record dall’inizio del conflitto. Inoltre, la vita dei rifugiati siriani nei paesi limitrofi significa povertà, sfruttamento e politiche discriminatorie.

La Banca Mondiale ha stimato che nel giugno 2017 circa un terzo di tutti gli edifici e circa la metà degli edifici scolastici o degli ospedali siriani è stato danneggiato o distrutto. Il Prodotto Interno Lordo, che nel 2010 si attestava a 60,2 milioni di dollari, è crollato a soli 12,4 nel 2016. Più dell’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

Il regime di Bashar al-Assad, con l’aiuto dei suoi alleati iraniani e russi così come dell’organizzazione libanese Hezbollah, ha continuato a recuperare terreno. Fuori dal territorio controllato da Assad, continuano le offensive militari e i bombardamenti contro i civili. Nell’aprile 2018, le forze del regime con il sostegno della Russia e dell’Iran hanno conquistato l’est della Ghouta, vicino Damasco. L’offensiva ha incluso anche l’uso di armi chimiche contro i civili.

A metà luglio, successivamente ad una campagna militare e una serie di cosiddetti “accordi di riconciliazione locale” – che hanno condotto poche centinaia di combattenti dell’opposizione e le loro famiglie che rifiutavano di arrendersi ad essere caricati su autobus diretti verso le aree controllate dall’opposizione nel nord – il regime siriano, assistito dagli alleati russi, ha riconquistato il controllo pressoché totale sulla provincia di Dara. Questo include il passaggio di frontiera di Nasib, una mossa che un ufficiale giordano ha pubblicamente definito “positiva”. Quel passaggio è strategicamente ed economicamente importante e riaprirà i collegamenti chiave verso Damasco.

La campagna militare in quest’area ha provocato nuovi spostamenti forzati. Nonostante il ritorno di alcune decine di migliaia di sfollati interni precedentemente insediati nell’area di frontiera di Nasib, a metà luglio è stato stimato che sono circa 234,500 gli sfollati lungo tutto il sud-ovest della Siria.

Circa il 70% di questi, attorno alle 160mila persone, si è insediato a Quneitra, una zona estremamente vicina all’area del Golan dove l’accesso all’assistenza umanitaria è molto complicato. Le condizioni di vita degli sfollati sono estremamente difficili, ammassati in spazi aperti, campi o insediamenti di fortuna [2].

Sia la Giordania che Israele hanno chiuso le frontiere a tutti gli sfollati interni [nota: nella recente evacuazione dei volontari dei Caschi Bianchi, la Giordania e Israele hanno specificato che essi devono essere sistemati altrove, in Europa o in Canada].

Come promemoria, un anno fa, nel luglio 2017, il presidente USA Donald Trump e quello russo Vladimir Putin hanno concordato una tregua per Dara e i suoi dintorni, chiamandola “de-escalation zone”. Nessuna menzione su ciò che ne sia stato fatto di questo accordo da parte degli ufficiali americani, durante la campagna militare guidata dal regime siriano proprio nella provincia di Dara. Washington ha chiarito alle forze armate dell’opposizione che, precedentemente, aveva sostenuto di non aspettarsi interventi. Questo ha portato alla loro resa.

All’inizio di agosto 2018 le forze di regime, con il supporto dei propri alleati stranieri, controllano interamente il sud-ovest della Siria per la prima volta dal 2012. Questa situazione è stata raggiunta con la conquista di due villaggi vicini alla frontiera giordana e con l’evacuazione di centinaia di combattenti dello Stato Islamico (IS). Il regime e i suoi alleati controllano ora più del 60% del territorio siriano e circa il 75% della popolazione. Ma gran parte del nord – soprattutto nella provincia di Idlib e una piccola parte ad est – resta fuori dalle mani di Assad. La presenza della Turchia e delle forze USA in quell’area potrebbe complicare ulteriori conquiste, almeno per ora.

La provincia di Idlib, che in questo momento ospita un numero compreso tra i 2,5 e i 3 milioni di persone, di cui la metà sfollati interni, è controllata dalla coalizione jihadista Hayat Tahrir Sham (HTS, guidata formalmente da Jabhat al-Nusra, legata ad al-Qaeda), che ha imposto le proprie istituzioni e violentemente represso le reti di attivisti e le organizzazioni della società civile.

Lo stato dell’opposizione

La regione di Idlib ha sofferto dei bombardamenti a tappeto delle forze di regime e di quelle russe, bombe che hanno ucciso e ferito nonostante la zona facesse parte dell’area di “de-escalation” concordata tra Russia, Iran e Turchia ad Astana (capitale del Kazakhistan) lo scorso settembre. Questa zona è stata inoltre testimone di una forte instabilità e di scontri violenti tra HTS (ndt. Tahrir al-Sham, conosciuto pure come al-Qaeda in Siria) e i gruppi armati rivali, inclusa la coalizione salafita (estremamente fondamentalista) Jabhat Tahrir Suria (JTS, con elementi legati a Ahrar al-Sham e Nureddin al-Zinki), che hanno provocato il rifiuto e l’ostilità della popolazione locale nei confronti di queste forze reazionarie. Questi gruppi armati reazionari, inoltre, hanno commesso significative violazioni dei diritti umani sulla popolazione locale.

