Mutualismo conflittuale e movimento operaio

Thu, 26/04/2018 - 13:06
di
Salvatore Cannavò*

Pubblichiamo la relazione di Salvatore Cannavò esposta al convegno “Mutualismo. Pratiche, conflitto, autogestione” promosso da FuoriMercato Rete Nazionale, Edizioni Alegre, Rivista "Gli Asini", Scup Sportculturapopolare, Communia, tenutosi a Roma lo scorso 7 e 8 aprile.

A – Tre Premesse:

1. L’esaurimento del ciclo storico del movimento operaio.
Partito e sindacato hanno rappresentato i due corni distinti di una fiamma che ha crepitato per circa un secolo e che, spesso facendosi Stato o comunque dipendendo dallo Stato e integrandosi in esso, ha determinato una specifica fisionomia del movimento operaio.
Quella costruzione non esiste da tempo il che non significa che non esistano sindacati o lotte sindacali, ma che non esiste una costruzione politica, un insieme sinergico e quindi una soggettività della trasformazione che, almeno fino alla fine degli anni 60, era “LA” soggettività.

2. Necessità di ragionare in termini di ricostruzione dei due elementi portanti: la solidarietà materiale e un orizzonte ideale. La prima è talmente divelta che un partito “di sinistra” come il Pd italiano e un altro che incarna la sinistra del futuro, cioè Macron, sono arrivati al punto da coniare il reato di solidarietà, colpendo coloro che aiutano i migranti a non morire.

3. Recupero di piste di ricerca negli albori movimento operaio, un ritorno alle origini non come mito originario e purificatore, nemmeno come ricorso storico o teoria di una storia a cicli. La storia va avanti e deve conservare la memoria di tutto il passato, compresi gli errori.

L’idea di questa esposizione è che nelle storie dell’origine, nei canoni fondativi ci sia un Codice sorgente di percorsi utili alla teoria e all’azione politica e sociale. Del resto questo codice ha permeato gran parte della storia del movimento operaio del Novecento: case del popolo, solidarietà di classe, il “paese nel paese” di cui parlava Pasolini, la comunità popolare o operaia in certe zone ad alta concentrazione proletaria (si pensi ai libri di Alberto Prunetti che non a caso percorre il filo della narrativa working class).

A un certo punto però quel codice si è perso, è stato trasferito in un'altra dimensione, quella statuale tramite i due strumenti del partito e del sindacato. Non percorriamo ora un’analisi di questo tipo, l’osservazione serve solo a sottolineare che un filo rosso ha percorso gli ultimi 150 anni ma anche che diverse vicende lo hanno strappato.

B - Un po’ di storia

Il movimento cooperativo propriamente organizzato, nato dalle intuizioni del socialista utopico Robert Owen, ha cominciato i suoi passi in Inghilterra, a Manchester dove nel 1844 nacque l’esperimento dei “Probi pionieri di Rochdale”. La cooperativa doveva occuparsi del commercio di generi alimentari di prima necessità. Dal rifiuto del modello tradizionale e dall’adozione di nuove regole organizzative nacquero i Rochdale principles basati su valori di mutualismo e aiuto reciproco, democrazia, auto-responsabilità, uguaglianza, equità. L’inizio, dunque, si carica già di una doppia valenza: una necessità di solidarietà concreta e una utopia. Come scrive Karl Marx «nelle utopie di un Fourier o di un Owen si leggono i presentimenti e l’espressione fantastica di un mondo nuovo».

Tra il 1840 e a fine del secolo il mutualismo si sviluppa in Europa, soprattutto in Italia, Francia e Inghilterra. Nel 1869, a Londra si terrà il primo congresso nazionale delle cooperative inglesi cui partecipano però 18 delegati di altri paesi (sui 112 totali) provenienti da Germania, Francia, Italia, Danimarca, Svezia, Svizzera e Grecia.
Questa crescita spingerà così Marx, nell’Indirizzo inaugurale all’Associazione internazionale dei lavoratori, a sostenere che “tra i due fattori positivi successivi alla sconfitta del 1848 ci sono la legge sulla giornata di lavoro a dieci ore e il movimento cooperativo” e “specialmente, le manifatture cooperative erette attraverso gli sforzi spontanei di alcuni uomini audaci”.

