La Francia di fronte al disastro

Fri, 11/12/2015 - 15:44
di
Stathis Kouvelakis*

Inevitabilmente, l'immagine di una mappa dell'esagono che si “annerisce” in base alla progressione del voto al FN fa sorgere la questione se, come è stato per l'Italia o la Germania tra le due guerre, la Francia non sia alla vigilia di un ribaltamento verso una forma di "stato di eccezione", in altre parole verso il fascismo. Tanto più che in quei paesi la messa in opera di un tale stato è iniziata con una presa del potere attraverso le elezioni e che in materia di "stato di eccezione" il cammino sembra già intrapreso con l'introduzione dello "stato di emergenza" in seguito agli attentati del 13 novembre.

Il fascismo come ribellione deviata

Un simile confronto non è tuttavia corretto. La Francia del 2015 non è né l'Italia del 1920 né la Germania di Weimar: l'orizzonte non è quello di una guerra mondiale, il sistema parlamentare non è sul punto di crollare, l 'estrema destra è essenzialmente una macchina elettorale, non una milizia armata, le organizzazioni dei lavoratori sono talmente fragili che la loro distruzione non è in alcun modo necessaria per la sopravvivenza della dominazione borghese.

Allo stesso tempo mancano sia la condizione di una crisi generale dello Stato che quella di un competizione militare inter-imperialista che sono alla base della "ascesa del fascismo", come fu analizzata da Nicos Poulantzas nel suo classico “Fascismo e dittatura” (1970). Anche se il FN arrivasse al potere per la “via elettorale", quella che seguirà non sarà una "dittatura fascista", quanto un forte irrigidimento dei processi già in atto di chiusura autoritaria dello Stato e dei meccanismi di esclusione razziali – che potrebbero assumere una forma simile ad uno stato di apartheid, una separazione istituzionale tra gruppi essenzialmente di natura nazionale, totalmente endogeni alla società francese ma che costituiscono l'obiettivo di potenti meccanismi di discriminazione.

Detto in altro modo: il FN è portatore di un progetto politico del tutto coerente, che consiste nella creazione di un "blocco sociale" tenuto insieme da un consenso autoritario e razzista che mira a risolvere le contraddizioni sociali, in particolare attraverso il “declassamento” di settori crescenti della società francese, attraverso l'istituzione di un regime di segregazione razziale.

C'è però qualcosa che avvicina la dinamica del FN con quella del fascismo tra le due guerre e che va oltre le origini storiche di questo partito o le relazioni ideologiche tra queste correnti politiche: si tratta della capacità di queste forze di presentarsi come forze "anti-sistema" in grado di articolare una rabbia popolare multiforme cristallizzandola e indirizzandola verso l'obiettivo di un "nemico interno".
Certamente invece manca al FN il progetto imperialista/espansionista dei fascismi storici: in questo senso la sua dinamica è “difensiva”, è il prodotto dell'era del capitalismo mondializzato non quella degli imperialismi in lotta per la spartizione del mondo .
Tuttavia è proprio questo aspetto del FN, la sua capacità di aver catturato ed "egemonizzato" una forma di ribellione, che rende qualsiasi strategia di "fronte repubblicano" (integrale o parziale) un nutrimento per lo stesso FN, legittimando il suo discorso di essere “solo contro tutti” e il suo rivendicato statuto di sola forza che si oppone al "sistema", addirittura in maniera “radicale”. L'estrema destra attuale prende forza proprio da questa raccolta della rabbia e della radicalità ed è in questo senso che, come tutti i fascismi, è una forza deviata di rivolta. L'altra faccia di questo processo non è altro che l'impotenza della sinistra cosiddetta “radicale”, la sua incapacità non solamente di proporre una contro-egemonia delle classi subalterne, ma semplicemente di farsi riconoscere come la forza che rappresenta la vera contestazione dell'ordine esistente.

Un disastro che viene da lontano

L'estremo indebolimento della "sinistra radicale", reso evidente anche dal risultato negativo del voto di domenica scorsa (circa il 5% dei voti), può essere attribuito a cause immediate relativamente semplici da capire.
In primo luogo, una strategia di alleanze "a geometria variabile", che in scrutini precedenti includeva anche alleanze tra la componente principale del Front de gauche (FdG), il Partito comunista francese, con il Partito socialista, che hanno messo alla prova l'unità e la coerenza di tale coalizione e reso per così dire "illeggibile" il suo posizionamento.
Si aggiunga il carattere di relazione tra “cartelli” di questa coalizione, che ha impedito un reale ancoraggio "dal basso" e riprodotto frammentazione e forme di concorrenza interna. Eppure, per quanto gravi, questi processi sono i sintomi piuttosto che le cause del declino.

Ciò che è fondamentalmente in questione è un processo di frammentazione dell'identità ideologica e programmatica della "sinistra radicale", che allo stesso tempo si nutre della - e conduce alla - sua subordinazione a una socialdemocrazia a sua volta diventata fedele servitore del neoliberismo. Tale processo è segnato da una catena di rinunce, piccoli e grandi compromessi e omissioni che spiegano, nel caso della Francia, l'allineamento al consenso securitario e imperialista incarnato dal voto unanime lo scorso 19 novembre dei deputati del FdG a favore dell'estensione a tre mesi dello stato di emergenza, seguito dall'apparentamento delle liste del FdG con quelle del PS al secondo turno delle elezioni regionali "per bloccare il FN".
In parole povere, la "sinistra radicale" francese (e non solo) ha creduto e crede ancora che l'opposizione alle politiche neoliberiste, insieme al sostegno alle mobilitazioni sociali contro di esse, sia sufficiente a costituire una proposta politica.