Nonostante queste condizioni, le azioni di resistenza civile sono continuate regolarmente contro l’oppressione di HTS, in cui le donne hanno avuto un ruolo molto importante [leggi: See https://leilashami.wordpress.com/2018/07/05/women-are-at-the-forefront-o.... La resistenza ha assunto la forma di scioperi, di manifestazioni pubbliche, di formazione di centri per le donne, comunicati, senza però consolidarsi in un’opposizione politica organizzata in grado di sfidare gli jihadisti reazionari e le forze salafite.

Le forze armate turche hanno stabilito una presenza significativa nella provincia di Idlib, inclusa una dodicesima postazione militare di osservazione installata lo scorso maggio 2018. Il dispiegamento delle forze turche è parte dell’accordo di Astana con la Russia. Il presidente Tayyip Erdogan ha fatto pressioni sul presidente russo Vladimir Putin per assicurarsi che nessun intervento militare contro l'esercito siriano sarebbe avvenuto a Idlib.

In aggiunta ai gruppi di sostegno legati alla Fratellanza Musulmana e alle forze conservatrici islamiche, Ankara ha inoltre direttamente incrementato la sua influenza politica nelle aree sotto il suo controllo nel nord della Siria attraverso vari altri mezzi. La polizia turca, tra il 2016 e il 2017, ha addestrato 5mila siriani per la creazione di un’organizzazione poliziesca parallela, i servizi postali turchi hanno aperto delle filiali in Jarablus, al-Bab e Cobanbey, ed istituzioni e università finanziate dalla Turchia sono state aperte in molte cittadine. Le famiglie dei combattenti dell'opposizione armata morti nell'operazione militare guidata dalla Turchia, “Operation Olive Branch” contro Afrin nel marzo 2018, hanno ricevuto delle indennità di morte dallo stesso governo turco.

Selahattin Yildirim, un individuo che è legato all'Ufficio per gli Affari Religiosi della Turchia, è stato nominato Muftì di al-Bab. Ankara ha inoltre spinto per la creazione di una zona industriale e di una centrale elettrica vicino a al-Bab. [3]

Per la Turchia, le principali motivazioni della sua presenza in quest'area sono l’incoraggiamento al ritorno di una piccola porzione di rifugiati siriani attualmente in Turchia in queste zone e, soprattutto, l’impedire ogni possibilità per il PYD (Partito dell'Unione Democratica) di tornare a formare zone curde autonome nel nordest della Siria.

I territori a nord e a est controllati dal PYD sono anche sotto minaccia continua da parte di vari attori locali, regionali e internazionali. Al principio di quest'anno, la Russia ha dato luce verde all'offensiva orwelliana turca chiamata “Operation Olive Branch” contro l'enclave curda di Afrin. A giugno, Washington e Ankara si accordarono su un piano per il ritiro dei combattenti curdi delle YPG (Unità di Protezione Popolare) da Manbij, città a nord della Siria, rimpiazzandoli con forze armate statunitensi e turche.

Gli ufficiali del PYD sono stati sempre più critici nei confronti degli Stati Uniti a causa di quest'accordo e a causa della passiva accettazione dell'occupazione turca di Afrin. Ancora una volta, possiamo vedere la riluttanza delle potenze internazionali e regionali a supportare l'autodeterminazione curda e la disponibilità a sacrificarne gli interessi a proprio vantaggio. [4]

In aggiunta, il presidente degli Stati Uniti Trump ha annunciato in più occasioni la sua volontà a ritirare le truppe statunitensi dalla Siria una volta che lo Stato Islamico fosse stato sconfitto, sebbene senza indicare una data definitiva. L'amministrazione USA ha inoltre deciso di tagliare i fondi per la stabilizzazione e per i progetti dedicati alla società civile nel nordest della Siria, mentre ulteriori finanziamenti sono in corso di revisione.

La Coalizione Siriana, composta principalmente da fondamentalisti islamici, gruppi conservatori e singole personalità, non solo ha supportato l'intervento militare turco e continuato le politiche scioviniste e razziste nei confronti dei curdi siriani in Siria, ma ha anche partecipato attivamente all'operazione, facendo appello ai rifugiati siriani in Turchia di unirsi alla lotta dei gruppi dell'opposizione armata contro le forze turche di Afrin. Ha anche supportato l'accordo tra Turchia e Stati Uniti a Manbij.

Allo stesso tempo, il regime di Assad ha continuamente minacciato di riconquistare con la forza il controllo del nord della Siria se il PYD avesse rifiutato di capitolare. Damasco ha anche denunciato l’accordo di Manbij tra il presidente della Turchia e le forze americane. La aree controllate dalle forze guidate dal PYD includono petrolio, fattorie e sorgenti d'acqua cruciali per l'economia.