Per dare il senso dello sviluppo in Italia:

Sui dati raccolti dalla Statistica del Regno d’Italia, si contano su tutto il territorio:
- 443 società nel 1862;
- 1447 nel 1873;
- 2091 nel 1878;
- 4896 nel 1885.

Si trattava di associazioni che organizzavano attorno alla caratteristica della “fraternità” e dell’aiuto solidale fornendo aiuto e sostegno economico al socio in malattia, istruzione ed educazioni ai figli, inserimento nel mondo del lavoro, fino alla creazione di un credito operaio.

Le associazioni erano anche occasioni di vita sociale, luoghi di incontro e di relazioni fuori dalla vita assillante della fabbrica o dei campi. E quindi sedi di discussione o di confronti di problemi comuni, occasioni di legami che venivano cuciti per la prima volta e che, come vedremo, permetteranno un primo passaggio molto importante, quello dalla solidarietà alla “resistenza”.

Come scrive Maria Grazia Meriggi “il mutualismo è stato l’organismo a cavallo tra il movimento operaio e la filantropia” e non è un caso che nell’indirizzo inaugurale Marx si scagli contro quest’ultima. Lo sviluppo industriale di fine secolo, infatti, pone una nuova “questione operaia” a cui le classi dirigenti non sanno come rispondere se non con una repressione durissima ma che alla lunga non è sostenibile. E così si produce un’apertura nei confronti del mutualismo visto come “un lenitivo delle varie sofferenze, dei disagi provocati da salari da fame o da malattie prive di alcun rimedio”.
In questa crescita si determinano gli scontri, fino alla vera frattura del 1885, tra la componente più moderata, mazziniana, operante in termini di assistenza ai bisognosi e una rete di società che guarda in larga parte alla Prima internazionale, incubando la nascita dei partiti operai e socialisti.

Si verifica quindi una polarizzazione tra società di mutuo soccorso, e cooperative, funzionali al mantenimento del capitalismo nascente e società, e cooperative, conflittuali. Questa dicotomia farà esplodere contraddizioni verso la fine del secolo quando la questione operaia sarà ancora più dirompente. E con essa anche la crescita delle stesse società di mutuo soccorso.

Nel saluto di Marx si intravede già la prima polemica tra il mutualismo filantropico e quello che si incamminerà verso il movimento socialista.
La posizione di Marx è chiara: per favorire il lavoro cooperativo sono indispensabili “cambiamenti sociali generali, trasformazioni delle condizioni generali della società, realizzabili soltanto con l’impiego delle forze organizzate della società, cioè del potere governativo strappato dalle mani dei capitalisti e dei proprietari fondiari e posto nelle mani dei produttori”.

Lo scontro si tradurrà poi nello scontro più generale interno all’Internazionale, a fratture storiche che si ripercuoteranno nel Novecento e che oggi dovremmo invece considerare azzerate.
(Se c’è un lavoro da fare va fatto verificando tutte le ipotesi e prendendo il meglio da ognuna di essere, mescolando le appartenenze e costruendo insieme nuove identità)

La frattura con i mazziniani, in ogni caso, spinge le società operaie orientate a una solidarietà di classe a formare i primi partiti.

Esperienza di particolare interesse è il Partito operaio, da cui Pino Ferraris, nel suo fondamentale “Ieri e domani”, estrae la categoria di “Partito sociale”: un progetto di associazionismo operaio che “sviluppava un processo di auto-organizzazione operaia che rompeva con l’interclassismo mazziniano e sottraeva i lavoratori alla strumentalizzazione elettorale dei radicali e democratici "borghesi".

In particolare quel partito riusciva a superare anzitempo quella che sarà una rigida suddivisione imposta al movimento operaio, tra “politico” e “sociale”: quel partito, sociale, riesce a porsi compiti politici senza nessun problema. La categoria di “partito sociale” credo sia superata oggi, anche perché i partiti sono riusciti a rendersi incompatibili a qualsiasi mutazione del proprio ruolo. Quelle intuizioni però sono utili.

