Podemos in Italia?

Tue, 17/02/2015 - 10:04
di
Giulio Calella e Danilo Corradi

Fare come Syriza. Anzi come Podemos. Si può? La vittoria di Tsipras e l’ascesa del movimento politico spagnolo produce uno scenario inedito in Europa, che non può non stimolare un dibattito profondo anche in Italia.

La crisi economica si sta trasformando in una crisi di consenso e di egemonia del capitalismo, e in particolare di quel liberismo finanziario e asimmetrico che protegge il capitale e mette in concorrenza tutto il resto, a partire dal lavoro. Una crisi che sta cambiando non poco il quadro politico europeo, anche se la Troika – priva di margini di manovra – va avanti come un treno nella speranza di battere gli avversari con un unico argomento: non c’è alternativa. Eppure le tranquille democrazie bipolari che abbiamo visto negli ultimi vent’anni, in cui l’alternarsi di Governo tra destra e sinistra non intaccava mai la continuità delle politiche liberiste, non reggono più così facilmente. Quasi ovunque emergono nuovi poli che crescono attraverso una radicale opposizione alle politiche dominanti, presunta o reale che sia. Se in Grecia ci entusiasma l’esplosione di Syriza e in Spagna quella di Podemos, in Gran Bretagna assistiamo al fenomeno Farage e in Francia a quello Le Pen, mentre in Italia abbiamo vissuto l’ascesa di Grillo e del suo movimento. Fenomeni diversi o opposti tra loro, ma tutti frutto della rabbia sociale per le condizioni materiali imposte dalla crisi e dalle politiche di austerity.

È la rabbia di chi aveva creduto alla promessa della fine della storia e delle ideologie, di un capitalismo tecnologico che, liberato da lacci e lacciuoli, avrebbe permesso a chiunque lo meritasse di poter migliorare le proprie condizioni di vita. Un neopositivismo spacciato come punto di vista neutro, che avrebbe reso superflua la politica, sostituita dalla scienza e della tecnica, capaci di dare risposte sociali, ma anche di risolvere le contraddizioni ambientali e di abbattere le gerarchie attraverso lo sviluppo della rete e dell’economia della conoscenza. Ciò che indigna oggi è il tradimento di questa promessa, ben fotografato dalla recente ricerca di Oxfam che mostra come dal 2009 al 2014, ovvero durante la crisi, l'1% più ricco del pianeta sia passato dal possedere il 44 al 48% della ricchezza mondiale, e arriverà nel 2016 a possederne il 50%. È la “fine della grande illusione” come avevamo scritto qualche anno fa. Le disuguaglianze crescono da decenni (come scrive anche Piketty nel suo recente libro), la guerra circonda la vecchia Europa, la crisi ambientale sembra inarrestabile, mentre la ricchezza si toglie la maschera del merito e assume sempre più il volto mafioso che ben conosciamo nel nostro paese. E proprio la fine di quell’illusione ha contribuito all’esplosione di movimenti come gli indignados in Spagna, gli Occupy negli Stati Uniti, i movimenti greci, ma anche l’onda studentesca italiana dal 2008 al 2010. I soggetti svegliati dalla “fine dell’illusione” hanno rivendicato nelle piazze quel “futuro” promesso e poi scippato. Merito, democrazia, giustizia sociale e ambientale sono stati i terreni dell’indignazione globale. Un’indignazione spuria che ha travolto la credibilità del sistema politico, le storiche fedeltà elettorali ai partiti, producendo un fortissimo aumento delle astensioni e comportamenti elettorali fluidi, con picchi e cali di singole liste tra un’elezione ed un’altra impensabili fino a qualche anno fa e successi repentini di liste appena nate, come Podemos in Spagna e, in Italia, il M5S.

È una radicalizzazione spesso sotterranea, a tratti confusa e allo stesso tempo ricca, molto diversa da quelle a cui eravamo abituati in passato. Che si scontra con l’inefficacia dei vecchi strumenti della politica e dell’organizzazione sociale, incapaci di fare i conti con la mutata composizione di classe. La fine del movimento operaio e della sua capacità di rappresentare un’alternativa è emersa in tutta la sua profondità. In assenza di alternative compiute, la radicalizzazione determina una domanda politica pragmatica che non si appassiona ai dibattiti ideologici, alle contrapposizioni tra destra e sinistra, ma chiede risposte immediate. E che, di fronte alla difficoltà dei movimenti di portare a casa vittorie concrete, ha fretta, e spesso chiede la possibilità immediata di governare.
Il problema è contro chi si abbatterà questa rabbia, se verrà incanalata dal "basso" contro "l’alto" o dal "basso" contro il "basso".
Viviamo in un tempo accelerato, e gli inediti Governi europei delle sinistre radicali – quello Greco e quello possibile nel prossimo futuro in Spagna – non possono sbagliare, sono costretti a radicalizzare le proprie posizioni dalla brutalità della crisi, a volte anche a prescindere dalle proprie volontà, o rischiano di essere anch’essi velocemente travolti, lasciando spazio ad alternative radicali di segno opposto.

In un tale contesto, non si può rimanere fermi. Proprio perché non ci sfuggono le contraddizioni presenti in Syriza e Podemos dobbiamo innanzitutto costruire, con l’autonomia dei movimenti, le mobilitazioni europee contro le politiche di austerity e la dittatura del debito. Altrimenti il solo versante politico non funzionerà e il rischio del compromesso al ribasso riemergerà dietro l’angolo. Ma servono anche nuovi esperimenti politici, che sappiano cogliere con urgenza lo spazio lasciato vuoto dalla crisi capitalistica.