Di fronte a queste multiple minacce, alcuni ufficiali del PYD hanno dichiarato la propria disponibilità al dialogo senza precondizioni con il regime. Come argomentato dall'esempio di Aldar Khalil, co-presidente del Movimento per una Società Democratica (Tev-Dem) legato al PYD, “Le condizioni sono cambiate. È tempo di trovare una soluzione con Damasco.”

In questo contesto, con la pressione internazionale in aumento, a fine luglio il Consiglio Democratico Siriano (SDC), l'ala politica delle Forze Democratiche Siriane (SDF), ha annunciato pubblicamente per la prima volta la disponibilità al dialogo con il regime siriano, in vista dell’apertura di una strada verso un sistema federale democratico e decentralizzato. In ogni caso, come ben sanno gli stesso ufficiali dell'SDF, le sfide maggiori saranno nella modalità dei dialoghi futuri, in particolare riguardo al costante rifiuto di riconoscere i diritti globali del popolo curdo e l'avviamento di un sistema politico federale.

Nonostante le stesse pratiche autoritarie del PYD e l'amministrazione dall'alto verso il basso nelle aree da esso controllate, la sua esperienza è stata acclamata per la forte inclusione e partecipazione delle donne in tutti i settori della società, per la secolarizzazione delle leggi e delle istituzioni e per alcune misure di integrazione e partecipazione sociale di varie minoranze etniche e religiose.

In entrambi i casi, i progressisti dovrebbero opporsi ai bombardamenti e alle minacce di offensive militari perpetrate dal regime e dai suoi alleati stranieri contro Idlib e la regione orientale, in cui milioni di sfollati civili hanno trovato rifugio.

Ricostruzione e rifugiati

Il regime di Assad, accumulando nuove vittorie militari e conquistando nuovi territori grazie all'assistenza dei suoi alleati stranieri, ha iniziato a immaginare la questione della ricostruzione e a stabilire le condizioni per stabilizzare i territori sotto il suo controllo. Il costo della ricostruzione è stimato attorno ai 350 miliardi di dollari, cosa che ha stimolato l'appetito di attori nazionali e stranieri nonostante la guerra non sia ancora terminata.

Questa situazione, in ogni caso, fa fronte a numerose sfide, che vanno dalla mancanza di capitale nazionale per la ricostruzione al desidero dei capitalisti clientelari di espandere la propria ricchezza, passando per il comportamento delle numerose milizie pro-regime sparse lungo tutto il paese e, infine, la sopravvivenza di forze salafite e jihadiste.

Per Assad, i suoi parenti e gli imprenditori legati al suo regime, la ricostruzione è un mezzo per consolidare i poteri già acquisiti e ristabilire il dominio politico, militare, securitario ed economico, parallelamente al reinsediamento forzato della popolazione. Questo processo portera anche a rafforzare le politiche neoliberali – che avevano aiutato a provocare le proteste popolari del 2011 – di un regime fortemente indebitato che non ha la capacità di finanziarsi la ricostruzione da solo.

Gli attuali progetti di ricostruzione del regime rischiano di rinforzare le disuguaglianze sociali e regionali, esacerbando i problemi di sviluppo già presenti prima delle rivolte. Accanto alla crescente dipendenza dagli alleati Russia e Iran, il regime di Assad ha rafforzato la sua natura patrimoniale, grazie in particolare al ruolo crescente giocato dai capitalisti clientelari.

Ad aprile 2018, il regime di Assad ha emesso un nuovo decreto legislativo, il Decreto N. 10, che ha alimentato nuove paure dei cittadini che, nella fuga, hanno lasciato indietro le loro proprietà. Il Decreto N. 10 è stato adottato come un emendamento del Decreto N. 66 del 2012, e stipula che i proprietari di beni immobili debbano presentare i loro atti di proprietà alle amministrazioni locali entro 30 giorni dalla data di pubblicazione del decreto (il Ministro degli Esteri Walid al-Moallem ha annunciato che il tempo limite è stato prolungato a un anno, sebbene non sia stato ancora ufficialmente dichiarato).

Se impossibilitate, le persone possono chiedere ai propri parenti di farlo, o di essere rappresentati da un legale. Il principale obiettivo della legge, in ogni caso, è il sequestro delle proprietà abbandonate dai civili costretti a lasciare il paese, specialmente nelle aree precedentemente sotto il controllo dell'opposizione. Il risultato porterà a nuove registrazioni di terre, escludendo un vasto numero di proprietari di beni immobili. Attraverso la ricostruzione delle strutture amministrative, le proprietà dei civili costretti a fuggire verranno confiscate.

Permettendo la distruzione e l'espropriazione di ampie aree, il Decreto 66 del 2012 e il Decreto 10 del 2018 creano un efficiente strumento per un ampio progetto di sviluppo a beneficio dei sostenitori del regime, mentre allo stesso tempo agisce come misura punitiva contro la popolazione nota per essersi opposta al regime. Questo potrebbe includere un po' di ingegneria sociale e possibilmente settaria (sebbene non su una base nazionale) in alcune aree specifiche. Lo sviluppo di aree residenziali sarebbe formalmente portato avanti da società di holding di proprietà dei governatorati o delle municipalità, ma la costruzione e la gestione dei progetti sarà probabilmente appaltata a società private possedute da ben ammanicati investitori.