Ancora più interessante, per Ferraris, e anche per me, è il Partito operaio Belga profondamente connesso alle esperienze mutualistiche, in particolare alle cooperative per il pane che svolgono un ruolo importantissimo nel corso dello sciopero dei minatori del Borinage, riforniti di 30 tonnellate di pane negli anni 80 dell’800. E’ in questa multiformità e in questa capacità di coniugare solidarietà positiva e solidarietà negativa, quindi mutualismo e resistenza, costruzione di legami sociali e progettazione del futuro, ma anche lotte contro il capitalismo sfrenato che nasce quel sindacalismo a insediamento multiplo, categoria interessante anche per l’oggi.

Anche perché è l’antesignana del “Mutualismo conflittuale”: non solo lenitivo delle sofferenze provocate dal capitalismo ma anche mutualismo che si batte per allargare diritti, condizioni di vita e di benessere, relazioni umane solidali, rapporti uomo-donna sottratti alla violenza.

Proprio nel momento in cui si sposa alla resistenza il mutualismo abbandona le sue radici “migliorative” di origine borghese e repubblicana, o filantropiche, e si apre alla solidarietà di classe. Lo sciopero dei tessili biellesi del 1878, ricorda Ferraris, si meritò un’inchiesta parlamentare e la responsabile dei “tumulti” fu individuata dal governo di allora nella Società operaia di Mutuo soccorso dei tessitori di Crocemosso che per questo motivo fu sciolta. Nel 1831 a Lione all’origine della sciopero dei tessitori che rivendicano un aumento delle tariffe si trovava la Societé du Devoir mutuel.
Questa politicità dell’associazionismo operaio è dimostrata dal fatto che è stato quest’ultimo a formare i primi partiti, come si evince dal processo di formazione del Partito socialista; sono le società operaie che organizzano i primi scioperi coniugando la solidarietà positiva, fatta di aiuto “fraterno”, e la solidarietà negativa, contro la ferocia del capitalismo sorgente. E quindi le prime lotte, vertenze, i primi disordini.

Sul finire dell’800 nel movimento operaio prevale però quello che è stato definito il modello tedesco: la strada per il socialismo imbocca la rotta elettorale, soprattutto dopo la vittoria del Partito socialdemocratico tedesco nel 1890 e la dimensione “politica-politica” si separa da quella sociale che viene affidata innanzitutto al sindacato e poi, in forma più ancellare, alle cooperative, alle mutue, relegate a un ruolo di secondo piano. La coppia mutualismo/resistenza si trasforma nella coppia partito/sindacato con una rigida compartimentazione dei ruoli e con l’integrazione del partito come si è storicamente affermato nello Stato.

Come detto non è intenzione di questo intervento ripercorrere le vicende del Novecento, dovremmo fare un altro convegno se ci interessa. Quello che vale la pena sottolineare è che non stiamo facendo un esercizio di storia, ma cerchiamo di cogliere indicazioni utilizzabili anche oggi.

Cosa è interessante allora di queste vicende, e qual è il Codice sorgente che ci interessa preservare?
Quel codice credo che sia oggi generatore di quattro programmi che vanno ovviamente sviluppati.

1) Il primo è la funzione della solidarietà. Stefano Rodotà coglie molto bene come dopo il 1848 la terza parola della Rivoluzione francese, Fraternità, si tramuti nella consapevolezza degli operai in Solidarietà, elemento “costitutivo” della Repubblica e della struttura costituzionale più moderna. “La solidarietà – scrive Rodotà nel libro Solidarietà, un’utopia necessaria - nasce come concetto strutturato (discours construit), come ideologia, alla fine del XIX secolo: essa implica allora una nuova rappresentazione del legame tra sociale e politico (corsivo nostro), che porta a una profonda trasformazione dei modi di gestione del sociale e delle forme di intervento pubblico. Il solidarismo è quindi il mezzo per radicare la Repubblica dotandola di una nuova legittimità.

