Catalogna, 1-O: non un passo indietro sul diritto a decidere

Sun, 24/09/2017 - 13:57
di
Marta Autore

Sono passate poco più di due settimane da quando il parlamento catalano ha approvato la legge sul referendum del 1 ottobre (1-O), data in cui le catalane e i catalani sarebbero stati chiamati alle urne per esprimersi sul quesito "¿Voleu que Catalunya sigui un estat independent en forma de república?" (“Vuoi che la Catalogna sia uno stato indipendente in forma di repubblica?”). Un processo che ha una storia ben più lunga di due settimane e che rappresenta la crisi istituzionale più grande del cosiddetto "regime del ’78", svelando alcune contraddizioni di fondo del processo di transizione post-franquista. Una costituzione che riconosce “differenti nazionalità” con “diritto all’autonomia” nel quadro però di un’“indissolubile unità della nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli”.

Durante gli ultimi anni in più occasioni battaglie sovraniste e federaliste sono state portate avanti all’interno dei margini consentiti dalla carta costituzionale: ne sono esempio i tentativi di modifica dello statuto in Euskadi e in Catalogna, affossati in prima battuta nel parlamento spagnolo e infine in maniera definitiva dal tribunale costituzionale nel 2008 e 2010, nel caso catalano addirittura dopo un referendum popolare che ne aveva vista l’approvazione da parte del 72% dei votanti.
Le istanze di autodeterminazione portate avanti nel quadro costituzionale con strategie improntante sulla non rottura col contesto nazionale hanno inesorabilmente incontrato la chiusura autoritaria da parte del blocco nazionale (rappresentato dai due principali partiti nazionalisti spagnoli, il Partito socialista, Psoe, e il Partito popolare, Pp).
Questo ha prodotto nei fatti la cosiddetta rottura del patto costituzionale, e allo sviluppo in Catalogna di un processo indipendentista che ha visto vari bracci di ferro tra Generalitat e Governo, fatto molto spesso di momenti campali e di ripetute giornate decisive (il programmato referendum del 9 novembre 2014, poi declassato a consultazione non vincolante; le elezioni plebiscitarie del 2015) e che sembra arrivato adesso, con il referendum vincolante del 1-O, al cosiddetto “scontro tra treni” finale.

Un processo indipendentista catalano sicuramente contraddittorio, spinto da più parti e con interessi contrapposti, in parte egemonizzato dalla destra (certamente su un piano parlamentare), ma che sarebbe un errore considerare esclusivamente espressione della borghesia catalana.
Un’istanza di indipendenza sostenuta da un’ampia base popolare per la quale costituisce la prospettiva di uscita da una stato spagnolo che soprattutto negli ultimi anni ha visto un processo di ri-centralizzazione e autoritarismo volti a garantire grandi manovre di austerità, pagamento del debito e salvataggi bancari, che hanno portato alla riduzione drastica dell’autonomia finanziaria delle comunità autonome (le regioni, n.d.r.), mettendo in ginocchio i governi locali spesso costretti a tagliare servizi e spesa sociale. Così che il passaggio alla Repubblica catalana rappresenta per molti un orizzonte di miglioramento delle proprie condizioni o anche solo uno scenario più favorevole in cui portare avanti le proprie rivendicazioni sociali.
Un’indipendenza che da un lato potrebbe significare una redistribuzione di ricchezza tra la borghesia catalana e quella spagnola, e dall’altro potrebbe rappresentare anche un'apertura a processi redistributivi tra le classi catalane, se la mobilitazione dal basso e le istanze delle classi popolari riusciranno a incidere nel processo costituente. D’altra parte è proprio il momento referendario (nel caso di vittoria del SI) che aprirebbe il processo costituente della Repubblica catalana (soltanto dopo la dichiarazione della nascita della stessa!), invece di fare da culmine a un processo costituente precedente al voto, che avrebbe sostanziato il significato del passaggio alla Repubblica.