Il ritorno dei civili in alcune aree è inoltre reso difficile da varie misure e autorizzazioni richieste dalle numerose istituzioni securitare del regime. Le persone devono prima di tutto possedere la documentazione necessaria per poter accedere alla proprietà distrutta. La guerra ha demolito molti edifici catastali, spesso per deliberata iniziativa delle forze pro-regime, in alcune delle aree riconquistate.

Secondo le stime approssimative precedenti alla guerra del Ministero del Governo Locale, solo circa il 50% delle terre in Siria era ufficialmente registrato. Un altro 40% ha i confini delimitati ma rimane non registrato. Moltissime delle registrazioni venivano fatte su carta e spesso non venivano archiviate a dovere.

In aggiunta, una porzione significativa degli sfollati ha perso la propria documentazione attestante la proprietà o non ne è mai stata in possesso, secondo Laura Cunial, avvocato e consulente per l'alloggio presso il Norwegian Refugee Council. Circa la metà dei rifugiati siriani è stata oggetto di indagine da parte del Consiglio e l'Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNRA), il quale afferma che le loro case sono state distrutte o danneggiate irreparabilmente dalla guerra. Solo il 9% possiede i titoli di proprietà in buone condizioni, secondo il sondaggio pubblicato nel 2017.

Un’ampia parte di questi rifugiati proveniva in realtà da insediamenti informali, che rappresentano circa il 40% delle unità abitative in Siria – di cui i registri di proprietà erano spesso inesistenti. Gli analisti hanno stimato che probabilmente alla fine del conflitto sarebbero state archiviate più di due milioni di azioni legali da parte di civili siriani riguardanti la restituzione delle proprietà perse o danneggiate, un diritto inalienabile ai sensi del diritto internazionale.

Persino coloro in possesso dei documenti necessari spesso hanno trovato molte difficoltà nel raggiungere le proprie proprietà. L'accesso alle aree controllate dal regime spesso richiede l'ottenimento di un permesso d'ingresso da diverse sezioni della sicurezza solo per attraversare i posti di blocco. Questo processo include ricatti, tangenti e minacce di detenzione.

Una volta che il residente ottiene il permesso per entrare in città, un altro permesso viene richiesto prima che la ricostruzione di una casa distrutta possa iniziare. Ai residenti viene inoltre richiesto di pagare le bollette dell'elettricità, del telefono e dell'acqua per gli anni di assenza durante la guerra, circa il 50% del costo di queste attività. Ovviamente, è improbabile che gli attivisti e i sostenitori dell'opposizione ritornino, per paura della detenzione e della tortura, o che possano avere una qualche possibilità di vedersi ricompensati delle proprie perdite.

A partire dal 2017, si sono visti miglioramenti nel contesto imprenditoriale siriano in seguito ad anni di forte calo. I ricavi sono in crescita in vari settori, inclusi gli hotel di lusso, i trasporti e la logistica. In ogni caso, profondi e significativi problemi socio-economici rimangono, in particolare dovuti alla devastazione della forza lavoro maschile siriana. Questa fascia della popolazione è stata colpita da morte, disabilità, migrazione forzata e scomparsa. Di coloro che sono rimasti, gran parte è stata trascinata in un sistema violento e corrotto incentrato sulle dinamiche delle fazioni armate. Eppure, questa situazione ha inavvertitamente aperto la porta del lavoro, in precedenza solo maschile, alle donne, che ora occupano molto più spazio sia nella società che come forza lavoro.

Anche la conquista della Ghouta orientale e della provincia di Dara, tra aprile e luglio 2018, avrà un impatto positivo nell'economia del regime. Nella Ghouta Orientale, nel prossimo futuro verrà restaurata la produzione di centinaia di fabbriche che non sono state distrutte o danneggiate troppo seriamente dai bombardamenti del regime. Questa regione è stata il maggior fornitore di prodotti alimentari per Damasco. In aggiunta, ci sono molte fabbriche di produzione tessile, chimica e mobiliare.

Nella provincia di Dara, la frontiera di Nasib al confine con la Giordania era una questione dirimente, poiché strategicamente ed economicamente importante per la riapertura delle vie chiave del commercio con Damasco. Gli esportatori siriani avranno di nuovo accesso ai paesi del Golgo, un mercato importante prima del 2011. Le importazioni dalla Giordania e dal Golfo saranno anche disponibili ad un prezzo più basso.
Con la Siria come unica via per le esportazioni dal Libano verso il Golfo e l'Iraq, incrementeranno le entrate da e per il Libano. Poche settimane prima della conquista di Nasib, l'autostrada Homs-Hama è stata riaperta, facilitando così i trasporti e lo scambio di merci.

All'inizio del 2018, al fine di ridurre la dipendenza dalle importazioni, il regime ha implementato misure per incoraggiare gli investimenti e la ricostruzione degli impianti industriali. A fine maggio, un decreto presidenziale esentava tutti i proprietari di fabbriche manifatturiere in città o zone industriali dal pagamento delle tasse per le licenze di costruzione necessarie a ricostruire o espandere le fabbriche stesse. Con l'estate, tali iniziative sono state estese anche agli imprenditori siriani residenti all'estero, in particolare in Egitto, sia per incoraggiare gli investimenti nel paese che per facilitare la ripresa della produzione presso le loro strutture.

