La resistenza non si può imbalsamare

Wed, 22/04/2015 - 16:15

Pubblichiamo questa "vecchia" lettera, risale al 1968, di Claudio Pavone su "I giovani e la Resistenza". Lo facciamo in occasione di un 70esimo della Liberazione che non va oltre il carattere celebrativo, a volte commemorativo ma entrambi conditi da un'insopportabile retorica. La lettera fu scritta nel momento dell'esplosione delle lotte studentesche e della ricerca di altri modi di concepire la lotta politica e di classe, non ingabbiati dentro l'ideologia dell'apparato del Partito Comunista né nella retorica di un'unità nazionale data a priori. La Resistenza si concluse con un compromesso e non certo con una "Repubblica nata dalla Resistenza". Basti guardare alla "continuità" che si è data tra l'apparato statale di epoca fascista e quello post-resistenziale dal punto di vista dell'organizzazione, delle leggi, della magistratura, della polizia. La lettera di Pavone ha delle parti datate, che risentono del periodo in cui è stata scritta, ma è anche attraversata da una riflessione molto attuale: la storia e la memoria non si possono imbalsamare, non sono le ripetizioni di un racconto, la riproduzione di miti e comportamenti del passato. La storia e la memoria si guardano con gli occhi del presente e si declinano al futuro. (fm)

I giovani e la resistenza*
Di Claudio Pavone

Caro direttore,

alcuni gruppi giovanili fra i più impegnati nel movimento studentesco hanno mosso alla Resistenza critiche accolte da molti ex resistenti con fastidio o addirittura con scandalo. Come ex resistente vorrei esporre al riguardo qualche breve considerazione.

La Resistenza si concluse con un compromesso. Indagare la cause di questa soluzione è compito della storiografia. Elevare il compromesso a valore è stato compito della agiografia e della utilizzazione della Resistenza come puntello dell'attuale assetto politico-sociale. Da sinistra molte volte si è protestato contro la imbalsamazione della Resistenza; ma le proteste sono da considerare inutili finché non si riscompone il risultato compromissorio dei suoi fattori reali. Gridare contro le destre che, con le discriminazioni a sinistra, attentano all'unità della Resistenza è vano finché le sinistre accettano acriticamente quella unità come fondamento di ogni proprio giudizio.

In questa situazione è accaduto che i giovani abbiano cominciato a guardare con qualche sospetto a una Resistenza dalla quale tutti si affannano ad affermare che è scaturita l'Italia in cui oggi viviamo, che è l'Italia contro la quale si ribellano i giovani protagonisti dei movimenti di questi ultimi mesi. I giovani hanno cioè intuito che la resistenza è venuta assumendo una fisionomia conservatrice, conservatrice ovviamente non dell'Italia fascista, ma dell'Italia postfascista nella figurazione attuale.

Non intendo qui fare un discorso di generazioni; mi limito a constatare un risultato politico-culturale. Al quale si risponde non mostrandosi impermalositi contro chi ha parlato male di Garibaldi, ma riaprendo un discorso che è stato troppo a lungo eluso e soffocato. E' necessario cioè analizzare, in rapporto alla situazione in cui agivano, tutte le forze operanti in Italia fra il 1943 e il 1945, qualificarle per quello che erano in ogni loro aspetto e sfumatura, restituire così a ciascuna la sua fisionomia anche contraddittoria e la sua eredità. Soltanto così la Resistenza sarà ricondotta alle sue dimensioni reali e drammatiche e potrà essere guardata con interesse dai giovani. Senza piangere sulla Resistenza tradita potrebbero in tal modo essere riportate alla luce quelle istanze genuinamente rivoluzionarie che erano in vario modo presenti nella Resistenza e si potrebbe esaminare se e come sia lecito ricollegare ad esse i fermenti più avanzati di oggi. (Può darsi che i giovani respingano queste discendenze e che il richiamo diretto e politico alla Resistenza, quale che sia il modo di presentarla, non sia sentito da loro come stimolo: ma questo sarebbe un altro discorso da affrontare comunque da parte dei più anziani senza complessi di frustrazione e penserebbero poi gli storici a discutere sul rapporto fra Resistenza e rivoluzione del futuro).

Quanto agli ex resistenti che si sono sentiti dare del fascista, comprendo bene come molti che avvertivano di non meritare l'accusa si siano offesi. Ma vorrei invitarli a riflettere su due punti.

Innanzi tutto non è soddisfazione da poco, per chi ha combattuto il fascismo, constatare che ancor oggi l'insulto più sanguinoso che sia possibile pronunziare è quello di fascista. E' una qualifica che si è dilatata ben oltre coloro che indossarono la camicia nera e che perciò viene usata con riferimento non soltanto al passato, ma a un oggi in cui il fascismo si presenta in forme nuove. E vengo così al secondo punto. Può essere spiacevole constatarlo, ma anche uomini che hanno partecipato alla Resistenza, anche su posizioni di sinistra, possono oggi comportarsi, di fatto si comportano, da fascisti, pur continuando volentieri a parlare di "eredità della Resistenza", di "lezione della Resistenza" ecc. : non c'è provvidenza divina che offra al riguardo garanzie sicure. Se dunque i giovani vogliono distruggere la Resistenza come alibi, fanno benissimo.

* In "Resistenza, Giustizia e Libertà", XXII, 7, 1968