La profonda crisi istituzionale di cui stiamo leggendo è frutto di un conflitto puramente politico che il Governo Rajoy non vuole affrontare come tale, adottando la via giudiziaria e facendo un uso squisitamente politico del tribunale costituzionale e della procura, invece di cercare soluzioni concertate che permettano l'autodeterminazione di catalane e catalani all’interno del quadro costituzionale o attraverso la modifica di questo, come è avvenuto in tempi recenti in Quebec o Scozia.

Così l’escalation degli ultimi giorni – che (finalmente) viene riportata anche dalla stampa italiana – è solo l’ultimo pezzetto in ordine cronologico di questa prova di forza, arrogante e antidemocratica, di un governo statale non disposto a cedere di un millimetro di fronte alla rivendicazione del diritto a decidere della maggioranza dei catalani.

È impressionante ripercorrere i fatti che si sono susseguiti a partire dal 7 settembre, giorno dell’approvazione della legge sul referendum nel parlamento catalano: approvazione della legge sul referendum – immediata richiesta di Rajoy di intervento del parte del tribunale costituzionale – legge invalidata 24 ore dopo – approvazione della legge di transizione post-referendum da parte del parlamento catalano – richiesta di annullamento – annullamento – divieto ai mezzi di comunicazione di mandare in onda lo spot istituzionale di annuncio del referendum – intervento della Guardia Civil in tipografie sospettate di stampare schede elettorali – divieto di iniziative a sostegno del "diritto all'autodeterminazione" convocate in luoghi pubblici di varie città (Madrid, Gijòn, Vitoria, ecc.) – denuncia di membri della Generalitat (il governo catalano) – requisizione di manifesti – imposizione di restrizioni ai media catalani – minacce ai 700 sindaci che avevano dato disponibilità all’apertura dei seggi – minacce di sospendere il gettito di finanziamento statale alla regione.

Tutto questo in un clima quasi surreale, quasi come se questo atteso “scontro tra treni” avvenisse in un universo parallelo in cui sul piano istituzionale e mediatico si gioca uno scontro a fuoco, mentre nelle strade tutto segue con una discreta normalità, con qualche estelada in più appesa ai balconi. Effetto di un meccanismo di delega alla Generalitat che ha caratterizzato gran parte del processo indipendentista.
Perfino la Diada dell’11 settembre (la giornata nazionale della catalogna), per quanto di massa, era sembrata piuttosto rituale e “normale” in un contesto in cui l’autoritarismo del Governo aveva già confermato la volontà di non far celebrare il referendum a colpi di annullamento delle leggi del parlamento catalano.
Ma è negli ultimissimi giorni che questo clima di normalità si è finalmente rotto. La stretta autoritaria e repressiva dello Stato ha raggiunto un livello che ha fatto evocare a molti i peggiori tempi della dittatura fascista.

L’arresto di 13 membri della Generalitat, tra cui due stretti collaboratori del vicepresidente Junqueras, all’alba dello scorso martedì, con l’accusa di stornare illegalmente fondi pubblici e destinarli allo svolgimento del referendum; la perquisizione di diversi uffici pubblici (una ventina), alcuni dei quali appartenenti al Dipartimento di economia e finanze; la perquisizione della sede politica della Cup (Candidatura di Unità Popolare); il sequestro di 10 milioni di schede elettorali e materiale informativo destinati al referendum. Un’ulteriore accelerazione autoritaria, che rappresenta de facto l’applicazione dell’articolo 155 della costituzione, che consente al governo statale di sospendere gli statuti di autonomia delle regioni in caso di mancato compimento degli obblighi nei confronti dello Stato da parte di queste.

Ma la risposta della gente non si è fatta attendere più di qualche minuto, e di fronte agli uffici e alle sedi dove stavano avvenendo le perquisizioni si sono rapidamente concentrate prima centinaia, poi migliaia di manifestanti, in maniera pacifica ma determinata. Nel pomeriggio si contavano più di 20mila persone al concentramento di fronte al Dipartimento di economia e finanze, nel centro di Barcellona, al grido di “Voteremo”, “Senza paura”, “No Pasaran” e “Le strade saranno sempre nostre”. Parallelamente, in decine di altre città catalane (Sabadell, Girona, Reus, Tarragona) fino ai più piccoli paesi, manifestazioni di massa hanno riempito le strade, mostrando chiaramente come il popolo catalano sia disposto a difendere il proprio diritto a decidere, forse finalmente superando il meccanismo di delega che fin qui aveva caratterizzato il processo, rappresentandone uno dei più grandi limiti.