La riconquista dei territori da parte del regime e piccoli miglioramenti nella situazione economica non significano, in ogni caso, la fine dei problemi del regime siriano – di fatto, semmai, è proprio il contrario. Damasco dovrà affrontare una serie di contraddizioni e sfide: da un lato, soddisfare gli interessi degli imprenditori legati al regime e alle milizie; dall'altro, accumulare capitale attraverso la stabilità politica ed economica, garantendo contemporaneamente agli alleati stranieri grossi guadagni dal processo di ricostruzione.

Oggi questi obiettivi raramente si sovrappongono. In aggiunta, è ancora in corso la minaccia delle forze jihadiste che potrebbero aumentare gli attacchi terroristici nei centri urbani. L'ultimo esempio è stato a luglio, quando i soldati dell'IS hanno ucciso almeno 250 civili in un devastante attacco pianificato dalla maggioranza Suwayda, la maggioranza drusa controllata dal regime.

Mentre gli stati stranieri alleati del regime sono carenti di capitale sufficiente per la ricostruzione della Siria, le monarchie del Golfo, l'Unione Europea e gli Stati Uniti sono ancora riluttanti nel partecipare. Nel dicembre del 2017, il comitato statunitense Congressional Foreign Affairs Committee ha presentato l'Atto di Non Assistenza ad Assad, il quale preverrà l'amministrazione Trump dall'utilizzare i fondi degli aiuti non umanitari per la ricostruzione della Siria nelle aree controllate dal regime di Assad o dalle forze ad esso associate.

A metà luglio 2018, la Russia ha fatto agli USA una proposta di cooperazione per la ricostruzione della Siria e il rimpatrio dei rifugiati. Ma Washington continua a mantenere la sua posizione, rifiutando il supporto a tali sforzi a meno che non ci sia una soluzione politica per concludere la guerra civile, inclusi alcuni passi come le elezioni, supervisionate dalle Nazioni Unite.

Gli attori regionali: Assad ok, l'Iran no...

Mentre la questione dell'abbattimento del regime non è mai stata davvero messa a tavolino da parte degli attori internazionali e regionali – ma piuttosto cambiamenti superficiali alla sua guida – si è ora pressoché accettato che Assad resti al potere. La principale questione, oggi, è la presenza e l'influenza dell'Iran in Siria, in particolare di fronte all'ostilità degli Stati Uniti, dell'Arabia Saudita e di Israele.

In un'intervista di marzo 2018, ad esempio, il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman ha dichiarato che Bashar al-Assad sarebbe rimasto, ma che sperava che non sarebbe così diventato il “pupazzo” di Tehran. Il Segretario di Stato degli Stati Uniti Mike Pompeo, lo scorso maggio, ha indicato la ritirata dell'Iran dalla Siria come una delle 12 precondizioni necessarie per rimuovere le sanzioni contro l'Iran dopo che l'amministrazione Trump si è ritirata dall'accordo sul nucleare.

Nel luglio 2018, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Israele non si sarebbe opposta al ritorno del controllo di Assad sul paese e alla stabilizzazione del potere del regime, ma che Israele avrebbe protetto i suoi confini dai siriani anche militarmente, se necessario – come è già stato in passato. Ha poi aggiunto: “Non abbiamo avuto mai problemi con il regime di Assad, per 40 anni non un singolo proiettile è stato sparato sulle Alture del Golan.”

Questa posizione non è nuova, poiché Israele non vuol vedere nessun cambiamento radicale ai suoi confini ed è felice con un regime siriano indebolito. Le autorità israeliane, in ogni caso, hanno dichiarato pubblicamente l'opposizione verso ciascuna truppa iraniana o di Hezbollah vicina alla frontiera di Israele, ed ha invitato la Russia a prevenire che ciò accada. Specialmente dal 2017, quando la sopravvivenza del regime è iniziata a sembrare più o meno garantita, Israele ha moltiplicato i suoi attacchi contro Hezbollah e i target pro-Iran in Siria.

Nel settembre 2017, l'ex capo delle forze aeree Amir Eshel ha dichiarato che Israele avrebbe colpito i convogli armati dell'esercito siriano e dei suoi alleati di Hezbollah quasi 100 volte sin dall'inizio del 2012. Il regime di Assad, riluttante nel provocare Israele, non ha mai risposto a questi attacchi. L'unica eccezione è stata nel febbraio 2018, quando il fuoco antiaereo ha abbattuto un caccia israeliano di ritorno da un bombardamento sulle linee iraniane in Siria.

Israele ha quindi lanciato un secondo e più intenso raid aereo, colpendo quelli che ha dichiarato essere 12 obiettivi iraniani e siriani in Siria, incluso il sistema di difesa aereo siriano. In seguito a questo scontro, sia Israele che la Siria hanno annunciato che non stavano cercando la precipitazione in un conflitto più ampio, mentre la Russia e gli Stati Uniti si preoccupavano di una possibile escalation di violenza.

