Il "No sociale" è una pratica, se è uno slogan non serve

Fri, 21/10/2016 - 15:11
di
Thomas Müntzer

È forse la campagna elettorale più lunga a cui abbiamo assistito, di fatto iniziata già lo scorso giugno. Una campagna in cui Renzi e il suo Governo si giocano il proprio futuro politico e conseguentemente mettono in campo tutti i mezzi a propria disposizione. Dalla cena di gran gala dallo sponsor Obama – insieme ai sodali Benigni, Armani e John Elkan – ai faccia a faccia televisivi con conduttori compiacenti, passando ovviamente per la finanziaria, la cosiddetta legge di stabilità con mosse acchiappa-consenso come quella dell’abolizione di Equitalia, e per promesse a clientele varie come quelle legate al Ponte sullo stretto.
Renzi del resto sa fare il suo mestiere, nel modo sporco che conosciamo, ma che non ci sorprende. E se dovesse vincere sarà pronto a vendicarsi di tutti i nemici – ad iniziare da quelli interni al Pd – e a sprigionare con ancor più furore le politiche liberiste e supine verso gli interessi dei grandi capitali che già ci ha mostrato con il Jobs act, la “Buona scuola” e gli interventi di salvataggio delle banche.
La sua megalomania lo ha portato però a pensare un plebiscito su di sé e il suo Governo su una riforma Costituzionale modesta e pasticciata nei suoi stessi obiettivi dichiarati, pensando di poter ottenere un ampio consenso grazie alla riduzione di qualche senatore. Ma si era fatto male i conti e ora sta sul filo del rasoio, visto che gli anni del suo Governo hanno raccolto più rabbia che consenso come visto nelle ultime elezioni amministrative.

Il No è infatti è visto come l’occasione per far fuori Renzi per tutte le opposizioni: quella della vecchia guardia del Pd per provare a riprendersi il partito, quella dei Cinque stelle per lanciarsi come unica vera alternativa di Governo, quella della destra di Salvini, Meloni e Brunetta per rompere l’immobilismo e arginare la strategia di Alfano (mentre la destra berlusconiana è meno convinta sul da farsi seppur formalmente schierata con il No) ma anche quella della sinistra radicale e sociale per bocciare le politiche autoritarie e liberiste del Governo.
Questa è una campagna però profondamente televisiva, all’americana, in cui ognuno rischia solo di fare il tifo nei talk show, trovandosi spesso a dover “tifare” per inquietanti compagni di strada. E che proprio per questo rischia di non mettere in difficoltà il Governo quanto potrebbe.

Da questo disagio nasce l’idea del “No sociale”. Il problema però è che se il “No sociale” si riduce ad uno slogan politico serve a poco, anzi fra gli slogan per il No rischia di esser pure il meno comprensibile in assoluto. Il “No sociale” ha un senso se è una pratica, se è invece uno slogan per organizzare una manifestazione contro il Governo, meglio inventarsene un altro.

Per questo ci interessa e abbiamo costruito lo sciopero di oggi venerdì 21 ottobre contro gli effetti del jobs act che proprio in questi giorni diventano più chiari con la certificazione dell’Inps dell’aumento nell’ultimo anno del 30% dei licenziamenti e del 35% dell’utilizzo dei Voucher. Così come ancor più fondamentale vista la dinamica di movimento in atto è la mobilitazione contro la violenza sulle donne del 26 novembre per contrastare le politiche educative, sociali e culturali di questo Governo che di fatto favoriscono la violenza di genere. E ne servirebbero altre, magari degli insegnati e studenti contro la “buona scuola”, o degli universitari contro un'università dequalificata da tagli e meritocrazia. È mettendo in difficoltà socialmente il Governo che si da forza ad un No non meramente conservativo e in grado di parlare del significato sociale di questa riforma e non solo delle sue tecnicalità, e di saperla collegare alla serie di riforme liberiste messe in campo da Renzi e che gran parte del variegato fronte del No non ha nessuna intenzione di mettere in discussione.

Proprio per questo in un tale contesto ci sembrano meno efficaci, seppur condivisibili nei contenuti, le manifestazioni tutte politiche proposte da pezzi diversi della sinistra radicale per ottobre e per novembre, che rischiano di andare poco oltre la testimonianza della propria presenza politica nel fronte del No, trasformando in uno slogan tutto identitario quella che è invece un’urgente pratica sociale.

Più importante sarebbe piuttosto riuscire a dare un’identità agli stessi contenuti con cui contestiamo la Riforma costituzionale di Renzi, per non essere schiacciati sulla difesa dell’esistente né tantomeno sulla fastidiosa retorica dell’intoccabilità dei “padri costituenti”, e nemmeno soltanto sul cervellotico e anti-democratico metodo di elezione dei senatori escogitato dai renziani.
Il punto è la critica radicale della democrazia esistente, e l’urgente necessità di dare legittimità, spazi e potere decisionale a nuove forme di partecipazione che invece vengono continuamente ignorate, quando non represse e sgomberate. Siamo in un’epoca di profonda distanza tra politica e società, con una crisi evidente di consenso e partecipazione dei partiti politici che nella Costituzione del ’48 sono considerati il perno della partecipazione democratica dei cittadini.
La soluzione di Renzi è la presunta necessità di velocizzare le decisioni, come se il problema della democrazia fosse di “produttività”, come se le Istituzioni democratiche dovessero funzionare con la stessa logica di un’azienda. Il movimento grillino è nato aggredendo il problema del distacco tra politica e società, ma la montagna ha partorito un topolino sostituendo semplicemente i partiti e i politici di professione con normali “cittadini” con la sola qualità di essere iscritti al sito di Grillo, riproducendo in tutto e per tutto una logica passivizzante di totale delega.

La nostra vera forza in queste settimane deve essere quella di immettere nel dibattito le forme di democrazia a cui alludono esperienze come Massa Critica a Napoli e Decide Roma, quelle di movimenti duraturi come i No Tav, o anche quelle di carattere democratico-produttivo come la Rete Fuori Mercato. Sono queste le esperienze da contrapporre all’idea di democrazia di questa riforma costituzionale, su cui sfidare anche le “soluzioni” a-conflittuali prospettate dal movimento Cinque stelle. Il punto è ricostruire la partecipazione diretta, nuove forme di autorganizzazione, limitare al massimo la delega, dare il giusto tempo di discussione alle leggi proprio per renderle permeabili ai conflitti sociali in modo da poter essere modificate o proposte anche da chi sta fuori dal parlamento, aumentando le possibilità di democrazia diretta (che invece nella riforma Renzi diminuiscono visto che triplicano le firme per le leggi di iniziativa popolare e di fatto aumentano quelle per i referendum).

Queste sono le pratiche di “No sociale” che ci interessano, quelle che costruiamo ogni giorno e che è necessario far vivere in queste settimane per uscire da una campagna elettorale finora ben poco allettante e dare una prospettiva alla possibile vittoria del No anche dopo il 4 dicembre.