Nel concetto di solidarietà, in quella coppia mutualismo/resistenza, che traduciamo oggi in mutualismo conflittuale, c’è un elemento vitale di un mutuo soccorso come forma alta di solidarietà in grado di lasciare sul terreno piccoli accumuli di coscienza per espandere la solidarietà di classe.
La dialettica tra “solidarietà contro” e “solidarietà per” si carica quindi non solo di una strumentalità relativa all’azione necessaria: esco dalla cooperativa per conquistare un diritto sociale o per solidarizzare con qualcun@ vittima di un sopruso. Costruisce una dimensione multipla e definisce più compiutamente il mutualismo come pratica sociale basata su una identità politica complessiva.

2) Un terreno denso di potenzialità quindi è quello del Sindacalismo a insediamento multiplo. Con questa definizione si intende l’attività che coniuga la mutualità, che risponde a bisogni essenziali della classe operaia dell’epoca, con la resistenza e la lotta per strappare conquiste e diritti. Scrive Ferraris: “Il reciproco aiuto per servizi di tipo mutualistico diventa momento di costruzione della solidarietà e della coesione necessaria a esprimere la forza della rivendicazione sindacale”. Le tonnellate di pane delle Case del popolo ai minatori in sciopero.

Il mutualismo conflittuale è la categoria che può aderire al concetto di sindacalismo a insediamento multiplo. Una cooperativa in grado di recuperare una fabbrica, un terra o semplicemente del lavoro che si lega a una attività associativa di difesa e presidio di diritti; il sindacato come associazione di lavoratori e lavoratrici sul posto di lavoro in grado di tenere il filo della resistenza; l’assistenza legale, mutualistica; l’assistenza sanitaria, anche finanziaria con moderne banche di mutuo soccorso; la banca del tempo per sostenere collettivamente il peso della riproduzione sociale, da mettere in connessione, coordinando il lavoro di molti; la piccola cooperativa sostenibile in grado di creare lavoro e di rilanciare una nuova costituzione economica; moderne camere dei lavori in cui far dialogare tutto questo; il mutualismo femminista.

L’insediamento multiplo, tra l’altro, nella sua intenzione di esplorare forme diverse di intervento permette, nel caso fosse recepito da reti, strutture e movimenti, di adottare forme di coordinamento a rete senza per questo dover essere integrato in una forma organica come erano il partito operaio italiano o belga. Quindi non nella forma, pure indicata a suo tempo, meritoriamente, del “partito sociale” che però non si è sviluppato perché proposto a un partito nettamente istituzionale.

Adotta una lotta
Sull’esempio dei wobblies americani, l’associazione statunitense Jobs with justice ha rilanciato negli anni 90 la parola d’ordine “Adotta una lotta”: convergere in molti e tutti assieme là dove c’era da rimediare a un torto, un diritto spezzato, un licenziamento ingiusto. Costruire esemplarità attorno a una vertenza mettendo in gioco un dispositivo di strumenti plurali, non per forza sovrapposti. L’iniziativa può giovarsi del metodo dell’esperienza esemplare, una singola azione che acquisti una valenza generale, riconoscibile ed, eventualmente, replicabile. Ma può vivere anche nella pratica diffusa dello sciopero, a cominciare da quello, inedito e denso di implicazioni, dello sciopero femminista dell’8 marzo, giornata in cui il mutualismo conflittuale può trovare lo spazio comune che serve.

3) Il fare da sé, l’agire da sé.

Attorno alla solidarietà come “discorso costitutivo” del sentimento repubblicano, si costruisce un processo di soggettivazione, ci si riconosce mutualmente solidali e quindi uniti e unite. E si accumulano percorsi di critica dell’esistente e progetti di trasformazione della realtà.
La coscienza può svilupparsi nelle azioni di resistenza, in quella “solidarietà negativa” che è così consustanziale alla vertenza. Ma si arricchisce di un elemento propositivo e di una dimensione utopica se agisce motivata dalla solidarietà positiva, quella che nella libera associazione trova il suo compimento. In questa dialettica negativo-positivo, resistenza-mutualismo, si disegnano gli spazi per l’inserimento di un elemento nevralgico: il pensiero, l’intendimento della realtà e delle sue contraddizioni, la delineazione di una società migliore. Senza pensiero, cultura, intelligenza politica, il mutualismo e la resistenza ripiegano sull’esistente e si accartocciano. Un pensiero figlio della composizione materiale delle esperienze in divenire, che si forma nello studio e nella condivisione dei saperi, fianco a fianco alle esperienze concrete. Non è prerogativa separata di un partito di illuminati.
Il “farsi società” ha bisogno di condensazioni del pensiero. Le associazioni mutualistiche del XXI secolo hanno bisogno di costruire i propri centri studi, le proprie biblioteche, i propri corsi seminariali, perché solo in questo modo l’esperienza mutualistica e il sindacato a insediamento multiplo possono contribuire alla costruzione di una coscienza collettiva adeguata alle sfide per la trasformazione sociale. La dimensioni sociale e quella politica stanno quindi insieme in strumenti che pensano mentre fanno e fanno ciò che pensano