Come gesto per placare le apprensioni di Israele, il viceministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha ribadito a fine febbraio 2018 che la presenza del suo paese in Siria su invito di Damasco non fosse finalizzata alla creazione di un nuovo fronte contro Israele, ma avesse come obiettivo la lotta contro il terrorismo. Questo non è bastato a placare le paure di Israele. La politica aggressiva di Washington contro l'Iran e la decisione di porre fine all'accordo sul nucleare con Tehran nel maggio 2018 ha ulteriormente incoraggiato Tel Aviv nel perseguire i suoi attacchi in Siria contro obiettivi di iraniani e di Hezbollah.

Il principale obiettivo odierno di Israele nel trattare con la Russia include la rimozione dei missili puntati dalla Siria, il ritiro delle forze iraniane e di Hezbollah e la tutela degli accordi con la Siria del 1974 di disimpegno sulle Alture del Golan.

Gli Stati Uniti vogliono rimpiazzare l'influenza iraniana in Siria con quella russa. La dominazione della Russia è vista come più accomodante verso gli interessi statunitensi nella regione, grazie alla stretta relazione tra Mosca e Tel Aviv. In questo modo, potrebbero limitarsi le possibilità per Tehran di trasferire armi ad Hezbollah in Libano, e pertanto indebolire la stessa influenza di Hezbollah e dell'Iran. Mosca intrattiene buone relazioni anche con altri alleati regionali degli Stati Uniti, incluse l'Arabia Saudita e le monarchie del Golfo.

Ci si aspettava che nel summit tra Trump e Putin a Helsinki, a metà luglio 2018, la questione della presenza iraniana in Siria sarebbe stata sul tavolo come uno dei principali temi di discussione, insieme alla discussione sul petrolio e il gas naturale. In avvicinamento a quest'incontro, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca John Bolton ha infatti dichiarato: “Ci sono possibilità per una negoziazione più ampia nell'aiutare a portare le forze iraniane fuori dalla Siria e respingerle in Iran, il che sarebbe un passo avanti significativo.”
Washington aveva incentivi rilevanti per convincere la Russia a spingere l'Iran fuori dalla Siria, come l'annullamento delle sanzioni degli Stati Uniti e la cessazione dell'opposizione alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2, il quale trasporterà il gas russo verso la Germania e oltre.

Pochi giorni prima del summit di Helsinki, Ali Akbar Velayati, uno dei migliori assistenti del supremo leader iraniano Ayatollah Ali Khamenei ha dichiarato: “La presenza dell'Iran e della Russia in Siria continuerà a proteggere il paese dai gruppi terroristici e dall'aggressione americana... Ci ritireremo immediatamente se il governo iracheno e quello siriano lo vorranno, non a causa della pressione di Israele o degli Stati Uniti.” [5]

Tuttavia, dopo il summit di Helsinki, il Cremlino ha sminuito le aspettative: non aspettandosi molto da quest’incontro, sperava che fosse un “primo passo” verso la risoluzione della crisi grazie alle buone relazioni.

Ci sono molti altri elementi che hanno impedito alla volontà o abilità russa di far pressione sulle forze iraniane affinché abbandonassero la Siria; e molti disaccordi tra Mosca e Washington persistono, nonostante l'impazienza di Trump di migliorare le relazioni. La revoca delle sanzioni contro la Russia richiede il supporto del Congresso, e Trump potrebbe non essere in grado di scavalcare l'opposizione bipartisan.

Vari esempi lo dimostrano: dopo che ha definito Putin un “avversario” e “non il suo nemico” durante il summit della NATO di metà luglio, il senatore repubblicano John McCain ha risposto: “Putin non è amico dell'America, né semplicemente un avversario. Putin è il nemico dell'America – non perché speriamo che sia così, ma perché ha scelto di esserlo.” E il rappresentante democratico degli Stati Uniti, Gregory Meeks, membro della commissione degli affari esteri alla Camera, ha accusato la presidenza Trump di essere diventata un'arma di propaganda per il Cremlino.

Persino all'interno dell'amministrazione Trump si trovano posizioni contro Mosca. Il segretario della Difesa Jim Mattis ha descritto il ruolo della Russia nella regione balcanica, dopo aver incontrato a Zagabria i ministri della difesa dei paesi di questa regione, come un “elemento destabilizzante”; e lo scorso anno, il vicepresidente USA Mike Pence, durante un viaggio nella stessa regione, ha accusato apertamente la Russia di lavorare per destabilizzare l'area occidentale dei Balcani.

Nonostante l'Iran e la Russia abbiano lavorato in stretta collaborazione in Siria, differenze e disaccordi persistono. La Russia ha ottime relazioni con Israele e l'Arabia Saudita, due arcinemici per l'Iran. La relazione russo-iraniana è evoluta positivamente sotto la presidenza di Putin, che ha avviato una stagione di strette collaborazioni. Mentre, sin dall'inizio degli attacchi aerei russi in Siria, la Russia e Israele sono stati attenti a coordinare le proprie attività militari lungo il confine tra Siria e Israele in modo da evitare incidenti. I bombardamenti israeliani in Siria sugli obiettivi iraniani o contro Hezbollah si sono verificati previo accordo con la Russia.