Da più parti sentiamo dire indifferentemente “fare come Syriza” e “fare come Podemos”, ma le due esperienze sono in realtà non poco diverse. Syriza è il frutto di una classica ricomposizione politica a sinistra, avvenuta un quindicennio fa in un’altra fase politica, ma che a differenza di altre esperienze – come in Italia Rifondazione comunista o Izquierda Unida in Spagna – ha saputo rimanere all’opposizione dei Governi di Centrosinistra, puntando non solo sul rapporto con i movimenti ma anche sulla ricostruzione della propria stessa identità politica sulla base della propria attività sociale, a partire dalle esperienze di mutuo soccorso per rispondere agli effetti della crisi. Podemos è invece in tutto e per tutto un soggetto figlio di questi tempi, nato sulla scia del movimento degli indignados, che esplicita il proprio disinteresse ad “unire la sinistra” ridefinendo pragmaticamente la propria identità, utilizzando lo slogan “né di destra né di sinistra” come premessa per ridare una dignità sostanziale ad una politica di trasformazione sociale, rompendo con la sussunzione del concetto di “sinistra” all’interno della logica liberista bipolare. Ed è questo il processo a cui ci interessa guardare, perché più adatto ad andare oltre gli irrecuperabili disastri prodotti dalla sinistra radicale italiana nell’ultimo decennio.

Che sia il modello più adatto al nostro paese lo dimostra in fondo proprio il fenomeno Grillo, che a suo modo ha occupato finora questo spazio politico. Anche il grillino “né di destra né di sinistra” alludeva alle destra e sinistra concretamente esistenti, che governano in Italia e in Europa l’austerity, e quindi alla necessità di andare “oltre” per ricostruire. L’insistenza sulla partecipazione dei cittadini alla politica rispondeva ad una richiesta di democrazia, e a loro modo hanno provato anche a rappresentare i movimenti degli ultimi anni – basti ricordare le candidature di Gino Strada e Stefano Rodotà alla Presidenza della Repubblica nel 2013. Oggi però le contraddizioni grilline sembrano venire al pettine: la gestione verticistica e aziendale stride sempre più con la supposta partecipazione democratica, l’opposizione sembra poter esistere solo tra i banchi parlamentari e dimostra la sua inefficacia, perfino le ultime candidature per il Quirinale son finite per essere tutte interne a giochi politicisti, con le candidature di Prodi e Bersani (come se rompere il Patto del Nazareno assumesse una qualche importanza, che invece nella sostanza delle politiche sociali non ha). Inoltre Grillo propone, oggi, di unire tutti i cosiddetti “euroscettici”, da Tsipras fino a Farage – e presumibilmente alla Le Pen – portando il suo essere “né di destra né di sinistra” fino alle estreme conseguenze: sommare le mele con le pere, chi fa la lotta del “basso” contro “l’alto” e chi invece fa quella del “basso” contro il “basso”.

Ma come aggredire allora questo spazio pian piano lasciato libero dalla stessa crisi grillina?

Qualcuno ha pensato fosse compito di Sel e Civati, che durante l’Human factor sembravano in procinto di lanciare lo Tsipras (o Iglesias) italiano, che però qui rischia di avere il volto dell’ex sindaco-sceriffo di Bologna Sergio Cofferati. In realtà è bastata la candidatura al Quirinale del grigio democristiano Mattarella per dare nuove speranze di unità della sinistra (sinistra??) e rimandare tutto. Nel frattempo ciò che resta del Prc e della lista L’altra Europa attende le eterne indecisioni di rottura con il Pd di Sel e Civati per capire cosa lanciare dopo gli ultimi fallimenti ellettorali.

Eppure la lezione della Spagna è chiara: «Di “unire la sinistra” non me ne importa nulla», ripete il leader di Podemos Pablo Iglesias. Tantomeno dovrebbe suscitare un qualche interesse dividerla. Per occupare quello spazio serve una rigenerazione politica, una nuova narrazione capace di produrre una nuova identità.

Più interessante ci sembra quanto sostenuto recentemente da Stefano Rodotà: «Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre. […] cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente. Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency, movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso».

Per fare una “Podemos” in Italia va chiusa un’epoca. Bisogna rigenerare un’idea alternativa proponendo al “sociale” un’avventura direttamente “politica”, con proposte e soggetti credibili politicamente perché provenienti da percorsi utili socialmente. Le proposte di Landini e Rodotà sembrano alludere a questo, ma l’operazione per essere utile dovrebbe essere radicale fino in fondo. Radicale nel metodo prima ancora che nei contenuti. L’autonomia dalle “zavorre” e da personaggi compromessi con i Governi – a livello nazionale e locale – degli ultimi vent’anni dev’essere totale, pena la perdita di ogni credibilità. E la selezione degli interlocutori di una necessaria coalizione sociale è perdente se si limita a quelli più compatibili con il precedente quadro della sinistra radicale. Anzi sono le esperienze incompatibili con il quadro precedente, coloro che in questi anni hanno saputo coinvolgere giovani e precari e sperimentato forme radicali di conflittualità e mutuo soccorso a dover fare da apripista. Ma queste stesse esperienze devono avere la capacità e il coraggio di porsi il problema a questo livello e passare all’offensiva per cogliere questo spazio politico. Altrimenti anche questo dibattito produrrà risultati simili agli ultimi appiccicaticci e tristi rassemblement della sinistra esistente, e la loro identificazione con Podemos e Tsipras non potrà che danneggiare quelle stesse esperienze.

Ma se vogliamo uno scenario diverso e non limitarci alle carovane e alla solidarietà, dobbiamo metterci in gioco, negli indispensabili movimenti europei contro l’austerity, ma anche alla ricerca di un nuovo inizio. Dal basso contro l’alto.