Manifestazioni contro la repressione, per la democrazia e per il diritto all’autodeterminazione sono state organizzate non solo in Catalogna, nel giro di poche ore, ma anche in molte altre città spagnole, con migliaia di persone che sono tornate a riempire Puerta del Sol e altre delle piazze principali di Valencia, Cadiz, Bilbao e altre decine di città.
Ma il segnale che qualcosa è cambiato negli ultimi giorni non viene soltanto dall’irrompere di una generica dimensione di piazza. La risposta alla stretta autoritaria ha preso anche forme più organizzate in seno alla classe lavoratrice: denunce da parte di gruppi di lavoratori e sindacati (ad esempio lavoratori delle reti televisive che denunciano la manipolazione delle informazioni e la non copertura delle grandi manifestazioni di questi giorni); veri atti di disobbedienza, come il rifiuto da parte degli estibadores (i portuali) di Barcellona e Tarragona, riuniti in assemblea, di servire le navi inviate dal Governo e destinate all’alloggiamento della Guardia per impedire la consulta dell’1-O; aule universitarie svuotate e concentrazioni di studenti in ogni ateneo per confluire in una manifestazione unitaria studentesca questa mattina. E mentre si scrive questo articolo, arriva la notizia dell’occupazione del rettorato dell’università di Barcellona, almeno fino al 1-O, con immagini di una partecipazione che “non si vedevano dal 15M”. E infine oggi l’annuncio di ciò che molti già invocavano nelle piazze di questi due giorni: la convocazione di uno sciopero generale, per ora dalla parte della Cgt, per il 3 ottobre, in difesa di democrazia, diritti civili e diritto all’autodeterminazione, attualmente in discussione in più ampie piattaforme intersindacali, culturali e sociali.

Manca una settimana al 1-O: Rajoy ha annunciato che invierà in Catalogna reparti di rinforzo della Guardia Civil per evitare a tutti i costi che il 1-O ci sia la votazione, mentre il Ministero degli interni ha assunto il controllo dei mossos (la polizia catalana); tutti i commissari referendari designati dalla Generalitat hanno ritirato la propria disponibilità, dopo essere stati denunciati di sedizione, con possibili pene fino ai 15 anni di reclusione e multe diarie da 12mila euro; in queste ore la Generalitat sta valutando un piano B per far svolgere la consultazione referendaria nonostante la repressione giudiziaria; ma soprattutto le piazze sono sempre più piene di catalane/i che non sono disposti a fare un passo indietro sul proprio diritto a decidere.

Si è detto spesso negli ultimi mesi che, nell’assenza totale di qualsiasi garanzia legale (cosa che era ampiamente prevista), la sfida sulla legittimità del referendum e di un eventuale esito indipendentista, si giocasse nei fatti sul dato di partecipazione alle urne.
Eppure adesso la risposta di massa, determinata e sempre più organizzata da parte della società catalana alla repressione dello Stato, con un protagonismo crescente di alcuni settori della classe lavoratrice e degli studenti, fanno pensare che si sia già arrivati a un punto di rottura dal quale sarà difficile tornare indietro, che il 1-O si voti o meno.
Ora più che mai è necessario mobilitarsi in solidarietà a chi in questi giorni resiste nelle strade per rivendicare il diritto all’autodeterminazione, a chi disobbedisce all’arrogante repressione di un Regime in crisi per difendere il voto dell'1-O e a chi lotta ogni giorno nei quartieri, nelle aule e nei luoghi di lavoro per costruire una Repubblica catalana libera, democratica e “de los de abajo”.