Ovviamente la solidarietà e il fare da sé, il non agire attraverso lo Stato, portano il rischio di sostituirsi allo Stato, cioè al Welfare, quindi di finire in pasto alla sussidiarietà. È questa la concezione che vige in Europa e che il Parlamento ha codificato in una apposita deliberazione. Qui il mutualismo conflittuale deve dare la prova di sé come strumento che allarga e codifica diritti: se c’è un presidio sanitario, questo deve servire a strutturare un intervento gratuito e garantito a tutti e tutte; lo strumento degli usi civici va in questa direzione. Ma per risolvere questo problema occorre codificare una nuova “costituzione sociale”, una nuova gamma di diritti e di garanzie di soddisfazione dei bisogni.

4) Da qui discende la quarta conseguenza, il mutualismo e in particolare la cooperazione, come pratica effettiva di autogestione, partecipazione diretta, rappresentano un viatico formidabile, anche se difficile, a forme di Autogoverno.

Credo che una necessità, cui accenno soltanto perché è molto densa, e ha animato una discussione profonda per oltre un secolo, sia quella di codificare diritti, strappare quello che a fine Ottocento è stato definito un “diritto proletario” e una “costituzione sociale” come viatico per una società alternativa.

Il mutualismo ha anche questa funzione, rivendica già forme più avanzate di democrazia, contro la crisi strisciante della democrazia liberale che è evidente in maniera lampante.

Serve una democrazia fondata sull'autogoverno con tutto quello che comporta: partecipazione democratica effettiva, revocabilità dei delegati, capacità di conciliare democrazia diretta e democrazia delegata, autogestione e forme di pianificazione democratica.
Problemi immensi lasciati irrisolti dal Novecento che pure ha fatto le sue prove generali su ognuno di essi: la Rivoluzione russa, i Consigli operai in Italia, la guerra di Spagna, l’autogestione jugoslava, la rivolta ungherese, Solidarnosc, lo zapatismo, il socialismo del XXI secolo con tutte le sue contraddizioni.

E non a caso, al fondo di ogni esperienza, guardando bene in controluce, si trovano un’intuizione che nasce anch’essa nella seconda metà dell’Ottocento trovando il suo codice sorgente nell’esperienza della Comune e da cui discende una parola d’ordine che non ha smesso di generare forza: “L’emancipazione dei lavoratori è opera dei lavoratori stessi”. Oggi il termine lavoratori deve subire la torsione semantica che la pluralità delle soggettività in cerca di emancipazione chiede, ma il senso resta quello.

Quella esperienza è stata sconfitta e lo sono state tutte quelle che sono venute dopo e che ho sintetizzato poc’anzi.
Ma recuperando tutto intero il pessimismo della ragione di Walter Benjamin, esiste “una solidarietà anche tra le generazioni passate e quelle future”, “i vinti sono stati attesi sulla terra” e quindi attendono un risarcimento.

Il fatto che abbiamo perso non significa che loro non avessero ragione.

Il codice sorgente del mutualismo è lì anche per ricordarci che i passi quotidiani che facciamo si dirigono verso una utopia possibile e che abbiamo materia per creare l’algoritmo che serve a progettare la trasformazione sociale.

*Fonte articolo: http://www.fuorimercato.com/205-mutualismo-conflittuale-e-movimento-oper...