Sul campo, diverse volte si sono verificate tensioni tra le forze russe e quelle iraniane, ad esempio a giugno quando le forze russe entrarono, senza avvertimenti, nell'area di controllo di Hezbollah, vicino alla frontiera libanese. I russi si sono ritirati il giorno successivo.

L'influenza sul campo all'interno del paese è anche distribuita e implementata in maniera irregolare, con conseguenze per il futuro. Le forze di Mosca hanno preso il controllo di aree economicamente strategiche (attraverso una base militare in Hemeimem vicina al porto di Tartus per il controllo del commercio economico e una a Palmira, al centro della Siria, per il controllo del gas e delle fonti di petrolio, in aggiunta alla grossa base militare ad Hama), e lavorano sulla ricomposizione e ricostruzione di un nucleo dell'Esercito Siriano (attraverso la creazione del 4° e del 5° Corpo).

Dall'altro lato, Tehran dipende principalmente su milizie fondamentaliste Shi'a (libanesi, irachene e afghane) e forze ausiliari paramilitari siriane (le Forze di Difesa Nazionale). Allo stesso tempo, questo non ha impedito all'Iran di aumentare il suo potere in alcune strutture del regime attraverso le reti che ha sviluppato sul territorio. Entrambi gli stati hanno vinto contratti importanti riguardo alle risorse nazionali siriane e ai piani di ricostruzione.

Tuttavia, queste divergenze generalmente non si traducono, almeno al momento in cui si scrive, in una profonda rivalità o competizione tra interessi in territorio siriano. Il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha infatti dichiarato all'inizio di luglio che l'Iran è una delle potenze chiave nella regione, e che sarebbe “assolutamente irrealistico” di aspettarsi che abbandoni i suoi interessi nel paese, mentre aggiungeva che i poteri regionali dovrebbero discutere delle reciproche rimostranze e negoziare un compromesso.

Il ministro degli Esteri russo ha anche ripetutamente detto che la loro presenza è ragionevole. Entrambi gli stati continuano a stressare la loro stretta cooperazione e i reciproci interessi in Siria. Più generalmente, la Russia e l'Iran hanno condiviso interessi in molti altri aspetti, ad esempio nella lotta contro gli jihadisti Sunni, nelle vie di transito in Eurasia, nella Transcaucasia e nell'Asia Centrale.

In aggiunta, gli iraniani sono ora profondamente incorporati nelle forze di sicurezza siriane ed hanno anche costruito una rete forte e estesa di milizie di islamisti fondamentalisti Shi'a pro-iraniane. Anche Hezbollah e altre milizie supportate dall'Iran stanno partecipando “sotto la copertura” dell'esercito del regime siriano nell'offensiva militare nella provincia di Dara iniziata a luglio 2018, evidenziando così i limiti delle politiche statunitensi e la speranza che Mosca possa allontanare dal paese l'Iran e i gruppi affini.

Ciò mette inoltre in discussione le richieste di Israele, che vuole le truppe iraniane lontane dai suoi confini. Alla fine di luglio 2018, l'ambasciatore russo a Tel Aviv di fatto ha dichiarato che la Russia non può costringere le forze iraniane a lasciare la Siria. Ugualmente, ha sostenuto che Mosca non può far nulla per impedire a Israele di colpire militarmente le forze iraniane in Siria. Questa dichiarazione arriva dopo che la Russia aveva offerto di tenere le forze iraniane almeno a 100 chilometri (60 miglia) di distanza dalle linee di coprifuoco sulle Alture del Golan. L'offerta era stata però respinta da Israele come insufficiente. Anche l'influenza iraniana nella società siriana si è espansa considerevolmente, in particolare con l'introduzione di istituzioni legate alla Repubblica Islamica.

Tutte queste condizioni rendono seriamente ardua la possibilità di spingere l'Iran fuori dalla Siria. Dal canto suo, il regime siriano non desidera al momento la dipartita dell'Iran e delle forze militari ed esso legate. In un'intervista con la televisione di stato iraniana del giugno 2018, Bashar al-Assad ha dichiarato che le dinamiche in evoluzione nel sud e nel nord della Siria non altereranno le relazioni “strategiche” tra Damasco e Tehran.

Assad sottolinea che il suo governo sarebbe disposto a permettere all'Iran di stabilire basi militari in territorio siriano, se necessario. La Siria è stata il principale alleato strategico dell'Iran nella regione da ormai molto tempo, un alleato essenziale per il rifornimento e l'approvvigionamento delle milizie di Hezbollah in Libano, il quale gioca un ruolo importante nel conseguimento della sicurezza strategica faccia a faccia Israele e Stati Uniti.