Dietro questa convinzione, se si gratta un po', se ne trova un'altra che consiste nel credere che, visto che la socialdemocrazia si è allineata al neoliberismo e che il progetto di una rivoluzione anticapitalista è stato sepolto dalla fine dell'URSS, si sia aperto uno spazio politico per le forze che persistono nella difesa delle conquiste dello stato sociale, unica eredità difendibile delle lotte del movimento operaio. Per quanto si possa pensare che queste conquiste abbiano un significato storico innegabile - nonostante i discorsi pseudo-sovversivi di denuncia dello stato sociale veicolati da Toni Negri e dall'estrema sinistra del blocco neoliberista - la loro semplice difesa è lontana da costituire un progetto politico degno di questo nome, per non parlare di un progetto che si prefigge la rottura dell'ordine capitalista. Nel migliore dei casi si tratta di quello che Gramsci chiamava la dimensione “economico-corporativa” dell'azione politica, quella della difesa degli interessi immediati delle classi subalterne, staccata da qualsiasi orizzonte “egemonico” che aspiri a svolgere un ruolo di direzione e di orientamento della formazione sociale nella direzione antagonista all'ordine esistente.

Il potere economico e politico del capitale e delle istituzioni che ne sono la forma condensata (a livello nazionale e internazionale) comporta tuttavia molti altri aspetti che fanno sistema. Limitandoci al caso della Francia, citiamo in ordine sparso: gli interventi imperialisti, dal Mali e dalla Libia alla Siria; la deriva autoritaria delle istituzioni statali, chiuse su se stesse da un regime presidenziale che svuota di ogni sostanza la politica rappresentativa; il crescente trattamento da razza subalterna riservata ai gruppi sociali di origine immigrata con l’obiettivo di dividere le classi popolari; l’utilizzo dell’Unione europea e delle sue istituzioni (tra cui la Bce e l’euro ma anche il sistema di controllo delle frontiere) come mezzi per “sacralizzare” le politiche neoliberiste, spezzare le resistenze e controllare i popoli creandoci una gerarchia.

E’ su tutti questi aspetti che le rinunce si sono accumulate: rinuncia ad opporsi all’offensiva razzista portata avanti sotto forma di difesa della “laicità” e della “Repubblica” e diventata politica ufficiale sotto la presidenza di Sarkozy, quel Lepenismo “leggero” che ha spalancato la via al Lepenismo tout court. Silenzio sul ruolo dell’imperialismo francese, in particolare nel suo dominio d’influenza africano, ma anche nello scatenamento delle sue ambizioni da strapazzo (ma terribilmente pericolose) in Medioriente. Europeismo beato, anche dopo lo schiacciamento della Grecia. Assenza totale di riflessione sul restringimento democratico e la fuga in avanti autoritaria.

Per coronare il tutto, la condanna delle politiche neoliberiste stessa è diventata sempre più retorica, sempre meno legata a proposte alternative e questo è avvenuto nello stesso momento in cui il rullo compressore dell’austerità tende a accreditare l’idea che ogni resistenza è futile e ogni alternativa impraticabile. La capitolazione di Tsipras, che ha ricevuto la rumorosa approvazione di Pierre Laurent, di Gregor Gysi o di Pablo Iglesias, ha contribuito pesantemente a questo abbassamento drastico delle aspettative, al punto che il ruolo di un correttivo della socialdemocrazia appare come il massimo che questa “sinistra radicale” possa sperare di ottenere nella congiuntura attuale, così come indicano l’accordo Ps/Bloco-Pcp in Portogallo e lo spostamento verso il centro di Podemos in Spagna. Logicamente in fondo a questo processo di slittamento graduale ma ininterrotto si trova la subalternità ideologica e politica e l’impotenza davanti al deterioramento della situazione sociale e politica.

In questo contesto, le ingiunzioni all’”unità” hanno qualcosa di inopportuno e vano. Lo stesso vale per gli appelli incantatori a un “grande movimento sociale” o un “nuovo Maggio 68”. Se si vuole uscire dall’impotenza attuale bisogna cominciare con il riconoscere che le forme con cui sono state tentate la ricomposizione politica nel corso dell’ultimo periodo sono tutte naufragate, inclusi i tentativi di far emergere costruzioni durature a partire dalle mobilitazioni sociali (che pure non sono mancate, in particolare nel corso del periodo 1995-2006). Lo stesso si può dire per le forze che hanno persistito nella via dell’estrema sinistra dagli anni 70 in poi, a prescindere dai meriti delle posizioni degli uni o degli altri a vari propositi. E’ la disintegrazione ideologica e politica che produce la frammentazione organizzativa e che amplifica gli effetti corrosivi dell’offensiva neoliberista autoritaria sul corpo sociale.

Per le (deboli) forze rimanenti che si concepiscono come antagoniste al capitalismo – e nella misura in cui si concepiscano così e non come forze di “rifondazione dei valori della sinistra” come si legge così spesso in giro in questi ultimi tempi – il raggruppamento dietro le forze di gestione del sistema in nome di uno “sbarramento anti-FN” corrisponde ad un suicidio puro e semplice. O piuttosto alla fase terminale di una resa subalterna e cooptazione da parte di un social-liberismo che è diventato un neoliberismo sempre più muscoloso e autoritario.

Se ci resta ancora qualche speranza essa può solamente risiedere nella possibilità di una reazione al disastro che si prospetta, affermando una rottura con i discorsi lenitivi e con il tran-tran mortifero dell’interminabile rinuncia.

Sarebbe “più” che ora ed è in questo “più” che risiede la possibilità. Forse.

*http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article36645 Traduzione di. Nadia Demond e Piero Maestri