Poiché il regime di Assad ha protetto queste rotte di approvvigionamento, Tehran lo ha supportato militarmente, economicamente e politicamente. L'Iran inoltre ha visto la rivolta siriana fornire ai suoi rivali regionali, specialmente l'Arabia Saudita, l'opportunità di ridurre la posizione di un importante alleato e minare quindi al suo potere e la sua influenza nel Medio Oriente.

Per il regnante siriano, mantenere sia la Russia che l'Iran come stretti alleati è anche un modo per bilanciare queste forze l'una contro l'altra in particolari periodi di pressione, e garantire delle forme di autonomia per il proprio potere.

Conclusioni

Le classi popolari siriane hanno tremendamente sofferto a causa di distruzione e morte sin dal 2011, mentre le forze progressiste e democratiche all'interno dei movimenti popolari sono state violentemente represse dalle forze di regime da un lato, dagli jihadisti e dai movimenti fondamentalisti islamici dall'altro. La questione più importante oggi è la fine della guerra.

Questo non è in contraddizione con il riaffermare la nostra opposizione al regime di Assad, con il rifiuto della sua ri-legittimazione a livello internazionale – per non dimenticarsi i crimini di guerra, le decine di migliaia di prigionieri politici ancora torturati nelle carceri del regime, gli scomparsi, i rifugiati, gli sfollati interni, etc.

Un assegno in bianco dato ad Assad e ai suoi crimini sarebbe un ulteriore abbandono delle classi popolari siriane e della loro eroica resistenza, e porterebbe inevitabilmente ad incrementare il senso di impunità di tutti gli stati autoritari e despotici, nella regione come altrove, permettendogli in cambio di schiacciare le loro popolazioni se dovessero ribellarsi.

Tutti gli attori internazionali e regionali hanno anch'essi collaborato alla sofferenza delle classi popolari siriane, in particolare grazie al supporto dato al regime e/o alle varie forze reazionarie. Questo è il motivo per cui è importante continuare a denunciare tutti gli interventi militari esterni che si oppongono alle aspirazioni per un cambiamento democratico in Siria, che siano in supporto del regime (Russia, Iran, Hezbollah) o che si autoproclamino “amici del popolo siriano” (Arabia Saudita, Qatar e Turchia, Stati Uniti, etc.). Le classi popolari siriane che lottano per la libertà e la dignità non hanno trovato supporto nella loro lotta da parte di nessuno stato amico.

La regione è testimone di processi rivoluzionari a lungo termine, caratterizzati da alti – e bassi – livelli di mobilitazione a seconda del contesto. Nonostante ci siano alcuni periodi di sconfitta, è difficile dire quando questi processi termineranno. Questo è in particolare il caso della Siria, dove le condizioni che hanno permesso l'insorgenza delle rivolte sono ancora presenti, e il regime è molto lontano da trovare il modo di risolverle.

Queste condizioni, in ogni caso, non sono abbastanza per trasformarsi in opportunità politiche, in particolare dopo più di sette anni di una guerra distruttiva e assassina accompagnata da una fatica complessiva della popolazione siriana, di cui la maggioranza ora sta unicamente cercando di tornare alla stabilità.

Gli effetti della guerra e della sua distruzione molto probabilmente perdureranno ancora anni. Accanto a questa situazione, nessun organismo strutturato di opposizione era presente con una dimensione significativa e in seguito ha potuto offrire un progetto inclusivo e democratico attraente per ampi settori della società.

Il fallimento dei gruppi di opposizione in esilio e di quelli armati lascia un senso di forte frustrazione e amarezza nelle persone che hanno partecipato e/o simpatizzato con le rivolte. Dalla loro prospettiva, è urgente rafforzare gli sforzi in ogni parte del mondo, mirando a ricreare una genuina solidarietà internazionalista e progressista, denunciando tutte le potenze imperialiste internazionali e regionali, senza eccezioni.

La memoria e le esperienze politiche del processo rivoluzionario siriano devono essere usate ora per (ri)costruire resistenza e un'alternativa progressista, nella quale i tanti attivisti in esilio avranno un ruolo da svolgere. Il movimento di solidarietà internazionalista ha la responsabilità di supportare l'evoluzione di queste reti.

Noi dobbiamo ribadire gli obiettivi originali delle rivolte popolari siriane per la democrazia, la giustizia sociale e l'uguaglianza, contro ogni forma di razzismo e settarismo. Questa è l'unica via per rimpiazzare le politiche del regime di Assad di “dividi e conquista” in un'alternativa progressista basata su “unità e conquista”.

Note

[1] https://reliefweb.int/report/syrian-arab-republic/2018-humanitarian-need...
[2] https://reliefweb.int/report/syrian-arab-republic/syrian-arab-republic-d...
[3] https://www.al-monitor.com/pulse/originals/2018/06/turkey-syria-turkish-...
[4] http://syriadirect.org/news/us-backed-opposition-authorities-in-northern... push-for-de-centralization-agreement-with-damascus.sdf
[5] https://www.reuters.com/article/us-russia-iran-syria-iraq/iran-will-leav...

*Fonte articolo: http://internationalviewpoint.org/spip.php?article5679&utm_source=dlvr.i...
Traduzione a cura di Federica Maiucci.